Arrivato a Torino per presentare i tre lungometraggi della trilogia Teenage Apocalypse, James Duval ha avuto modo di raccontare la collaborazione con Araki, il legame speciale che li unisce e il proprio lavoro nei film indipendenti, dimostrandosi un artista dalla spiccata sensibilità e dotato di un’estrema profondità d’animo.
Al Lovers Film Festival saranno presentati Totally F***ed Up, The Doom Generation e Nowhere, finalmente nelle loro versioni restaurate e originali. Questa, quindi, sarà una rara occasione per vedere le tre opere così come Gregg Araki le aveva originariamente pensate, provviste di tutte le scene che negli anni Novanta erano state tagliate dalla censura per poter far circolare i film.
Queste versioni, quindi, rappresentano Gregg Araki nella sua più completa gloria, come ha affermato lo stesso James Duval.

Immagine gentilmente concessa dall’ufficio stampa
James Duval e il mondo indie
L’attore statunitense esordisce nel mondo cinematografico nel 1993, grazie al film An Ambush of Ghosts (Everett Lewis). Nello stesso anno Duval interpreta Andy, un giovane adolescente disilluso, in Totally F***ed Up (Gregg Araki). Gli altri due lungometraggi che lo vedranno protagonista dei film di Araki sono The Doom Generation e Nowhere, in cui i personaggi incarnati da James Duval racchiudono il sentimento di alienazione adolescenziale della Generazione X. Ed è proprio grazie al brillante lavoro svolto in questi film che l’attore acquisisce grande notorietà, recitando in numerose opere (soprattutto indipendenti) e, proprio per la diversità dei ruoli interpretati, ha dimostrato di essere un artista estremamente versatile.
Oltre ad essere ricordato per i personaggi impersonati nella trilogia di Araki, James Duval è noto per essere stato Frank all’interno del cult Donnie Darko, Miguel in Independence Day, Singh in Go – Una notte da dimenticare e Blank in May.
L’incontro con Gregg Araki e i ruoli nella Teenage Apocalypse Trilogy
Com’è nata la collaborazione con Gregg Araki e cosa ha significato per te far parte della Teenage Apocalypse Trilogy?
Fin dal primo momento in cui io e Gregg ci siamo incontrati c’è stata una sorta di magica connessione tra di noi. Quando stavamo girando il primo film ci siamo accorti di poter comunicare senza effettivamente dire nulla a parole, potevamo guardarci a vicenda e comunicare perfettamente ciò che volevamo dire e come ci sentivamo. Ricordo che Gregg parlò con il suo produttore dicendo: «Ho incontrato James, è fantastico. Voglio che sia in tutti i miei film!».
Quando stavo realizzando questi film non mi rendevo conto della loro effettiva potenza e importanza. Sapevo bene cosa significassero per me, ma non potevo minimamente immaginare cosa sarebbero potuti diventare e, soprattutto, se qualcuno li avrebbe poi effettivamente visti. Fortunatamente i film sono stati realizzati e visti da un pubblico vasto, che sorprendentemente siamo riusciti a toccare nel profondo. Solo il fatto che siamo riusciti a concretizzare queste opere è stato un grande miracolo per noi.
In realtà abbiamo girato un altro corto, tra The Doom Generation e Nowhere che nessuno ha mai visto. Si chiama There Is No Time For Dreaming. Anche in questo caso io e Gregg ci siamo sforzati di creare delle storie e dei personaggi che rappresentassero ciò che accadeva intorno a noi e che toccassero le persone nel profondo. Considerando che The Doom Generation era il nostro primo grande film, con questo cortometraggio la nostra intenzione era quella di approfondire gli stessi temi della trilogia, ma tornando a fare film più piccoli, con pochi soldi, ma che avessero cose importanti da dire, così com’è successo quando abbiamo iniziato a girare insieme.
Infine, io e Gregg siamo due persone sorprendentemente molto simili. Lui ha qualche anno in più rispetto a me, ma abbiamo molte cose che ci legano. Ci piace la stessa musica e siamo due persone estremamente monogame. Mi spiego: in questi film i miei personaggi cercano sempre una sola persona da amare e vorrebbero essere amati da una persona soltanto per il resto della loro vita. Questo tema non è solo ciò che lega me e Gregg, ma anche il filo conduttore dei suoi film e rappresenta anche la nostra visione del mondo.
