Ogni anno, a metà gennaio, si verifica una migrazione di massa nello Utah. Critici, registi, persone dell’industria, celebrità e appassionati cinefili si dirigono verso la località sciistica di montagna di Park City, vicino a Salt Lake City. Qui si svolge annualmente il Sundance Film Festival, una maratona di dieci giorni di proiezioni, incontri, anteprime uniche, feste e molto altro ancora. Sundance è tante cose insieme. È una mostra per i titoli più emozionanti prodotti in modo indipendente dagli Stati Uniti e da tutto il mondo. Nonché una prima predizione sulle tendenze cinematografiche dell’anno che verrà.
Ma è pure un centro di networking per registi e altri talenti che cercano di entrare nel mondo del cinema. Un forum per discutere questioni e tecnologie innovative che influenzano l’industria cinematografica e in generale l’universo dei media. Un posto dove incontrare celebrità in piumini pesanti e stivali di pelo senza che abbiano alcuna aura da star. Una boccata d’aria fresca dopo la frenetica uscita senza tregua dei titoli della awards season in corso. E soprattutto è il più grande festival del cinema indipendente del mondo. Ma per la maggioranza delle persone, che segue sommariamente il cinema, cosa sia il Sundance è poco noto.
Sundance a cavallo tra due mondi
Questo festival si divide in due anime: esiste il grande mondo cinematografico pluripremiato e quello del cinema indipendente. Quindi, prestare attenzione all’evento ricco di première è un buon modo per cogliere i primi segnali intorno agli Oscar. Tutto ciò che viene presentato vale per l’anno cinematografico successivo. E ciò accade perché il Sundance si svolge a gennaio, quando negli USA sono già usciti tutti i titoli validi per la stagione in corso. Queste giornate servono, principalmente, per avere un’idea su questioni e argomenti che stanno motivando pubblico e registi.
Il festival è uno degli eventi più emozionanti dell’anno per le persone che amano i film. Anche per chi lo segue da remoto. C’è la sensazione che qualsiasi prodotto possa essere un successo, qualsiasi talento potrebbe diventare la prossima stella. Tutto può accadere a Park City. Il Sundance aiuta i lavori indipendenti a trovare un pubblico, sia in questo contesto che dopo. Ogni titolo selezionato, dai cortometraggi ai lungometraggi, per essere presentato qui deve essere prodotto in modo indipendente e deve anche essere disponibile per l’acquisto durante le giornate dell’evento.
Come funziona il concetto di indipendente
Ogni materiale prodotto al festival dello Utah può scuotere l’anno cinematografico. Ciò vale per tutto, dai documentari come O.J: Made in America di Ezra Edelman (2016) agli horror innovativi come Hereditary di Ari Aster (2018). A Park City c’è la possibilità di vedere qualcosa di nuovo e fresco, che possa stupire e prendere d’assalto il mercato. I grandi blockbuster e le principali uscite sono spesso sostenuti da studi, come Disney, Paramount, Sony, Warner Bros. Al contrario, un lavoro indipendente è finanziato al di fuori del principale sistema di studi cinematografici. Spesso si inizia con società di produzioni indipendenti o registi stessi che si assicurano investimenti sufficienti. Talvolta i filmmakers investono il loro stesso capitale per far decollare la loro creazione. Ma produrre una pellicola è solo metà del difficoltoso percorso: deve ancora arrivare al pubblico. Ed è proprio a questo punto che i distributori e, soprattutto, i festival diventano fondamentali.
Questi ultimi partecipano a eventi simili con lo scopo di acquistare, per future uscite in sala o perle piattaforme. Quando un prodotto indipendente viene selezionato per il Sundance le sue possibilità di essere acquisito aumentano molto. E possono entrare in gioco sia uno studio grande (come Lionsgate o Sony Pictures Classics) che uno indipendente (come A24 o Neon). Negli ultimi anni i servizi streaming hanno avuto interesse a questa manifestazione, soprattutto per la sezione documentari. Alcuni film sono acquisiti prima ancora dell’inizio dei giorni del festival. Molti di quelli che vengono proiettati al Sundance sperano di generare attenzione prima che si inizi, al fine di essere venduti. L’obiettivo è che i distributori possano mettere abbastanza dollari per il marketing, al fine di tradurre il tutto in rendimento al botteghino.
