Fotografia e verità non sono sinonimi. In un presente caratterizzato dalla pervasività dell’informazione, la narrazione di storie scomode o rinnegate continua spesso a prendere corpo lungo canali non ufficiali. L’azione massiccia dei media digitali e di massa, dunque, oggi più che mai non è garanzia di una corretta informazione. Decenni addietro, però, la conoscenza di eventi taciuti è stata possibile grazie a coloro che, attraverso il dispositivo fotografico, hanno mostrato una realtà prima nascosta. È il caso della fotografa Lee Miller, protagonista del film Lee Miller (Lee, 2023), diretto da Ellen Kuras. A interpretarlo è un cast di eccezione che comprende, tra gli altri, Kate Winslet, Andy Samberg, Alexander Skarsgård, Marion Cotillard e Josh O’Connor. Lee Miller arriverà nelle sale italiane il 13 marzo 2025 grazie alla distribuzione di Vertice 360.
Professione: fotoreporter
Il biopic di Ellen Kuras non mette in scena la totalità della vita di Lee Miller. Piuttosto, si focalizza sugli anni che hanno visto la fotografa immortalare la Storia dal suo interno.
L’intero arco del film nasce dalle parole di Lee stessa che, nel 1977, ripercorre circa dieci anni della sua vita, fra i Trenta e Quaranta. Nel 1937, Lee soggiorna in Francia con un nutrito gruppo di amici artisti, tra i quali il poeta Paul Éluard (Vincent Colombe). È allora che fa la conoscenza di Roland Penrose (Alexander Skarsgård), artista che seguirà in Inghilterra. Desiderosa di lavorare, Lee trova impiego a Vogue come fotoreporter durante il blitz di Londra.

A partire dal libro The Lives of Lee Miller scritto da Antony Penrose, figlio della fotografa, il racconto si focalizza quindi sul periodo della Seconda guerra mondiale. Dopo gli anni passati a lavorare per Vogue, infatti, Lee Miller è stata riconosciuta come corrispondente di guerra dall’esercito degli Stati Uniti. In quel frangente ha incontrato il fotografo di Life David Scherman (Andy Samberg), col quale inizierà una proficua collaborazione documentando la tragedia della guerra e le macerie – soprattutto umane – da essa derivate.
L’occhio di Kuras segue la Lee Miller di Kate Winslet per tutta l’Europa, dalla Francia al Regno Unito, fino ad arrivare in Germania. È in quest’ultimo paese che Miller realizzerà alcune delle fotografie più significative della Seconda guerra mondiale e della storia stessa della fotografia.
Un biopic focalizzato
Un film come Il corsetto dell’imperatrice (Corsage, Marie Kreutzer, 2022) ha offerto un ritratto inusuale di un personaggio estremamente noto, Elisabetta d’Austria. Si è scelto, infatti, di trattarne l’età adulta, andando al di là del celebre volto della giovane Romy Schneider nei panni della medesima donna. Anche Lee Miller, in un certo senso, va oltre il “già visto”: la Lee che il film presenta ha già vissuto i suoi anni da modella negli Stati Uniti, ecco perché ora è lei a tenere la macchina fotografica tra le mani. Da oggetto della visione, dunque, Lee si è trasformata in soggetto: la sua agency passa attraverso un rapporto “capovolto” con l’obiettivo, che la vede dirigere la composizione delle fotografie persino quando ne è protagonista.

A tal proposito, il controllo sul corpo è un altro dei segni della marcata indipendenza di Lee, che potrebbe legarsi a doppio filo con la battaglia che la sua interprete Kate Winslet porta avanti da anni. La carriera di Lee, infatti, non è più determinata dalle sue caratteristiche estetiche quanto dalla sua professionalità e dal suo coraggio. Il corpo diventa mezzo attraverso il quale esplorare e osservare luoghi che hanno ospitato l’orrore, ovvero i campi di battaglia e di concentramento. Per buona parte del film gli abiti della fotografa saranno militari, molto diversi da quelli indossati dalle modelle di Vogue.
Dalla fotografia al cinema
Se la relazione che intercorre tra fotografia e cinema è ontologica, in Lee Miller questa viene articolata su diversi piani. Innanzitutto, Kuras mette in scena le fotografie originali scattate da Miller. Siano esse ambientate sulla costa francese o nella dimora di Adolf Hitler, alcune scene del film ricreano numerose foto del suo archivio. Lo spettatore, però, vede solo di sfuggita le fotografie stampate attraverso gli occhi dell’intervistatore (Josh O’Connor) che, nel 1977, ne dispone. Il film, piuttosto, ricostruisce attraverso dei flashback il “dietro le quinte” di quelle immagini. A emergere è uno slittamento: invece che alle opere create da Miller si guarda alla realtà che esse hanno immortalato e, soprattutto, all’atto creativo che le ha originate.

