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Conversation

‘La Città Proibita’ conversazione con Enrico Borello

Enrico Borello e Marco Giallini ne 'La città proibita' come Johnny Depp e Al Pacino in 'Donnie Brasco'. Del film di Gabriele Mainetti parliamo con Enrico Borello

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enrico borello

Abituato a rimanere in disparte Marcello (Enrico Borello) è costretto a uscire fuori dal guscio e a combattere a modo suo per proteggere la donna che ama. Del suo personaggio, del rapporto con Gabriele Mainetti e Marco Giallini abbiamo chiesto a Enrico Borello, protagonista de La Città Proibita.

Prodotto da PiperFilm, WildeSide e Goon Films e distribuito in Italia da Piper Film La città proibita è attualmente in sala.

La fotografia di copertina è di Guido Stazzoni.

enrico borello

Enrico Borello ne La città proibita

L’altro giorno si parlava con Fabrizio Ferracane dei film che cambiano la carriera di un attore. Anche se è troppo presto per dirlo mi viene da pensare che per te possa esserlo La città proibita anche perché trattandosi di un film di genere ha più possibilità di influenzare l’immaginario collettivo e dunque di far rimanere più impresso il tuo personaggio. C’è in te questa consapevolezza? Parlo anche in termini di successo personale.

In realtà non lo so. Cioè da questo punto di vista non mi faccio neanche troppe domande, o quantomeno le mie antenne non sono dipendenti da questo aspetto. Se c’è o non c’è, non dipende da me. Il cambiamento invece esiste ed è rilevante in termini di vita personale: riguarda l’esperienza sul set e la prima volta che ho visto il film. Le cose successe mentre giravo e poi quelle suscitate dalla visione del film, due anni dopo che erano finite le riprese, hanno acceso dei nuovi stimoli in termini di crescita, di volontà di fare meglio alcune cose o semplicemente di saperle padroneggiare sempre di più. Cambiare non è mai facile, ma sono queste difficoltà a darmi vivacità. La città proibita ha creato un prima e un dopo nella mia vita nella misura in cui ho imparato delle cose molto significative su questo mestiere.

Gabriele Mainetti è un inventore di mondi capace di stravolgere le coordinate del nostro quotidiano. Ne La città proibita succede con Roma che il regista ci fa vedere come non l’avevamo mai immaginata. Mentre giravi hai avuto la sensazione di trovarti in un altro posto o te ne sei accorto solo dopo aver visto il film?

L’Esquilino è il quartiere dove sono nato e cresciuto. Conoscendolo a memoria mi sono accorto subito che sul set c’era un atmosfera diversa. Questo perché la bravura di un regista non si esprime solo in termini di inquadrature, ma anche nella capacità di creare mondi con la scenografia e facendo attenzione ai minimi dettagli. La fotografia è bella non solo per il talento del direttore della fotografia, ma anche per la scelta dei colori e delle ambientazioni. Tutti questi elementi Gabriele li ha portati sul set, ma leggendo la sceneggiatura era chiaro che la storia ci avrebbe fatto entrare in una Roma shakespeariana. All’inizio credevo che avrei avuto grande familiarità con quelle location per il fatto di conoscerle a fondo invece sono stato investito da una forte sensazione di estraneità che mi ha completamente spiazzato.

La città proibita Blade runner

Cosmopolita, multietnica e iper popolata la Roma de La città proibita mi ha ricordato una versione colorata della Los Angeles di Blade Runner. 

Sì, esatto, l’impatto è un po’ quello lì.

Come nel film di Ridley Scott anche in quello di Mainetti l’identità della città è destinata a essere riformulata dalla preponderanza dell’elemento di rottura qui rappresentato dalla comunità cinese e più in generale dal suo melting pot. Per entrare in un universo così fatto non basta leggere la sceneggiatura né conoscere a menadito la filmografia del regista. In questi casi diventa necessaria la conoscenza personale dell’uomo prima che del cineasta.