La speranza, per alcuni nomi, è che si possa avere qualche chance per la stagione dei premi successiva. Oggi il Sundance è indicatore di film che verranno presi in considerazione per la awards season; basti pensare agli Oscar 2025. A Real Pain di Jesse Eisenberg e A Different Man di Aaron Schimberg sono solo alcuni dei titoli in corsa provenienti dal Sundance 2024. Prima di arrivare al festival una pellicola deve essere ammessa. I registi devono presentare il loro prodotto in anticipo al gruppo dei programmatori. In seguito, se sono fortunati, la loro fatica verrà selezionata per la stampa e per chi lavora nell’industria. Successivamente sarà disponibile, in proiezioni separate, anche al pubblico. L’evento nello Utah non riguarda solo l’acquisto e la vendita di film. Infatti, fin dal suo inizio, il festival ha caratterizzato un concorso in piena regola, con una giuria di filmmakers e direttori di altre competizioni.
Alcuni dei premi assegnati sono di alto profilo, come il Gran Premio della Giuria. Ma soprattutto questi aiutano i titoli a prendere piede tra il pubblico e tra programmatori di altri festival nel mondo. Per esempio vari film che passano al Sundance, poco dopo si vedono alla Berlinale. Si pensi ai recenti Passages (2023), Past Lives (2023) o The Outrun (2024). Ciò che rende questa manifestazione interessante è che essa non consiste solamente nell’acquisto, nella vendita e nell’assegnazione dei premi. Qui si programmano anche proiezioni presenti non per competere, ma per soddisfare chi partecipa, dal semplice spettatore agli addetti al settore. Per esempio nel 2020 il festival ha trasmesso un documentario e una performance speciale del concept album Sleep (2015). Si tratta di un’opera del compositore tedesco – britannico Max Richter, celebre per aver composte la colonna sonora della serie L’amica geniale (2017).
Infine ci sono anche tanti eventi speciali, proiezioni, tavole rotonde e conversazioni costellate di star. Il festival è sicuramente iniziato come un modo per promuovere il cinema indipendente, ma oggi è una costola del Sundance Institute, che sponsorizza e sostiene eventi legati al panorama indipendente tutto l’anno.

Saoirse Ronan in una scena di The Outrun
La storia del Sundance Film Festival
Il Sundance è stato fondato nel 1978 da John Earle e Sterling Van Wagenen dello Utah Film Commission. All’epoca si teneva a Salt Lake City e si chiamava Utah/US Film Festival. L’idea era quella di attirare nello Utah registi e sceneggiatori fuori dai grandi circuiti. Ma soprattutto di promuovere il cinema indipendente americano al grande pubblico. Questi obiettivi venivano portati avanti attraverso presentazioni di film, retrospettive e seminari tenuti da filmmakers in erba. Una figura chiave nella storia del Sundance è sicuramente Robert Redford – che ottiene il credito per aver aiutato a fondarlo. In realtà ha creato il Sundance Institute, cioè inizialmente un ente a sé stante rispetto al festival. Quest’ultimo si propone, sin dalle origini, di riunire autori in un unico posto. L’obiettivo è quello di esprimersi senza pressioni commerciali o politiche; quindi l’attore è stato più che altro un mecenate culturale.
Oggi Redford è coinvolto nella manifestazione come ambasciatore, parla durante la conferenza stampa d’apertura e appare spesso in altri momenti durante i giorni del festival, che nel corso del tempo l’evento ha subito alcuni cambiamenti. Il più importante è arrivato nel 1981, quando si è trasferito da Salt Lake City a Park City e ha spostato le date da settembre a gennaio. Nel 1984 il Sundance Institute ha poi assunto la produzione del festival che a quel punto si è chiamato US Film Festival. Redford diventa l’organizzatore principale assumendone anche la direzione artistica. Infine, nel 1991, la manifestazione è stata rinominata Sundance Film Festival, dal nome del personaggio dell’attore in Butch Cassidy and the Sundance Kid (1969). L’interprete figura anche come primo presidente.
