‘Qui è altrove: buchi nella realtà’ intervista con Gianfranco Pannone
'Qui è altrove: buchi nella realtà' evento speciale in prima mondiale in apertura alla 65esima edizione del Festival dei Popoli inizia ora il tour nelle sale
Il film documentario Qui è altrove: Buchi nella realtà per la regia di Gianfranco Pannone è stato l’evento speciale di apertura della 65esima edizione del Festival Dei Popoli con la sua prima mondiale del film. Il documentario, dopo il MedFilm Festival, dal 22 novembre inizia il tour nelle sale distribuito da Bartlebyfilm.
A Volterra, sotto la guida di Armando Punzo, è nata la Compagnia della Fortezza che ogni anno, nell’istituto di detenzione collocato all’interno della Fortezza Medicea, allestisce il suo spettacolo. Insieme ad altre compagnie teatrali che operano in vari istituti di pena italiani, la Compagnia della Fortezza anima il Progetto Per Aspera ad Astra, promosso da Acri e sostenuto da 12 Fondazioni di origine bancaria, che vede allievi giovani e meno giovani conoscere da dentro il lavoro di Punzo e delle altre compagnie, confrontandosi su un altro teatro possibile. Qui è altrove: Buchi nella realtà segue, fino al debutto, nel carcere di Volterra, le prove di Armando Punzo con i suoi attori nell’ambito del progetto teatrale ATLANTIS cap. 1 – La permanenza. Qui, con altri registi provenienti da diverse esperienze di teatro-carcere, la Compagnia della Fortezza organizza la masterclass, riunendo tutte queste realtà nel segno di un’utopia possibile.
A Gianfranco Pannone, regista di Qui è altrove: Buchi nella realtà, abbiamo fatto alcune domande in occasione della presentazione del film al Festival dei Popoli.
Gianfranco Pannone e il suo Qui è altrove
Da cosa nasce l’idea di fare questo documentario?
Il film nasce da una grande esperienza che è quella della Compagnia della Fortezza, ma anche di Per Aspera ad Astra, che è un progetto che prevede il coinvolgimento di più compagnie teatrali che lavorano nei teatri e fanno teatro carcere. Poi devo dire che sono stato chiamato a fare questo film, cioè la Compagnia della Fortezza mi ha chiesto di fare un film, possibilmente con uno sguardo personale, quindi non un documentario istituzionale, ma di fare un film documentario e raccontare un po’ da dentro sia l’esperienza di Per Aspera ad Astra, che si svolge proprio di fianco al carcere in estate, sia quella di Armando Punzo, che ogni estate allestisce il suo spettacolo che è cominciato l’anno scorso. Io l’ho seguito l’anno scorso e, in qualche modo, è uno spettacolo work in progress così come i lavori di Armando che si sviluppano nel tempo. Quindi noi siamo partiti dalla parte più asciutta, cioè dall’inizio dello spettacolo.
La struttura del documentario
A colpirmi è stato fin da subito il fatto che nella didascalia iniziale hai inserito capitolo 1. Così facendo lasci la porta aperta, anche a un seguito, non tanto del film, quanto dello spettacolo e del progetto in generale.
Il teatro di Armando mi ha sempre molto affascinato ed è proprio un teatro work in progress, un teatro che si evolve nel tempo e Armando lavora su suggestioni che possono essere letterarie o di grandi filosofi come nel caso, appunto, di questo spettacolo. Ma lavora anche un po’ documentaristicamente nel senso che lui mette insieme tanti materiali e, un po’ per volta, cerca di trovare degli indizi. In fondo anche il lavoro del documentarista è questo, cioè noi non lavoriamo su una sceneggiatura fissa, ma lavoriamo su un fil rouge, su un tema e sviluppiamo un discorso che è anche linguistico, ma che poi, in qualche modo, regoliamo anche sulla base di quello che il mondo ci restituisce, e anche Armando lavora un po’ così. E questa è stata una sintonia interessante, cioè non ho fatto fatica a seguirlo in questo teatro work in progress che si svolge all’interno del carcere.
Ma infatti è interessante proprio come è stato sviluppato; è work in progress in tutti i sensi, perché ci si sposta anche geograficamente, ma si ha la sensazione che comunque sia tutto collegato, con un filo conduttore.