Questa è una domanda molto precisa che per me tocca un nervo molto scoperto. Parlo del processo di conoscenza di cui ti dicevo all’inizio. Prima ero convinto che fosse il testo a farla da padrone nel senso che, volente o nolente, è la scrittura a influenzare coloro che lavorano al film. È lei che innesca il processo di cambiamento senza che tu te ne accorga. Una volta che approcci un testo, più passa il tempo e più quello lavora su di te. Io mi sono sempre basato molto su questa convinzione. Al contrario la conoscenza di Gabriele mi ha fatto scoprire quanto sia fondamentale per un attore la capacità di creare uno spazio interiore in grado di accogliere uno sguardo, un’emotività, un’istintività perché solo così possiamo restituire il mondo immaginato dal regista. Spetta a noi rendere reale il suo sogno ma questo può succedere solo se siamo generosi. Da qui la necessità di imparare ad accogliere l’altro in una maniera totalizzante e ogni volta diversa a seconda del regista con cui lavori. Per questo la conoscenza diretta è fondamentale. La personalità di Gabriele è estremamente complessa, sfaccettata e piena di passione. Lui ha così tanti mondi dentro di sé che quando la relazione diventa profonda non è facile da sostenere, specialmente per chi è alle prime armi.

Enrico Borello al servizio del film e dei personaggi

Per il cinema che fa Mainetti può essere considerato una specie di pioniere non solo in termini tecnici, ma anche produttivi. Il coraggio e la determinazione con cui accetta il rischio delle sue scelte hanno bisogno di trovare attori  disposti ad accettarne le sfide.

Per come la vivo io un attore deve essere in grado di sposare i progetti, quindi non posso che condividere la tua affermazione. Peraltro mi piace molto il modo in cui guardi le cose perché risuona molto dentro di me anche per i termini che usi che sono gli stessi da me utilizzati. Quindi sono d’accordo sul fatto che Gabriele sia un pioniere e sono pure consapevole che quando si batte una nuova pista non lo si può fare da soli perché poi si va incontro anche a spazi sconosciuti e ancora a strade sbagliate. Camminare a fianco di una persona che apre un nuovo sentiero significa avere fiducia nel suo percorso e in questo ovviamente ognuno è pioniere del proprio percorso. Secondo me tra pionieri un po’ ci si incontra. Non so se lo sono anche io, però comunque io trovo Gabriele coraggiosissimo nelle scelte che fa, nei rischi che si prende e anche nel mettere in mano ai suoi collaboratori grandi responsabilità. Tra quelli conosciuti credo che sia il più estremo. Non che altri non lo siano, ma lui lo è ancora di più.

Diventare un personaggio presuppone di credere fino in fondo alla sua realtà. In questo caso il processo di accettazione messo in atto da Marcello per fare fronte alle scoperte che la vita gli propone si sovrapponeva al percorso che hai fatto tu per ritenere vero il mondo di Gabriele. Questo mi fa pensare che in un film come La città proibita l’assimilazione dei presupposti narrativi abbia bisogno di un’introspezione ancora più forte del solito.

Quando ho fatto il secondo provino ero ancora il tipo d’attore che fa un po’ come gli pare e che puntava a mettere nel personaggio un sacco di cose personali. Gabriele mi ha messo in riga con grande sapienza spingendomi a domandarmi in che modo avrei dovuto credere a tutte le cose che mi proponeva. A quel punto mi sono chiesto come mi sarei comportato se fossi stato Marcello. Dentro di me si è innescato un meccanismo di rifiuto rispetto alle dinamiche che questo film mi metteva davanti e da quello è partita la mia ricerca. Mi sono confrontato con tutti gli elementi della negazione, quelli messi in atto da una persona a cui viene sconvolta la sua vita. È così che sono venuto a capo del mio personaggio.

Marcello e Mei

La città proibita è un film a due velocità. Quella iper cinetica di Mei e poi la tua che è quasi inesistente poiché Marcello all’inizio del film è un uomo che ha smesso di lottare. La drammaturgia del film nasce dal conflitto tra velocità diverse.