La maggior parte dei cambiamenti è stata programmatica. In primis c’è stata l’aggiunta di una solida presenza di cortometraggi. Poi un nuovo interesse verso la realtà digitale e virtuale, e infine l’apertura verso una competizione dal respiro internazionale. Difatti, se inizialmente si mirava solo a far conoscere la produzione indipendente statunitense, in seguito si è allineato al resto dei festival. Oggi ogni paese ha la possibilità di passare per Park City con lavori interessanti che possono avere risonanza mondiale.

Robert Redford al Sundance Film Festival
Uno sguardo presente sulle diversità
Sin dai primi tempi, il Sundance Film Festival si è sempre proposto di far conoscere il cinema indipendente in ogni sua forma. Non solamente lungometraggi narrativi con impostazioni classiche, ma anche documentari e opere di fiction dallo stile innovativo. Se oggi è la normalità in ogni competizione simile, fino a qualche decennio fa non era così scontato. In questo, il festival dello Utah è da sempre un passo avanti agli altri festival. Una diversità come crisma che riflette l’ampia gamma di voci creative, che da sempre si cerca di promuovere e celebrare. Negli ultimi anni il Sundance ha cercato di proporre, con percentuali sempre più elevate, lavori di registe donne. Ma anche di coloro che si identificano come LGBTQ+ o di artisti non bianchi.
Ha operato per incentivare la produzione proveniente dal mondo femminile con un’iniziativa specifica, Women at Sundance. Dentro all’industria cinematografica c’è una bassa percentuale di film di donne; così il festival ha offerto un supporto senza precedenti alle artiste. Non a caso ci sono state figure rivoluzionarie come Allison Anders, Euzhan Palcy e Barbara Kopple, che la manifestazione ha valorizzato e premiato. Anders inizia a farsi conoscere con Border Radio (1987), co-diretto con Kurt Voss. Con i suoi paesaggi evocativi americani catturati in bianco e nero questo racconto è un singolare ricordo simbolico dell’esplosione del cinema indipendente. Ma è stato il Sundance a darle l’opportunità di farsi conoscere, fino ad arrivare alle proiezioni dei suoi lavori al Cannes Film Festival. La sua è una regia sottile, mai scontata, piena di invenzioni. Uno stile sonoro e visivo innovativo con forti personaggi femminili al centro della trama.
Il Festival ha dato risonanza alla sua voce attraverso film come Gas Food Lodging (1992) eThings Behind The Sun (2001). Quest’ultimo acclamato dalla critica per il suo lavoro semi- autobiografico che ha fissato i dettami del suo piglio inventivo. Euzhan Palcy è francese di origini martinicane. Sin dagli anni ’80 si è dedicata alla produzione di lavori caratterizzati da un forte impegno sociale e politico, a cavallo tra finzione e documentari. Distintasi nel 1983 con Via delle Capanne negre (Rue Cases-Nègres), ha vinto alla Biennale veneziana il Leone d’oro per l’opera prima. Si tratta di uno studio sulle comunità nere in Francia e negli Stati Uniti: la storia di formazione di un ragazzo è il pretesto per un focus sui nativi martinicani che sopravvivono coi raccolti di canna da zucchero. Redford ne rimase talmente folgorato da invitarla per l’anno successivo al Sundance Institute.
Con Via delle Capanne negre diventa la prima regista donna nera a ricevere il premio César. Nel 1985 Palcy debutta al Filmmakers Lab del Sundance e diventa una figura importante dell’evento. Nei suoi laboratori cinematografici sprona i giovani registi a girare grandi film, consigliando di seguire i propri sogni con coraggio. Qui nel 1989 ha presentato un adattamento del romanzo anti-apartheid Un’arida stagione bianca (A Dry White Season). Si è recata in Sudafrica, sotto mentite spoglie, per intervistare le vittime del governo della segregazione razziale. Marlon Brando uscì dal pensionamento per lei per interpretare un avvocato anti-apartheid. Nel 2023 ha ricevuto l‘Oscar alla carriera.