Sin dalla prima inquadratura, con un fare quasi registico, Lee è intenta a fotografare: i suoi movimenti nello spazio – e nel mondo – sono motivati dalla sua volontà creativa. In questo contesto, al bianco e nero tipico delle foto più conosciute di Miller si sostituisce il colore del film che, però, acquisisce tonalità sempre più cupe man mano che ci si addentra negli anni e nei luoghi più oscuri del decennio Quaranta. È qui che emerge la sensibilità da direttrice della fotografia di Kuras che dimostra consapevolezza dell’oggetto del suo film e cura nella scelta del linguaggio adottato per raccontarlo.
Loro devono sapere
In un film come Civil War (Alex Garland, 2024) la protagonista Lee Smith (Kirsten Dunst) porta, non a caso, il nome della famosa fotografa. La Lee della pellicola di Garland è una professionista pienamente consapevole delle contraddizioni etiche e del costo emotivo del lavoro di fotoreporter. La Lee del film omonimo, invece, trova nella fotografia una possibilità di autodeterminazione, una vocazione artistica e una visione etica al tempo stesso. Il suo desiderio di immortalare le conseguenze dello scontro si traduce in un sempre maggiore avvicinamento agli orrori della guerra: il culmine è l’arrivo a Buchenwald e Dachau.
Se Lee Miller ha scattato alcune tra le prime fotografie che hanno reso il mondo conscio di ciò che era accaduto, l’indicibilità di quelle immagini non sembra, ormai, poter essere tradotta con altrettanta potenza in forma cinematografica. Giorno dopo giorno, Lee è sempre più provata da ciò che scopre e cattura, prima con attenzione e poi con fatica, con la sua macchina fotografica.

Dopo tutto quello che dei crimini nazisti è stato mostrato, a essere protagonisti di queste sequenze, dunque, non sono né le vittime né le fotografie stesse, ma piuttosto il volto e lo sguardo di Lee. Come La zona d’interesse (The Zone of Interest, Jonathan Glazer, 2023) ha magistralmente dimostrato, quando del male è stato detto e mostrato tutto non si può che rappresentarlo in negativo. L’oggetto dello sguardo di Lee nei campi è, nel momento più duro, quasi totalmente negato.
Il ritorno a casa
Lee Miller non guarda al passato da modella di Lee, ma neanche al suo futuro complesso caratterizzato dal disturbo da stress post-traumatico. La scrittura del film sembra non trovare una completa risoluzione: cosa accade ai fotografi, spettatori attivi che subiscono le conseguenze del loro stesso mestiere? Il film risulta a tratti episodico e poco incisivo, con una Lee che diventa partecipe rispetto a ciò che immortala solo nelle sequenze finali. La colonna sonora del grande compositore Alexander Desplat, poi, non riesce sempre a dare un’adeguata dimensione sonora alle sequenze più disturbanti.
In conclusione, Lee Miller non è un film totalmente smarcato da molti tropi del biopic e, soprattutto, dalla tendenza manierista alla ricostruzione storica a scapito di una ricerca psicologica approfondita delle dinamiche rappresentate. Allo stesso tempo, si tratta di un valido esempio di come da un budget limitato possano nascere opere in grado di partire dal passato per parlare del presente. La missione di Lee Miller di rendere conto della verità a ogni costo (e non senza contraddizioni) è necessaria oggi più che mai. L’arte non può forse dire tutto, ma i suoi linguaggi possono configurarsi come i mezzi di comunicazione più efficaci quando la razionalità diventa impotente.