Sì, e secondo me questo si rispecchia nel tentativo di Marcello di mantenere le cose come sono, nel suo tentativo di non pensare a un possibile risvolto, a una soluzione immediata. Ci sono un paio di momenti in cui lui ci prova e fallisce ed è la cosa che più mi piace di lui. Il tentativo fallito è qualcosa che appartiene alla velocità interna di Marcello e non solo a quella del film. Si tratta di azioni non troppo convinte come lo è quella di baciare Mei. Dopo un secondo si scusa e si tira indietro. Penso a quando va da Wang con il coltello. Anche lì fa un gesto pieno di prosopopea, ma senza efficacia perché poi si ferma davanti all’ingresso del locale. L’unica volta in cui è determinato è nel momento in cui vuole finalmente provare a dire qualcosa e quello che fa è affermare la verità. Quella di guardare in faccia il pensiero che ha nei confronti della persona che l’ha tradito e che lui ama, dicendogli: “noi ti abbiamo amato, noi ti amiamo e tu hai rinnegato questo sentimento sputandoci sopra!”.

Rispetto a Mei tu sei il personaggio che non ha super poteri. In realtà la storia racconta di come anche Marcello ne acquisisca uno. All’inizio è fermo, rassegnato, poi il contatto con una realtà nuova e drammatica gli dà la forza per prendere in mano la propria vita, determinandola.

Sì, secondo me Marcello trova il modo di provare a crescere cercando di essere la sua versione più adulta. Secondo me il suo super potere si concretizza nel prendere in mano se stesso, nel tentativo di essere semplicemente sé stesso nell’affrontare le questioni che lo affliggono. Marcello a un certo punto riesce a tirarle fuori parlandone con il linguaggio dell’amore, che poi è il suo super potere. D’altronde quando guardo La città proibita vedo un film d’amore in cui è centrale il saper amare, il saper proteggere le cose care non in un senso coatto come intendevano i latini, ma con la protezione che lascia alle cose di essere come sono.

Enrico Borello negli elementi tipici del cinema di Mainetti

Il percorso di formazione di Marcello è quello tipico dei personaggi di Mainetti, drop out destinati a uscire fuori dai margini in maniera tutt’altro che eclatante e senza mai rinunciare al proprio understatement. La consapevolezza non li cambia perché in fondo rimangono sempre se stessi. Marcello porta a compimento il suo percorso ma sceglie comunque la via dell’anonimato.

Sono d’accordo. Un’altra cosa che mi ha affascinato e che ho realizzato solo dopo aver visto il film è che questi personaggi non vivono quasi mai momenti di piena catarsi come la consideravano gli antichi greci. Per loro non esiste il momento dell’immedesimazione ma solo quello dell’andare oltre lasciandosi le cose alle spalle. Noi ci dimentichiamo un po’ di Alfredo e Yun, così come di Annibale. Arriviamo sempre a dei momenti finali in cui la finitezza delle cose si manifesta in maniera silente come accade nella vita. Totò diceva che la felicità passa attraverso piccoli momenti di dimenticanza e secondo me nel film c’è questo aspetto popolare della vita semplice. Gabriele riesce a coglierlo e a restituirlo con la stessa schiettezza con cui succede nella vita.

I film di Mainetti sono sempre il risultato di una commistione di realtà e immaginazione. In tale ottica il tuo personaggio è chiamato a fare da punto di equilibrio tra queste due componenti considerando che Marcello è l’unico personaggio ad avere un vero un proprio arco psicologico. 

Mentre giravamo la cosa più complicata era vedere la destrezza con cui gli altri attori interpretavano i loro alter ego. Li vedevo così dritti, senza ostacoli, poi sono sicuro che anche loro ne hanno avuti moltissimi, però quello che percepivo era questa grande differenza tra me e loro. Mi sembrava che qualunque passo facessi finisse per calpestare delle uova. Secondo me questo deriva dal fatto che Marcello non aveva caratteristiche delineate come le avevano altri, ma che si muovesse tra essere e non essere. Era un personaggio scritto – e spero anche interpretato – nel costante tentativo di definirsi in un modo nell’altro. Da qui la difficoltà a esprimersi per quello che è. Questo da vivere era molto frustrante perché poi le domande che si faceva Marcello erano le stesse che mi facevo io come attore. Mi chiedevo se ce l’avrei fatta, se ero abbastanza bravo, se il mio lavoro stava funzionando, se c’era qualcosa che non andava in me. Insomma sono stato sempre in bilico tra il film e la realtà fino al termine delle riprese.