Barbara Kopple è una regista e produttrice di film narrativi ma soprattutto documentari; per questi ultimi ha vinto due volte il Premio Oscar, con Harlan County, Kentucky (1977), storia sui minatori del Kentucky, e con American Dream (1991), basato sullo sciopero di Hormel 1985-1986. Quindi è stata la prima cineasta a vincere due volte per un documentario. Nota per aver portato il cinema vérité e lo stile francese nel mondo americano, Kopple si è distinta principalmente per racconti a sfondo sociale. Basti pensare a Bearing Witness (2005) su giornaliste della guerra in Iraq o Shelter (2015) sulla difficoltà di reinserimento dei veterani di guerra. Nell’ultimo periodo si è dedicata a una grande produzione di documentari su personaggi noti o su stelle musicali. Tra i suoi lavori più stimati Wild Man Blues (1997), A Conversation With Gregory Peck (1999), My Generation (2000), Running from Crazy (2013).
L’ultima fatica con cui è andata al Sundance è This is Everything: Gigi Gorgeous (2017). La straordinaria storia di Gigi Lazzarato, giovane donna coraggiosa la cui vita è cominciata con il nome di Gregory. In seguito ha iniziato a postare video di moda e bellezza su Youtube rivelando ai milioni di seguaci di essere transgender. È un racconto sull’amore e su come le decisioni difficili siano meno gravi quando ricevi supporto da chi hai accanto. Ma soprattutto su una persona che ha messo la felicità, di sé e degli altri, al primo posto nella vita. Kopple dal 2005 partecipa attivamente a conversazioni alle tavole del Sundance, diventandone un fulcro. Alcuni dei suoi lavori sono parte del Sundance Collection. È una sostenitrice attiva del cinema indipendente, dei racconti di denuncia civile, sociale, a favore delle minoranze.
Il lavoro che Women at Sundance cerca di fare è scoprire e forgiare possibilità al fine di mettere in luce più cineaste possibili. Ma soprattutto, le valorizza in quanto narratrici cinematografiche dei paesaggi culturali di tutto il mondo. Il festival può fungere da centro di compensazione per i talenti indipendenti. Quindi una maggiore percentuale di film guidati e prodotti da donne aiuterebbe ad aumentare la diversità in modo ancora più ampio. Un’altra iniziativa dal Sundance è l’inclusione della stampa dal 2019, copiata anche da altre manifestazioni simili, come il TIFF. Tale proposta è stata creata per aumentare il numero di critici provenienti da comunità sottorappresentate ai festival. La maggioranza, secondo sondaggi, ha rilevato che questa sia costituita per lo più da bianchi e da uomini.
In sintesi, Sundance dona l’opportunità anche a categorie emarginate di farsi conoscere. Vengono così fornite le spese per coprire i costi della permanenza a scrittori e professionisti freelance di ogni genere e origine. Nessun altro evento simile offre questo tipo occasione così considerevole e inclusiva.

Gigi Lazzaretto insieme a Barbara Kopple
Gli esordi fortunati al Sundance
Sono stati tanti i grandi registi che hanno debuttato al Sundance. Nel 1985 i fratelli Coen presentano la loro opera prima, Blood Simple. Si tratta di un triangolo amoroso che scatena eventi imprevedibili di violenza pulp. È un lavoro fondamentale perché fissa i dogmi del cinema di Ethan e Joel Coen: noir, western e commedia dell’assurdo. Con Sesso, bugie e Videotape (1989) Steven Soderbergh esordisce con un film che successivamente ha vinto la prestigiosa Palma d’oro a Cannes. È un rivoluzionario racconto sulla nascita del videotape, quindi su quel legame complesso che l’uomo ha con la tecnologia.
