In occasione della trentaquattresima edizione del Noir in Festival a Milano, abbiamo avuto modo di intervistare il regista e sceneggiatore svedese Gustav Möller. Il regista ha raggiunto la fama internazionale con il film Il Colpevole (qua trovate la nostra recensione), pluripremiato in Europa ed in shortlist per il miglior film straniero agli Oscar di quell’anno. Il film è poi stato realizzato nuovamente nel 2021 dall’attore Jake Gyllenhall, che, essendo fan dell’originale, ha acquistato i diritti per farne un remake
In concorso al festival, Möller ha portato il suo ultimo lungometraggio Sons, le cui atmosfere riprendono molto da quelle del suo primo lungometraggio. La trama segue l’idealista guardia carceraria Eva, la cui ordinaria vita viene interrotta dall’arrivo nel carcere di un detenuto legato al suo passato. Legata al nuovo detenuto da un oscuro segreto, Eva chiede di essere trasferita nella sezione coi detenuti più pericolosi, per osservare più da vicino il nuovo arrivato.
L’intervista a Gustav Möller
Per tutto il film, Eva non rivela mai a nessuno il suo segreto, nemmeno al prete del carcere. Perché era così importante che anche dopo la conclusione del dramma, il suo segreto rimanesse oscuro a tutti i suoi colleghi?
Gustav: L’idea era di trovare un equilibrio tra il fare capire al pubblico (il suo segreto) e la fedeltà al suo personaggio. La storia è molto lineare, nel montaggio non abbiamo cambiato molto l’ordine delle scene, ma una delle domande più grandi in quella fase è stato “quando riveliamo questo?”.
Inizialmente avevamo una scena nel film dove lei raccontava tutto, noi venivamo a conoscenza dei fatti e poi diventava tutto più chiaro. La chiave vincente, anche se non credo che esista una vera propria regola al riguardo, è stato far sì che il pubblico fosse coinvolto. Ma allo stesso tempo riuscire a rendere il personaggio di Eva onesto, perché non volevo che lei rivelasse il suo segreto platealmente. Non volevo tradire l’autenticità del personaggio, ma volevo anche renderlo interessante. Questo è l’equilibrio che abbiamo trovato, e spero che, guardando il film, il pubblico capisca la premessa, nella scena in cui parla col suo capo e viene mostrato il suo fascicolo. Ma è stato davvero un punto di discussione durante la fase del montaggio, abbiamo avuto più e più versioni di quel momento.
L’isolamento del carcere
Il film mostra due sezioni dello stesso carcere, anche se totalmente diverse tra loro. Il trasferimento di Eva dalla sua sezione a quella dei detenuti più pericolosi sembra una quasi una discesa dantesca verso l’inferno.
Gustav: Sì, è così. Da un punto di vista letterale, lei parte da un dipartimento dalla mentalità aperta, funzionante, dove tutto ciò che succede è realistico. In Danimarca in alcuni dipartimenti i detenuti sono molto più autonomi e sono totalmente liberi all’interno della prigione. In altri, come quello dove lei si trasferisce, è esattamente come quello mostrato nel film: i detenuti sono sempre sorvegliati, rinchiusi per 23 ore, hanno tre sigarette e devono chiamare le guardie per andare al bagno. Dal punto di vista fattuale è tutto vero, dal punto di vista visivo abbiamo esagerato la rappresentazione della sezione pericolosa per dargli un tocco “infernale” contro quella “paradisiaca” di quella originale.
Avete usato la luce per creare questo effetto?
Gustav: Sì, al 100%. Eravamo determinati nel non voler mostrare l’esterno fino al terzo atto del film, infatti prima non c’è mai neanche una scena in cui si riesce a vedere il fuori, neanche dalle finestre della prigione.