La normalità di Enrico Borello

In effetti per costruire i personaggio avete lavorato sul concetto di normalità attraverso un lavoro di sottrazione che ti ha tolto qualsiasi possibilità di appiglio esterno. Mi viene in mente l’anonimato del tuo appeal, del tuo taglio di capelli, del modo poco appariscente di vestire.

Una volta il parrucchiere sistemandomi i capelli mi disse che avevo il fascino della normalità. Pensare che di me arrivava quell’immagine mi ha fatto incazzare da morire perché comunque come attore sono anche estremamente vanitoso. Anche perché per me Marcello era una specie di Amleto shakespeariano riscritto in senso anti eroico. Interpretarlo in quel modo è stato molto difficile anche perché mi sentivo molto solo. Per fortuna Gabriele mi ha aiutato tanto anche quando io faticavo ad accettarlo.

A forza di togliere però siete riusciti a far uscire fuori l’anima del personaggio, quella in cui risiede il suo super potere. Al termine del film Marcello appare come trasfigurato talmente è visibile la nuova energia che lo pervade.

Quello è un animo a cui sono molto legato perché per me è anche un modo di essere. È un’anima che in qualche modo abbiamo un po’ perso ma che in realtà esiste in tanti di noi e che mi ricorda una persona a cui sono molto legato. A me appare come un modo di essere che  guarda un po’ al passato, quindi è inevitabile che sia pervasa da uno sguardo nostalgico. È un’anima dotata di un coraggio silenzioso che mi è stata data da una figura molto importante nella mia vita. Non so darle un nome. ma si manifesta in chi come Marcello è abituato a usare le mani per preparare i cibi. È qualcosa che a che fare con il toccare gli ingredienti. Per farlo ci vuole cura.

L’immagine finale in questo senso suggella quanto hai detto perché ci mostra Marcello finalmente pronto per prendersi cura degli altri assumendosene le responsabilità.

Esatto.

La forza di Marcello

In un momento in cui l’ego è dominante Marcello è espressione di un modello maschile che trova la propria forza al di fuori di questo protagonismo spinto.

La forza di Marcello sta nel prendersi un po’ in giro, nel fare un po’ ironia su se stesso, nell’accettare anche i propri limiti, nel riconoscere la propria essenza. Nello scoprirsi anche buffi e simpatici senza che ci sia niente di male. Non bisogna necessariamente essere fichi o sempre performanti. L’autoironia è un aspetto che oggi purtroppo manca. Ci si prende sempre troppo sul serio.

Nella sua eccezionalità Marcello trova un corrispettivo femminile nella Lara di Follemente. Come il tuo personaggio anche quello di Pilar Fogliati risulta buffa e simpatica e disposta a mettersi in discussione. Non so come lo vedi questo parallelismo.

Mi sembra azzeccato. Peraltro ho visto il film, l’ho apprezzato molto e ho avuto anche modo di dirglielo. Forse nella nostra generazione esiste in alcuni di noi questa visione delle cose, e cioè il tentativo di riportare la conversazione e il dialogo a un livello più reale e pratico. Nel prendersi in giro e nello scherzare c’è in qualche modo un’ottima soluzione pratica per affrontare la vita. La ritengo un modo di accettare la realtà raccontandosi senza l’ossessione di essere perfetti. Per contro c’è la proposta di non accettarla del tutto apparendo come non si è, ovvero impeccabili, ultra efficaci. Ovviamente questi sono stati processi che abbiamo fatto insieme a Gabriele. Poi certo, nel mio lavoro porto l’identità che mi appartiene e che cerco sempre di proteggere perché è quella che mi ha formato.

Enrico Borello e Marco Giallini

Nell’importanza di accogliere l’altro riconosco una parte imprescindibile dell’essere attore che risiede nell’ascolto. Tu e Marco Giallini ne date prova in una delle scene più belle e drammatiche, quella della resa dei conti tra i vostri personaggi. In particolare ti chiedo di dirmi qualcosa sull’interpretazione di Giallini perché il suo Annibale è uno di quei personaggi che tutti vorrebbero fare e lui lo rende una figura monumentale, a metà strada tra Shakespeare ed Eduardo De Filippo.