Anche Quentin Tarantino si presenta al mondo per la prima volta proprio qui, con Le iene (1992). La narrazione segue il prima e dopo rapina di una banda di rapinatori. Divenuto da subito un cult, si è fatto notare per il suo schema originale diventato in seguito un classico del cinema tarantiniano. Si tratta della manipolazione della struttura temporale: la presentazione degli eventi è montata in modo tale che fabula e intreccio non seguano una narrazione lineare. Quindi l’obiettivo è quello di scardinare le certezze di chi guarda. Questo concetto si concretizzerà definitivamente nel successivo Pulp Fiction (1994), diventando parte chiave dell’universo di Tarantino.
Il cortometraggio Bottle Rocket (1993) di Wes Anderson ha stupito la sua edizione per la sua originalità. La trama è stata ampliata nel primo lungometraggio del regista, Un colpo da dilettanti (1996). Una storia grezza e senza particolari guizzi, con al centro una rapina di tre amici sciroccati, fissa le caratteristiche del cinema del geniale regista texano. Si tratta di un racconto fanciullesco e reale con un’estetica color pastello, una comicità posata e malinconica, personaggi pacifici ma strani. Tutti questi elementi sono diventati tratto distintivo dello stile del cineasta e sfoceranno in modo decisivo nel successivo Rushmore (1998), esplodendo con I Tenenbaum (2001).
Paul Thomas Anderson ha presentato qui il suo corto Cigarettes and Coffee (1993) diventato poi il primo lungometraggio nel 1996, Sidney. Il suo film, incentrato su incontri casuali di tre gruppi di persone che si incrociano in una tavola calda, è un assaggio del suo cinema. Ambizioso, magniloquente, senza vincoli di genere, dove ogni aspetto della psiche umana diventa materiale per carpire la profondità dell’anima. Commedia, noir, melodramma si fondono nel talento di un regista unico, uno dei più importanti della nostra epoca. P.T. Anderson ha saputo mantenere il controllo del proprio operato, come in pochi hanno fatto, riuscendo ad articolare il classico con l’autorialità. Questo si evince in ogni suo lavoro, dal primo corto al raffinato Il filo nascosto (2017).
Il festival significa debutto anche per Darren Aronofsky con il suo π – Il teorema del delirio (1998). Film per il quale il giovane Aronofsky ha avuto a disposizione un budget molto risicato. Scardinando temi esistenziali, in questa opera prima si segue il delirio paranoico di un genio matematico (Sean Gullette), con un effetto straniante per il pubblico. Infine si arriva a temi metafisici, che giocano sul rapporto tra finito e infinito. È stato girato in bianco e nero con una camera a spalla e montato in modo notevole, se si pensa poi che è un film d’esordio. Il lungometraggio ha riscosso successo sia tra il pubblico sia tra gli addetti ai lavori, ricevendo parecchi riconoscimenti.
La manifestazione dello Utah ha tenuto a battesimo anche Sofia Coppola con il suo Il giardino delle vergini suicide (2000). L’esordio della regista figlia d’arte traccia uno straordinario ritratto giovanile di cinque sorelle destinate a una triste fine. È diventato un caposaldo contemporaneo sul tema dell’incomunicabilità giovanile, idealmente proseguito da Lost in translation (2003) e Marie Antoinette (2006). In the Bedroom (2001) di Todd Field è il primo lavoro presentato al Sundance a essere candidato all’Oscar al miglior film. Un tragico lutto di una coppia è il pretesto per disegnare un incredibile ritratto sull’ipocrisia dell’America puritana. Il lungometraggio di Field ha sconquassato gli USA quando è uscito. E ha rotto gli schemi portando l’universo indipendente nel mondo dei grandi premi cinematografici.