L’idea era, infatti, di creare un flusso sia dal punto di vista spaziale che temporale. Non a caso come sottotitolo, insieme a Qui è altrove, abbiamo scelto Buchi nella realtà, cioè la possibilità, in qualche modo, di poter bucare la realtà ed entrare in un’altra dimensione. Per me questa cosa era interessante, direi anche politicamente, perché in qualche modo rifiuto la categoria detenuto. Quello che ho provato a fare, non sta a me a dire se ci sono riuscito o meno, è quello di lavorare con delle persone, quindi che fosse il tecnico, che fosse il detenuto, che fosse Armando stesso, che fossero gli allievi, sono persone che lavorano a un unico progetto creando una sorta di flusso. E anche il finale, in qualche modo, va in questa direzione: diventa un lavoro corale, a prescindere poi dalla personalità degli autori, io come regista cinematografico, lui come regista teatrale.
Il mio problema era come riuscire a prendere la giusta distanza, in certi momenti, ed entrare in questo mondo, e quindi volutamente abbiamo lavorato con Tarek Ben Abdallah, alla fotografia, sapendo che avevamo utilizzato anche dei materiali d’archivio, che sono quelli che Armando stesso gira, per creare, appunto, una condizione da dentro lo spettacolo che si costruisce volta per volta insieme a una giusta distanza.
Gianfranco Pannone: Qui è altrove non è un documentario classico
A proposito del materiale d’archivio anche la prima scena è subito uno spettacolo, una sorta di estratto. E anche questo ci aiuta a capire che quelle che vediamo sono persone, non carcerati.
Sì, quello è un estratto di una prova primaria, con quest’uomo che si divincola, cercando di rinascere, che poi ricorre lungo il film. È chiaro che c’era anche un po’ la preoccupazione di rimanere appiattiti sullo spettacolo, però c’è un’adesione, e l’adesione è quella di evitare il sociologismo, aderendo anche un po’ al senso dello spettacolo. Per Armando è importante innanzitutto il teatro, lui non deve salvare nessuno, lo dice anche, ma neanche io volevo salvare nessuno, cioè se il teatro nel carcere salva qualcuno lo fa conseguentemente e questa è la cosa importante. Poi, oltre al discorso del sociologismo, c’era anche l’intento di evitare, per esempio, di occuparsi delle biografie dei detenuti. I detenuti, che molto spesso hanno bisogno di parlare, si sono avvicinati a me, ma io li ho tenuti un po’ a distanza, pur avendo un rapporto ottimo con molti di loro, perché volevo lavorare in questa direzione.
Nessuna biografia o intervista
Infatti, di solito, nel documentario più classico c’è l’intervista. E, per com’è strutturato, mi aspettavo magari lo spettacolo, le prove, e poi l’intervista a un detenuto.
Io le ho fatte delle interviste, ma quando siamo andati in montaggio con Erika Manoni l’ho trovato molto banale. In generale sono persone che non hanno una grande cultura, anche se poi ci sono gli esempi straordinari, alcuni di loro si sono anche laureati. Si può citare, per esempio, AgnelloArena che ha lavorato con MatteoGarrone. Questo è il miracolo di ArmandoPunzo.
Però insomma c’è sempre questo discorso di non farsi fagocitare troppo dalle loro vicende e la mia paura è che magari qualcuno possa aspettarsi di vedere un film in cui io parlo della condizione delle carceri e dei detenuti. È chiaro che poi abbiamo adottato anche noi una sorta di slogan, un altro carcere possibile, che è molto semplice, forse anche banale, ma era importante proprio per ribadire il fatto che c’è un signore che lavora lì da 35 anni, che noi abbiamo seguito per una parte della sua attività, che dimostra che attraverso il teatro non è che si possano salvare le persone, però ci sono delle condizioni migliori perché le persone possono stare meglio.
E poi è interessante parlare di ciò in un anno in cui sono morti 60 detenuti suicidi e ci sono state delle ribellioni poi sedate perché nelle celle c’erano 12-15 persone anziché 6 con il caldo feroce di quest’estate. Non avendo raccontato direttamente questo non puoi non preoccuparti del fatto che poi esiste una condizione che attraverso il teatro e l’arte può diventare qualcosa di diverso rispetto a come la gente per lo più pensa al carcere. Perché nessuno pensa mai se finissi io in carcere per sbaglio, per colpa che sarebbe. Questa cosa secondo me ha un valore anche politico che è importante, ma è un politico indiretto. Quindi l’intervista a volte serve, ma a volte se ne può fare anche a meno. Io le ho realizzate e ho preferito evitarle proprio perché ritenevo che in qualche modo parlassero molto più i volti di questi detenuti-attori che le loro parole.