La luce è stato un elemento che abbiamo usato molto e c’è sicuramente del simbolismo riguardo il viaggio verso la parte più profonda e oscura delle emozioni umane, ma volevamo anche fare in modo che la prigione si trasformasse gradualmente da una realistica ad una molto più surreale. Nella seconda metà del film, nelle scene nella palestra, per esempio la luce diventa totalmente irrealistica. Volevamo giocare molto sul viaggio da un ambiente più realistico dal punto di vista sociale ad uno più espressivo a livello psicologico.
Rimanendo sull’argomento, per come è rappresentato il mondo di Eva, sembra che questo non esista all’infuori della prigione, visto che non lo lasciamo mai se non per una scena, a differenza de Il Colpevole, dove l’isolamento era totale. Cos’ha portato a questa differenza tra i due lungometraggi?
Gustav: Ho lavorato con un team per circa un annetto, c’era un altro film sul quale stavo lavorando, sempre un prison-movie con tematiche simili, ed un giorno ho avuto un’idea per questo personaggio, di tutto il piano più grande in cui fosse coinvolto e del terzo atto. Ed una delle prime immagini che ho visualizzato nella mia testa è stato il vedere loro che lasciavano la prigione. Pensavo che fosse interessante fare in modo che, guardando il film, il pubblico imparasse le regole e s’immaginasse che non avremmo mai lasciato quella prigione. Così che la scena in cui succedeva avrebbe avuto un impatto su di loro. Molte persone che hanno guardato il film magari si aspettavano un climax violento, con una rivolta nel carcere, e ho pensato che fosse più interessante fare il contrario.
Il climax è letteralmente tre persone che bevono un caffè ad un tavolo e credo che sia la scena con più tensione di tutto il film. Pensavo che fosse più interessante rompere la “regola” e allontanarsi da questo genere violento e portarlo verso qualcosa di più sobrio e reale.
Anche negli esterni dove è presente la luce, si tratta di una luce innaturale
Gustav: Sì, mentre creavamo l’esterno della prigione, volevamo dargli una sua atmosfera, ma allo stesso tempo non volevamo renderlo troppo specifico. Volevamo che mantenesse degli elementi della prigione, per rimanere coerenti all’universo che abbiamo creato.
Tra madre e figlio, vendetta e perdono
Il titolo originale del film in svedese significa “Guardia”, mentre nella traduzione italiana è stato mutato in “Figli”, il che lascia intendere una delle tematiche principali del film. A che punto dello sviluppo è emersa l’idea di trattare la tematica madre-figlio legandoli rispettivamente al mondo della polizia e quello del carcere?
Gustav: Non proprio dal primo giorno sulla produzione, ma quando ho avuto l’idea per il film, (la tematica) era lì, dovevo solo svilupparla. Per quanto riguarda il titolo, io avevo proposto due titoli per il film. Uno di questi era appunto “Figli” in danese. Ma in Danimarca volevano che rivelassimo di più sulla storia durante la distribuzione, per questo siamo andati per un titolo più drammatico. Mentre la compagnia di distribuzione internazionale voleva qualcosa dal tono più misterioso, quindi siamo andati per un titolo che potesse guidare il pubblico. Si è trattato più di una questione legata ai processi di distribuzione per il film, ma l’idea per entrambi i titoli è stata mia.
Il conflitto principale che attraversa Eva è quello tra vendetta e perdono, nel film la vediamo andare da entrambe le parti e questa situazione di indecisione permane fino al finale. Anche se nel finale tutto si risolve, non sembra del tutto un lieto fine. Lei è ancora bloccata in questo conflitto interiore?
Gustav: Quello che volevo era avere un finale che speravo fosse soddisfacente, nel senso che desse l’idea che la storia fosse finita. Per me c’è speranza nell’accettare il finale del film, ma penso che non sarebbe stato realistico dire che il perdono è la risposta, perché alcuni crimini sono così orribili da renderlo estremamente irrealistico. E non volevo dare al pubblico l’idea di una semplice via d’uscita. Volevo mostrare loro la complessità della cosa, e non favorire né il perdono né la speranza. Volevo lasciare il pubblico in un vuoto fra i due, sperando che il finale comunichi comunque una conclusione soddisfacente per entrambi i personaggi.