Robert Musgrave, Luke e Owen Wilson in una scena di Bottle Rocket
Piccoli grandi debutti di genere
Little Miss Sunshine viene accolto con grande entusiasmo al Sundance 2006. Rappresenta l’esordio cinematografico della coppia Jonathan Dayton e Valerie Faris e oggi è un cult della commedia di genere. La piccola Olive (Abigail Breslin) è stata selezionata per il concorso di bellezza per bambine più famoso della California, Little Miss Sunshine. Così la sgangherata famiglia Hoover si ritrova in viaggio su un vecchio pulmino per farle avverare il suo sogno. Il film è uno straordinario road movie che tocca in modo semplice e leggero tanti temi, dal suicidio alla solitudine alla dipendenza, alla fragilità umana. Vanta un cast eccezionale tra cui Steve Carell, Toni Collette, Paul Dano e Alan Arkin, vincitore dell’Oscar 2007 come attore non protagonista.
Little Miss Sunshine è stato protagonista di uno degli eventi più straordinari successi al festival. Infatti molti grandi studi si sono contesi l’acquisto dei diritti dell’opera, visto il successo ricevuto. È stata Fox Searchling Pictures ad avere la meglio sulla concorrenza, con 10 milioni di dollari e un 10 per cento sui futuri profitti.
In Bruges – La coscienza dell’assassino (2008) è il debutto di Martin McDonagh. Fino a quel momento il regista è noto in Gran Bretagna e in Irlanda per opere teatrali e per un premio Oscar al cortometraggio 2006. Si presenta al Sundance folgorando con un noir che sulla carta dovrebbe essere un film d’azione ma di azione ce n’è pochissima. In seguito al fallimento di una missione, due sicari, Ray e Ken, vengono mandati dal loro capo da Londra a Bruges, pittoresca cittadina belga. Qui fanno incontri imprevedibili, vivendo quasi come da turisti, fino a che non ricompare il loro boss. McDonagh porta al centro la malinconia del killer, il suo spleen e personaggi di sfondo che diventano chiave.
Riesce a usare queste caratteristiche, tipiche dell’eroe del cinema di Scorsese, in un lavoro unico e a forte impronta autoriale. È anche significativa la sua capacità di trasformare la città, Bruges, e gli elementi artistici che la contraddistinguono in figure determinanti nell’evoluzione dei personaggi. I due killer sono Colin Farrell e Brendan Gleeson, una coppia di attori che tornerà insieme con lo stesso regista per Gli spiriti dell’isola (2022).
Per quanto riguarda il genere horror ci sono stati due debutti registici degni di nota. Si tratta di The Witch (2015) di Robert Eggers e di Scappa – Get Out (2018) di Jordan Peele. Il primo ha vinto il premio per miglior regia nell’edizione 2015, lanciando anche la carriera di Anya Taylor Joy. Ambientato nel New England del XVII secolo, The Which segue il disfacimento di una famiglia puritana costretta a lasciare la piantagione coloniale e a rifugiarsi in una fattoria isolata. Qui vivono vicino a un bosco che si dice essere popolato da streghe. Difatti, a poco a poco, gli animali muoiono in modo violento e le colture marciscono. La sparizione del figlio piccolo segna l’inizio della discesa agli inferi, portando morte e follia nella famiglia.
Il film apre al mondo di Eggers, regista che applica uno stile peculiare al genere dell’orrore. Come si evince anche nella sua ultima fatica, Nosferatu (2024), in The Witch viene proposta una personale rivisitazione dei concetti secolari di magia nera, possessione e stregoneria. E il risultato è una storia inquietante e originale, sulla perdita della fede e dei rapporti famigliari. Protagonisti sono gli elementi simbolici ottenuti senza effetti speciali; piuttosto sono le atmosfere claustrofobiche e il ritmo lento e logorante a generare un effetto orrorifico. A fortificare questo risultato c’è la fotografia cupa di Jarin Blanschke, che ha come riferimento la plumbea pittura fiamminga del ‘600.
