Così come ricopre le strade della capitale tedesca, la neve invade improvvisamente anche lo schermo del Berlinale Palast durante la proiezione de La Tour de Glace. Gelido e onirico dramma con cui la regista Lucile Hadžihalilović rilegge La regina delle nevi di Handersen e approda in competizione alla 75ª edizione del Festival di Berlino, accompagnata dall’affascinante Marion Cotillard, da August Diehl e dalla giovane rivelazione, Clara Pacini. È lei infatti a interpretare Jeanne, una sedicenne che, dopo essere fuggita da una casa di accoglienza per bambini, trova rifugio la notte in un set cinematografico. Qui incontra Cristina (Cotillard), un’attrice dal fascino misterioso, protagonista del film ospitato nello studio: The Snow Queen. Con il passare dei giorni il legame tra Jeanne e Cristina cresce sempre più, dando vita a un rapporto intenso, tetro e enigmatico.
Il “ghiaccio” può essere anche fragile
La Tour de Glace non è sicuramente un film per tutti i palati. Non tanto per la sua complessità (anche perché l’arte non è mai complessa) ma piuttosto per il suo ritmo. Si badi bene: non è una critica, è un dato di fatto. Lucille Hadžihalilović dilata i tempi narrativi, rifiuta movimenti di camera dinamici e si prende così i propri spazi. Crea le condizioni adatte per sedimentare un’impressione visiva dell’insieme, che sia percepita positivamente o negativamente. L’ambiente in cui ci si ritrova immersi oscilla tra sogno e lucidità, tra finzione e realtà, tra desiderio e avversione. Un costante rimbalzo tra opposti che, in quanto tali, contribuiscono alla reciproca definizione, aiutando a scavare nel subconscio delle protagoniste.

È un’impostazione debitrice di un certo grande cinema introspettivo del passato, plasmato su grandi nomi come Bergman, Antonioni, Tarkovskij, Pasolini, ma che in questo caso fatica a replicarne compiutamente gli insegnamenti. La Tour de Glace in alcuni tratti arranca. A volte indugiando troppo nel mostrare quanto è già stato da tempo intuito, altre, non svelando quanto meriterebbe di essere rivelato.
Il dominio di una diva decadente
Bisogna però riconoscere a Lucille Hadžihalilović l’originalità nel rappresentare la propria diva maledetta. La figura di Cristina induce al paragone. Tornano in mente Norma Desmond di Viale del Tramonto (1954) o Baby Jane Hudson di Che fine ha fatto Baby Jane? (1962), ma con una sostanziale differenza. Se i due personaggi appena citati non sono altro che dive già decadute e ormai sostituite, Cristina sta decadendo. E sta decadendo a causa propria. Per il suo carattere, per la sua instabilità mentale, per una dipendenza (forse una malattia). Non rispecchia l’immagine romantica di un’attrice già in rovina, ma quella oscura e maliziosa di una performer che vuole la propria fine. E la disonestà più subdola si cela nel non voler precipitare da sola. Preferisce instaurare il proprio dominio su Jeanne.
Dare prova della propria superiorità nel plasmare una possibile ascesa, che, al contempo, intende soggiogare alla propria volontà. Il senso di solitudine che accomuna le loro vite è il motore che alimenta l’incontro e lo scontro tra le due personalità. Quella più pura e incosciente di Jeanne che spera nel cambiamento, nel cambio di identità, e quella più logora e disillusa di Cristina che ambisce alla scomparsa. Ritorna quindi l’idea di una psicosi legata al ruolo dell’attore, ma che Lucille Hadžihalilović, sostenuta da un’ipnotica Marion Cotillard, freddissima (quasi disumana), ci ripropone con uno sguardo totalmente nuovo.
La morale nel simbolismo fiabesco
C’è un profondo legame tra La Tour de Glace e il testo da cui prende ispirazione, La regina delle nevi di Andersen. Un legame reso possibile anche dalla splendida teatralità scenografica e dalla fotografia dalle tonalità glaciali, che si può evincere soprattutto dalla percezione di un moralismo fiabesco che impregna determinati simboli.

L’attenzione al particolare elemento in La Tour de Glace non è quindi fine a se stessa. Primo fra tutti l’associazione ossimorica del bianco all’impuro, allo sporcarsi le mani. La veste della regina ne è il simbolo più evidente. Una borsetta bianca è l’oggetto di un furto. Il guanto bianco di un vestito porta al primo contatto tra Jeanne e Cristina. Anche il corvo è un altro elemento sinistro. Attira lo sguardo di Jeanne sulla pochette, inducendola allo scippo. Ferisce. È strettamente correlato alla visione del sangue. Poi non si possono dimenticare le pietre. Quelle scure, care a Jeanne in quanto ricordo della madre e della protezione materna, quella limpida, paradossalmente metafora dell’inganno e della volontà di scomparire di Cristina.