La recitazione all’interno del panorama indipendente
Nel corso della tua carriera hai lavorato in moltissimi film indipendenti che, da un punto di vista registico, comportano una grande libertà d’espressione artistica. Dal punto di vista di un attore, invece, cosa significa recitare in opere indipendenti?
Quando incontrai Gregg Araki io avevo 18 anni. Ero molto confuso, non sapevo cosa fare. Non voglio suonare banale, ma Gregg mi ha davvero cambiato la vita. Noi volevamo fare film che dicessero qualcosa, magari che non dicessero anche niente, ma l’importante era che noi stavamo facendo esattamente ciò di cui parlavamo nei film, ovvero creare connessione. È impossibile fare film da soli, girare un film implica uno sforzo collettivo e, quindi, si crea un senso di famiglia, un senso di comunità, da uno scopo. Questa penso sia una cosa davvero importante.
Uno degli ultimi film che ho realizzato mi fa pensare perfettamente al perché amo fare film. È una murder comedy dove interpreto il ruolo di quello divertente, mentre il protagonista, che è un comico, interpreta quello serio. Ci sono queste scene in cui io ho tradito la mia compagna, quindi continuo a dire a lui: «Non dirglielo, non dirglielo!». Mentre lavoravamo al film ci siamo costantemente inventati nuove idee, fino ad arrivare al punto in cui gli dicevo queste frasi cantando. Oppure, quando uscivo di scena gli arrivava un messaggio con scritto: «Non dirglielo!». Tutto ciò non c’era nella sceneggiatura. È qualcosa a cui abbiamo lavorato tutti assieme mentre facevamo il film. Questo processo mi da tanta gioia.
Quando ho iniziato a lavorare nel mondo del cinema mi sono reso conto che volevo fare film che suscitassero dei cambiamenti, che sfidassero i preconcetti ed è quello che, secondo me, tutta l’arte dovrebbe fare. Quando ho letto la sceneggiatura di Donnie Darko, ad esempio, ho realizzato che avrei dovuto introdurre qualcosa di me nel personaggio. Solo in questa maniera so di poter dare il meglio di me stesso. Fare film più commerciali mi è piaciuto, ma non possedevano lo stesso carattere ed era difficile per me recitare quei ruoli. Molti attori mi hanno detto che è del tutto normale non amare tutte i personaggi che si devono interpretare. Il mio compito, dunque, era quello di fare le cose al meglio e risultare il più convincente possibile.

James Duval in Totally F***ed Up
A fucked up generation
Nonostante siano passati trent’anni dalla sua realizzazione, la trilogia diretta da Gregg Araki risulta ancora estremamente attuale, rappresentando perfettamente il senso di non-appartenenza, la rabbia e la disillusione provata dai giovani, così come il loro forte desiderio di riscatto personale.
«Quando abbiamo girato questi film, negli anni Novanta, non erano accettabili e questo è proprio il motivo per cui li abbiamo fatti. Ora le cose sembrano andare un po’ meglio: le nuove generazioni cercano di rompere le barriere, anche se i governi continuano ad opporsi. Adesso ci sono più giovani che mai. Quando noi eravamo giovani la società cercava di imporci le loro regole e le loro restrizioni. Noi abbiamo detto: «Andate a fanculo!». Adesso, invece, i giovani d’oggi sono molto ispirati, hanno una fiamma dentro di loro che li guida a combattere per i problemi sociali. Ciò permette loro di dire: adesso vivo come voglio io.
Noi speriamo che i messaggi presenti nei nostri film raggiungano tutti. A dire la verità, sembra proprio di sì. Da quando stiamo mostrando per le prime volte la versione restaurata di queste opere metà del pubblico, che ha meno di vent’anni, dice che questi sono i loro film preferiti.
Penso che la cosa importante sia realizzare film che creino comunità. Quando noi giravamo i film con Gregg, speravamo di raggiungere anche una sola persona e che questa potesse sentirsi rappresentata. Io stesso ero molto giovane e c’era molta gente che si stava uccidendo. Purtroppo, è una cosa ancora comune, molto più comune di ciò che pensiamo. Gregg ci ha dato un senso di comunità, uno spazio per condividere le nostre emozioni, i nostri problemi e ci ha dato un obiettivo comune».