È in concorso al Linea d’Ombra Festival, il cortometraggio diretto da Filippo Ticozzi The ropes of Asclepius (Le cime di Asclepio, 2024). La produzione Officine Creative partecipa alla sezione Lineadoc e presenta, a partire da un punto di vista inedito, i tesori custoditi in un museo archeologico.
Un racconto silenzioso
Definire in modo univoco The ropes of Asclepius non è possibile (e neanche troppo interessante). In prima battuta, questo cortometraggio documentario testimonia il processo attraverso il quale delle opere d’arte – principalmente scultoree – vengono imballate per essere portate via dal museo in cui si trovano. Si tratta di un momento che, di norma, non è accessibile agli occhi dei visitatori dei musei. Ed infatti la presenza umana si riduce a quella degli addetti ai lavori. Il documentario, dunque, inizia quando il museo, a porte chiuse, smette di svolgere la sua funzione, quella di “mostrare”. Perché soffermarsi su un atto come questo?
Fra luce e ombra
Le inquadrature che danno inizio a The ropes of Asclepius hanno il ritmo di un risveglio. Attraverso un passaggio continuo dall’oscurità alla luce, le immagini sembrano seguire l’andamento di un respiro che, poco a poco, disvela il contenuto di quello che si scoprirà essere un museo. Le opere d’arte, in questi momenti, non sono ancora totalità, ma frammenti che la luce dovrà rimettere insieme. Dopo questa sequenza caratterizzata dall’oscurità, infatti, il chiarore del giorno irrompe e illumina tutti gli abitanti di quello che appare un luogo liminale. È a questo punto che entra in gioco la figura umana, la cui presenza risulta comunque meno vitale di quella delle statue. Gli addetti mettono in pratica con sapienza le operazioni necessarie per proteggere le opere nelle apposite casse ma, paradossalmente, sembra piuttosto che le si stia rinchiudendo in prigione.
L’arte svelata dal cinema
Come affermato sopra, The ropes of Asclepius consente di assistere a un momento solitamente precluso alla fruizione dei visitatori dei musei. Quando si entra in uno di essi e un’opera manca perché in prestito altrove, rimane solo una didascalia senza il suo referente, perché l’artefatto è già stato portato via. In questo contesto, il dispositivo cinematografico può assolvere alla funzione che da sempre gli è congeniale: rendere visibile ciò che non lo è. In questo modo, Filippo Ticozzi rivendica le possibilità della macchina da presa ma capovolge la funzione del museo: se questa istituzione ha il compito di custodire i beni culturali e metterli in mostra per il pubblico, svuotandosi, smette di funzionare come tale. Il verbo “mostrare”, tanto usato sia nelle arti figurative che nel cinema, acquisisce in questo cortometraggio ulteriori sfumature. Mettendo in mostra, il cinema, quando il museo smette di farlo.
Materia in bianco e nero
L’elegante fotografia di Stefano Conca Bonizzoni e Filippo Ticozzi lascia trasparire, paradossalmente attraverso l’utilizzo del bianco e nero, le proprietà tattili dei materiali ritratti. Alla levigazione del marmo delle statue classiche, sulle quali la luce si posa delicatamente, si oppone la severità del legno delle casse che dovranno custodirle. Questi materiali industriali sono stati intagliati precisamente secondo le forme delle opere d’arte che dovranno avvolgere, quasi a costituirne il negativo. Nonostante questa perfetta complementarità, permane il senso di claustrofobia derivante dalla segregazione delle sculture.
L’agency dell’inanimato
Se lo spettatore riesce a percepire il senso di chiusura derivante dall’imballaggio delle statue è perché Filippo Ticozzi conferisce loro un punto di vista. Se la presenza e le azioni umane paiono piuttosto meccaniche, sin dalle prime inquadrature le opere d’arte presentano una marcata espressività. Innanzitutto, la maggior parte delle sculture ritrae figure umane, ma la loro stasi costitutiva viene messa in questione da luci e ombre che le percorrono. Inoltre, spesso le tavole di legno e le altre opere creano una cornice intorno agli oggetti inquadrati, quasi come se la macchina da presa li stesse spiando. L’attenzione viene così orientata verso questi oggetti dello sguardo che, però, si animano grazie a dei raccordi di montaggio che sembrano costruire delle soggettive delle statue stesse.
Una parabola discendente
Nonostante The ropes of Asclepius non proponga un racconto convenzionale, sono percepibili un inizio, uno svolgimento e una fine. Al risveglio delle figure ha fatto seguito il loro spostamento e imballaggio, alla mercé delle decisioni altrui, ma sempre con un inspiegabile sguardo attivo. E alla fine, non rimane che uno spazio vuoto: l’assenza delle sculture rivela l’architettura che le aveva ospitate e che ora è visibile grazie alla loro assenza. È come se una tragedia si fosse consumata in quello spazio spoglio. Un racconto epico della classicità che a quelle opere d’arte ha dato vita.