In Scappa – Get Out un afro-americano è ospite della ricca famiglia bianca della sua ragazza. Una volta giunto qui i genitori di lei hanno comportamenti strani, il ragazzo pensa siano dovuti alle differenze razziali. A un certo punto proliferano nuove situazioni minacciose e la sua mente comincia ad avere visioni e a vacillare di lucidità. Jordan Peele inserisce la commedia nera dentro al cinema horror. Il film gira acutamente attorno al tema del razzismo, profondamente radicato ancora nella nostra società, nonostante la facciata fintamente progressista. E, di conseguenza, anche di come le differenze di classe e gli stereotipi legati al colore della pelle creino delle dinamiche di sottomissione ancora presenti. Tutti questi elementi, resi con calma apparente ma persuasiva, allertano lo spettatore fino a insinuargli addosso un lugubre senso di inquietudine. Protagonista assoluto è Daniel Kaluuya il quale ha ricevuto la prima nomination agli Oscar 2018 come miglior attore protagonista.
In occasione dei 40 anni, il Sundance Institute ha lanciato un sondaggio per eleggere il miglior titolo della storia del Festival. Dopo aver consultato più di 500 addetti ai lavori, critici e registi, a vincere è stato Whiplash di Damien Chazelle. Presentato all’edizione 2014, Whiplash mette in luce le capacità di uno dei più importanti registi della nuova generazione in circolazione. La storia mette al centro Andrew, talentuoso studente di batteria jazz di un prestigioso conservatorio di Manhattan, dove vorrebbe emergere come il migliore. Una notte, intento a provare, viene scoperto dall’insegnante Terence Fletcher, noto per la severità e i metodi poco ortodossi. L’ossessione maniacale per la perfezione del giovane e le pressioni esercitate dal docente faranno barcollare ogni equilibrio nel ragazzo.
Chazelle mette in scena un confronto-scontro spietato e realisticamente duro. Cioè quello tra uno studente abile e testardo (Miles Teller) e un insegnante di mezza età (J.K Simmons) inacidito dalla vita, che urla, insulta e umilia gli alunni. Il lungometraggio porta a casa l’Oscar al montaggio e al miglior attore non protagonista 2015 (Simmons). Whiplash è un imperdibile ritratto cinicamente autentico sui sottili confini che separano e legano l’ambizione, il talento, il sacrifico e l’autodistruzione.

Miles Teller in Whiplash
Film diventati cult targati Sundance
Dal Sundance arriva anche Before Sunrise – Prima dell’alba (1995) di Richard Linklater. È il primo capitolo della “Trilogia del Before“, proseguita con Before Sunset – Prima del tramonto (2004) e Before Midnight – Prima di Mezzanotte (2013). Prima dell’alba è una bellissima e lunga passeggiata per le vie di Vienna in una serata di giugno degli anni ’90. Qui spazio e tempo reali si fermano per lasciare posto al racconto della una nascita di un amore. Seguiamo due giovani che decidono di trascorrere una giornata, fino all’alba del giorno seguente, lasciandosi andare a quello che verrà, senza progettare nulla. Julie Deply e Ethan Hawke guidano questo meraviglioso inno al ‘cogliere gli attimi del presente’. Il film di Linklater è diventato uno dei titoli di variazione sull’amore più apprezzato nei decenni successivi.
Memento di Christopher Nolan è stato presentato al Sundance 2001 vincendo il premio per la miglior sceneggiatura. È uno dei thriller più originali e interessanti del nostro secolo. Tratto dal racconto Memento Mori del fratello Jonathan, la pellicola narra a ritroso, e in ordine cronologico inverso, la ricostruzione di un omicidio. Girato magnificamente, il lungometraggio verte sulla capacità di falsificare consapevolmente la nostra percezione del mondo, per poi dimenticarsi di averlo fatto. Leonard (Guy Pearce) soffre di un’amnesia che gli impedisce di ricordare i fatti più recenti; per questo motivo si serve di bigliettini che lo aiutino a ricordare le cose importanti.