Marco lo trovo da sempre strepitoso per cui sintonizzarmi con lui è stato inevitabile. Ascoltarlo ti trasmette una vivacità che pretende da te un movimento costante per riuscire a sapere quando assecondarlo oppure no. Marco ha un modo di esprimersi che ti mette molto alla prova per cui devi essere sempre pronto se vuoi ballare con lui. Se l’ascolto è una parte fondamentale del nostro mestiere, con Marco lo è ancora di più perché con lui l’aspetto della musica passa per quello della recitazione. Sono due punti che si mescolano perché il suo modo di dialogare secondo me è molto musicale.

Passando agli aspetti della sua interpretazione ti dico che nel corso delle riprese l’ho sempre percepito come un gigante. Qualsiasi cosa che facesse per me era sorprendente e incredibile. Trenta secondi prima stavamo scherzando, poi davano l’azione e lui in un attimo cambiava l’intensità dello sguardo. Osservandolo dal monitorino che avevo di lato mi veniva la pelle d’oca perché quello era lo sguardo con cui si rivolgeva a me. Quei momenti mi hanno fatto riflettere su che attore avevo davanti. Per me era impensabile fare una cosa del genere con altrettanta efficacia e profondità. Lui invece è capace di fare qualsiasi cosa. Basta che quella esista e Marco gli porta la ricchezza della sua vita personale. Sono d’accordo con te sul fatto che Gabriele gli abbia regalato un bellissimo personaggio.

È un gigante a cui hai saputo tenere testa.

Sul set sono un grande istrione. Mi attivo tantissimo, non ho paura di niente, mi butto, mi lancio, esagero. Davanti alla telecamera sono uno che non si fa molti scrupoli, ma con Marco e pure con Sabrina e Yaxi Liu che interpreta Mei è stato diverso rispetto dalle altre volte. Confrontarmi con Marco e con un personaggio come Annibale è stato faticoso. Mi ricordo che c’è stato un momento in cui dovevo strattonare Marco e istintivamente gli ho chiesto scusa, questo per dirti del rispetto che ho per lui. Anche con Sabrina è successa la stessa cosa nel senso che bastava mi dicesse due parole per farmi in qualche modo commuovere. Lavorare con due giganti come loro è stato proprio bello.

Il cinema di Enrico Borello

Per concludere volevo chiederti del cinema che ti piace.

Il mio film preferito è Una vita difficile di Dino Risi con Alberto Sordi. Quello è stato il mio cinema di riferimento per molti, molti anni. Quindi sono molto legato a tutta la commedia all’italiana. Sono stato un amante di Elio Petri e di Pietro Germi. Poi c’è tutto il cinema americano degli anni settanta fino al cinema asiatico che per me è un punto di ispirazione molto grande. Gli attori di riferimento cambiano sempre però ti dico quello che cerco è l’impatto viscerale di Anna Magnani, poi certo Alberto Sordi è l’attore con cui sono cresciuto. Non voglio citare gli attori americani o stranieri perché, pur ammirandoli molto, ci tengo ad avere come riferimento tutto ciò che riguarda la cinematografia italiana. Credo infatti che il modo di esprimersi sia diverso tra paese e paese e che perciò sarebbe folle se avessi come modello Daniel Day-Lewis, che per me è l’attore più grande che ci sia stato. Preferisco guardare a Filippo Timi in Dostoevskij. Il cinema è fatto di ricerca per cui come attore devo fare attenzione perché se il mio tipo di recitazione diventa Daniel Day-Lewis e mi metto a recitare come fa lui in qualche modo mi scollego con la storia della mia vita, quella da cui provengo. Non lo dico con intento patriottico, ma nella consapevolezza di saper riconoscere quali sono i punti di forza della nostra espressività. Un po’ come hanno fatto gli attori asiatici che si sono tenuti lontano dal modello americano facendo diventare un pregio la loro indolenza.

La città proibita

  • Anno: 2025
  • Durata: 137'
  • Distribuzione: PiperFilm
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Gabriele Mainetti
  • Data di uscita: 13-March-2025