Woman of God della regista Maja Prettner è stato presentato in concorso al Torino Film Festival, nella sezione Documentari. Il film ripercorre la vita di Jana, la sua protagonista, che è una sacerdotessa luterana impiegata in una parrocchia della Slovenia rurale. Jana sta affrontando una crisi personale affatto semplice da gestire, che le farà mettere in discussione diversi aspetti della sua vita: dal suo mestiere, alla solidità del suo matrimonio, fino al rapporto con la sua famiglia.
Solo attraversando i vecchi dolori, che l’hanno incatenata per anni a un’esistenza che non le appartiene davvero del tutto, Jana potrà rinascere. E occuparsi per la prima volta di sé.
Il tema cardine della fede: l’origine della crisi
Woman of God riflette a fondo sul tema della religione, e più in generale della fede, anche in riferimento al mondo odierno. La crisi personale e spirituale di Jana ha inizio quando comincia ad avvertire come soffocante il microcosmo chiuso e isolato che è la parrocchia dove lavora. Jana si pone una semplice domanda, la cui risposta però non è più limpida come un tempo: “Come e quando ci si sente più vicini a Dio?”.
Jana ha urgentemente bisogno di un cambiamento: vuole riuscire a sentirsi davvero al fianco degli ultimi, soccorrere più da vicino il prossimo, e impegnarsi per ottenere una risposta più solida, di fede verso Dio, da parte delle nuove generazioni. Non si può più fare tutto ciò nella piccola realtà ecclesiastica di campagna, quindi è necessario trasformare radicalmente la propria vita.
“Manca qualcosa quando sono in Chiesa, lo sento. A volte perdi di vista cosa significa essere pastore, sei solo un impiegato”
Jana ha una concezione personale particolarmente creativa della religione: è lei stessa a raccontare quanto soffra per un lavoro figlio di uno schema prestabilito. La sua esigenza di arrivare singolarmente alle persone e di aiutarle pure nel concreto, testimoniando la sua fede, ha un’origine lontana. Proviene dalla sua infanzia, quando, cioè, per la prima volta, si è dovuta occupare dei dolori e delle difficoltà altrui, specie quelle materne. Jana non fa altro che ripetere questo schema – benché non sopporti un ordine rigido – anche nei suoi rapporti personali, e poi lavorativi.
Quando, a questa prima sensazione di non reggere più determinati schemi interni alla sua parrocchia, si somma la sensazione di essere immobile, scoppia la crisi. Non può crescere spiritualmente, ed è per questo motivo che le è impossibile comunicare con la gente, in forma personale.
Attraverso la crisi: il trauma dell’abuso sessuale
Woman of God esplora il tema dell’abuso sessuale con modalità narrative a dir poco sorprendenti. Jana, in linea con le caratteristiche di un documentario, parla direttamente alla cinepresa di Prettner, che diventa una sorta di confessionale a cui sussurrare difficoltà e sofferenze. Rivolgendosi allo spettatore, rende ancora più evidente lo slancio di fiducia con cui sceglie di consegnare alle persone una parte di sé, quella più ferita e dunque vulnerabile.
“Un periodo di lacrime, un periodo duro. Avevo molta paura”. Inizia così la narrazione della protagonista, di un trauma terribile. Jana ha subito abusi sessuali da un amico di famiglia, dai sei agli otto anni, vedendo così cancellata la sua l’infanzia. Con grande forza, riflette sul suo vissuto e, con la veste del pastore, afferma di aver perdonato l’uomo, in un processo di fusione della propria identità, con quella della propria missione, e insieme mestiere. In questa scena è davvero impossibile per lo spettatore, che per empatia verso la protagonista prova invece rabbia, distinguere le due figure, Jana persona, e Jana sacerdotessa. La donna anche in questo caso è ferma nella sua decisione di rimanere vicina al dolore altrui, rifiutando e non rispettando, però, il proprio.
L’importanza del mezzo cinema
Jana rimane tuttavia ben lontana dal giustificare un atto che ha fatto del male in primis a lei stessa. In realtà è più interessata a leggere la complessità del suo trauma, nel tentativo di elaborarlo, e non fornire facili risposte. Il mezzo cinema in questo processo risulta dunque indispensabile: è la cinepresa a permettere la riflessione di Jana, senza emettere alcun giudizio sulla sua esperienza di vita. Oltre a ciò, è ancora la cinepresa a veicolare tale esperienza all’esterno, così da poter arrivare davvero agli altri, anche chissà, avvicinandosi a dolori simili. É Jana ad assolvere i suoi stessi “peccati”; è ancora Jana ad essere il confessore di se stessa, ed è sempre Jana ad accogliere i suoi sentimenti contrastanti e profondi, per rintracciare in essi le origini delle sofferenze presenti. La cinepresa è solo il mezzo che li fa affiorare, per veicolarli all’esterno. Dall’alleanza tra la protagonista e la camera prende vita il film, che senza tale sinergia non potrebbe perciò esistere.
La purificazione: una nuova vita per Jana
Woman of God, seguendo un ideale percorso di confessione dei propri peccati, conseguenti sofferenze, ed infine l’assoluzione, approda alla sua ultima tappa. Jana ha scelto di trasformare radicalmente la sua vita: si è licenziata dalla parrocchia per la quale lavorava, ha rimesso in discussione il suo matrimonio e, soprattutto, ha scavato a fondo nel proprio passato.
Se con il trauma dell’abuso, ma anche con quello della violenza paterna e di varie altre difficoltà, la protagonista ha perso il contatto con se stessa, mediante la cura di quegli stessi traumi, è riuscita a risvegliare la parte più vitale di sé, quella che richiedeva con urgenza un cambiamento. La realtà, però, irrompe, come prescrive la buona ricetta di un documentario: Jana è malata, e ora dovrà prendersi cura di sé.
Ciò che è cambiato è il punto di vista con il quale la protagonista guarda al mondo: non c’è più nessuno di cui prendersi cura, di cui farsi carico come fece, per i credenti, millenni fa, Gesù sulla croce. C’è solo Jana, che per la prima volta è davvero viva, e completamente se stessa.
L’ultima immagine offerta dalla cinepresa di Prettner, allora, diviene particolarmente eloquente: Jana annaffia una pianta. Una precisa metafora di cura di sé e crescita, anche dopo l’inverno rigido del dolore e della crisi.
“Bisogna buttare giù tutto per costruire qualcosa di nuovo. E io sono d’accordo”