Nolan ama giocare con la memoria, protagonista di tanti suoi lavori, da The Prestige (2006) a Tenet (2020). Questo è sicuramente il film che più di tutti introduce al cervellotico e complesso cinema del regista britannico. Protagonista della sua visione è spesso un montaggio non convenzionale usato per destrutturare la realtà. In questo caso, per esempio, serve a mostrarci la mente del protagonista. Tutto questo a dimostrazione di come il Sundance premi spesso pellicole audaci di futuri grandi cineasti.
Y tu mama tambien di Alfonso Cuaron viene presentato nel gennaio 2001. Il regista torna nel suo Messico girando una storia che avrà grande successo al botteghino e segnando nuovi confini del genere di formazione. Scritto assieme al fratello Carlos, il lungometraggio è un road movie su un trio molto particolare. La trentenne Luisa (Maribel Verdù) lascia il marito dopo averne scoperto il tradimento e decide di partire per un viaggio tra le spiagge messicane. Due adolescenti ricchi e immaturi (le due future promesse come Diego Luna e Gael Garcia Bernal) decidono di seguirla. Grazie alla donna i ragazzini scopriranno nuove dimensioni del sesso, senza alcun tipo di filtro. È una delle pellicole più forti mai passate per il Sundance perchè spiazza e colpisce nella sua rappresentazione esplicita del sesso. Con Y tu mama tambien, Cuaron rompe ogni schema e tabù sull’argomento.

Julie Delpy e Ethan Hawke in Prima dell’alba
È nata una star
Il Sundance negli anni è continuato a crescere in termini di gradimento grazie ad alcuni film che hanno mostrato anticipatamente il talento di molte future stelle . Jake Gyllenhaal è il protagonista dello spiazzante esordio di Richard Kelly, Donnie Darko (2001). Una personale visione dell’adolescenza, tra fantastico e commedia drammatica, con al centro l’idealismo tipico della gioventù. La carriera di Gyllenhaal ha poi in seguito preso il volo. Nel 2003 Bernardo Bertolucci sceglie il Festival dello Utah per presentare The Dreamers – I sognatori. È la sua singolare versione degli anni del ’68, attraverso un sensuale triangolo amoroso (a tratti incestuoso), nella Parigi dei moti rivoluzionari. The Dreamers ha messo in luce tre interpreti interessanti: i francesi Louis Garrell ed Eva Green e l’americano Michael Pitt. Il Sundance ha portato al successo anche Carey Mulligan: in An Education di Lone Scherfig (2009) ha ottenuto la nomination come miglior attrice agli Oscar 2010.
Nel 2010 Jennifer Lawrence stupisce con Un gelido inverno di Debra Granik. Nel 2017 Luca Guadagnino presenta Chiamami col tuo nome e lancia definitivamente la carriera di Timothée Chalamet. Agli Oscar 2018 è arrivata poi per lui la nomination come miglior attore protagonista e la consacrazione tra i giovani di maggior talento. Nel medesimo anno è presente anche Josh O’Connor, (tornato all’edizione 2025 con Rebuilding di Max Walker Silverman). L’inglese mostra tutte le sue qualità in La terra di Dio – God’s Own Country di Francis Lee. Nel 2015 Brooklyn di John Crowley ha debuttato al Sundance finendo per essere poi nominato agli Oscar nel 2016, così come la sua principale interprete Saoirse Ronan, una delle migliori attrici della sua generazione. Florence Pugh e la sua Lady Macbeth (2016) di William Oldroyd vengono accolti con entusiasmo. Anche Pugh è oggi una delle star più richieste.
Nel 2019 c’è stata la svolta cinematografica di Awkwafina con in The Farewell di Lulu Wang. Fino a quel momento era solo una cantante rapper; il film l’ha guidata fino a un Golden Globe storico. Oltre ad attori e registi, il Sundance ha dato modo di mettere in evidenza anche settori più defilati e dietro le quinte (fra documentaristi, musicisti, editori). Ciò che rende unico il Sundance Film Festival è l’impegno costante nel guardare al futuro della settima arte. Aldilà del premio finale, si lascia spazio a ciò che conta davvero: evidenziare il Buon Cinema
Louis Garrel, Eva Green e Michael Pitt in The Dreamers