E in questo modo il documentario è anche più universale, oltre che attuale.
Oggi ancora di più c’è una tendenza a distinguere chi ha sbagliato e chi non ha sbagliato (il potente dal povero, il fortunato dallo sfortunato). Secondo me il carcere è sicuramente un luogo dove si riflette molto su queste cose. Io ringrazio la Compagnia della Fortezza anche per avermi permesso di fare un film, nel senso che per me il lavoro significa anche crescere attraverso il rapporto con la realtà, il rapporto che deve essere dialettico non può essere solo di adesione totale o di rifiuto totale.
Lo scopo del documentario e il legame indissolubile con la realtà
Un’altra cosa bella del documentario è che realtà e finzione si incontrano. Proprio qualche giorno fa è venuta fuori la notizia del Papa che aprirà la porta santa a Rebibbia.
C’è chi diceva che la realtà è più incredibile della fantasia e io sono d’accordo su questo. Secondo me è molto importante, anche se poi c’è LuigiComencini che ricorda che forse la vita è più importante del cinema e ha ragione. Il problema è che il cinema è un tentativo, anche prometeico, così come anche il teatro, di stare meglio, ma allo stesso tempo anche di riflettere. E il compito del documentarista è anche questo, quello di riflettere. Bisogna sempre domandarsi se ci fossi io al posto suo?.
E a proposito di questo torno su una cosa che hai citato anche prima, riprendendo una frase del documentario il nostro obiettivo è fare un buono spettacolo, poi se questo può aiutare a migliorare la condizione del carcerato (e non solo) tanto meglio.
Questa frase la dice il povero SandroBaldacci che peraltro è morto e al quale dedichiamo il film. La cosa principale è fare un bello spettacolo, perché così non bisogna neanche avere la prosopopea di pensare di poter salvare il mondo. Sono proprio queste grandi ideologie che, nel corso del tempo, hanno fatto questo errore, dal comunismo al fascismo e nazismo.
E poi volevo tornare sul discorso del teatro che riesce a scalfire la realtà.
All’inizio era Quie altrove con la e congiunzione. Poi, a un certo punto, mi sono detto che doveva essere un verbo, Qui è altrove perché quella è l’utopia. I buchi della realtà del sottotitolo sono quelli che invoca, in qualche modo, Armando nel suo spettacolo. Ho trovato più efficace Qui è altrove e poi ho voluto lasciare un legame con lo spettacolo, con i buchi della realtà.
Qui è altrove di Gianfranco Pannone in apertura del Festival dei Popoli
Concludo chiedendoti qualcosa sulla presenza del documentario al Festival dei popoli. Cosa vuol dire leggere Qui è altrove: Buchi nella realtà di Gianfranco Pannone in apertura dell’intera rassegna?
Apre questo festival per poi andare in altri due, tre festival, Med Film Festival, Parma film festival, Corto Dorico, poi speriamo di portarlo anche all’estero, ma intanto uscirà un po’ in giro per l’Italia dal 22 novembre prossimo, fino a gennaio-febbraio, e comincerà proprio da Volterra. Poi passiamo per Milano, Torino, le grandi città, ma anche nelle città che sono, in qualche modo, associate anche alle compagnie che lavorano nelle carceri, come accade a Milano, a Padova, a Torino, a Genova. Dove ci sono le compagnie che lavorano facciamo coincidere questo tour, che in parte seguirò personalmente, e che durerà praticamente due mesi e mezzo e che riprenderemo anche a gennaio, dopo la pausa natalizia.
La distribuzione è sempre della Bartlebyfilm e stiamo lavorando a questo percorso perché non è facile far vedere un film documentario nelle sale, ma secondo me, in questi casi ancora di più, è importante avere il contatto con il pubblico e speriamo che possa aprire un po’ il dibattito. C’è anche una coproduzione svizzera, per cui sulla tv svizzera passerà il film e poi sarà distribuito anche nella svizzera ticinese, faremo una prima a Lugano e poi anche a Zurigo, da gennaio poi faremo anche delle proiezioni nella svizzera italiana e tedesca.
Vedi anche: l’intervista di Taxi Drivers a Paolo Sorrentino
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