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Trieste Science+Fiction Festival

‘A Samurai in Time’: bushidō tra passato e presente

Declino del jidaigeki e dialoghi tra epoche diverse in questa prima opera dai toni metacinematografici di Junichi Yasuda

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A Samurai in Time di Junichi Yasuda è un film assolutamente da vedere. Frutto di una produzione indipendente, la pellicola è stata protagonista di un percorso distributivo interessante. Come spesso accade per questo genere di opere, in Giappone viene inizialmente proiettato in un’unica sala e, inaspettatamente, registra il tutto esaurito per diverse settimane, al punto da attirare l’attenzione della Toho. La storica casa di produzione ne acquista i diritti e programma una distribuzione su larga scala.

La portata della mossa è tale che il film giunge anche in Italia, per la prima volta al Trieste Science + Fiction Festival. A Samurai in Time è senza dubbio un lungometraggio dal grande potenziale. Non solo è in grado di parlare a più generazioni, ma sprigiona la giusta frequenza emotiva con cui far vibrare i cuori di tutti gli appassionati dei jidaigeki giapponesi (e pellicole in costume di ambientazione storica). Un vero e proprio omaggio a una tradizione cinematografica, su cui ci regala uno sguardo sincero e profondo da una prospettiva tutta da scoprire.

A Samurai in Time – la trama

Tutto ha inizio nel periodo Edo. Kosaka Shinzaemon (Makiya Yamaguchi), un samurai fedele allo shogunato, si appresta a confrontarsi in un duello con un rivale dello schieramento pro-imperiale. Proprio quando lo scontro sta per entrare nel vivo dell’azione un improvviso bagliore lo travolge. Il protagonista si ritrova catapultato nei giorni nostri, più precisamente all’interno di un set per film e programmi televisivi di genere “jidaigeki”. Ancora avvolto nei suoi abiti tradizionali, viene scambiato per una comparsa, ed entra repentinamente a far parte dell’intricato mondo cinematografico contemporaneo. I suoi modi all’antica, il suo linguaggio arcaico e il suo portamento unico suscitano subito l’interesse di più produzioni, che lo ingaggiano nel ruolo di “kirareyaku”, ovvero colui che, per vocazione scenica, deve interpretare quei personaggi che soccombono sempre durante le scene di combattimento. Mentre tutto sembra andargli per il meglio, un’occasione improvvisa sarà anche portatrice di uno spiazzante colpo di scena.

Un fine narrativo ben preciso, condito di ingredienti cinematografici differenti

A Samurai in Time fa del genere cinematografico uno strumento con cui giungere a un fine sostanziale ben preciso, piuttosto che il contrario. Non è quindi il genere a trainare la narrazione, ma è la narrazione ad asservire stilemi e ingredienti provenienti da generi cinematografici disparati, allo scopo ultimo del racconto. Ecco che diventa chiaro fin da subito come il viaggio fantascientifico nel tempo altro non è che il presupposto perfetto per mettere a confronto etiche di epoche storiche diverse, e apparentemente a sé stanti. Tutto scorre con l’intento di mostrare che una connessione tra di esse è possibile e, soprattutto, di come quella più antica possa confluire in quella moderna.

Lo scorrere dei minuti rivela un connubio equilibrato, quasi ossimorico, tra leggera ironia e profonda malinconia. Entrambi gli elementi, dosati con estrema sapienza, finiscono per rendere il tutto più scorrevole. Allo stesso modo contribuiscono tutti i componenti presi in prestito da altri codici narrativi. Januchi Yasuda arriva ad attingere dai tradizionali chanbara (cappa e spada giapponesi) per le scene d’azione, perfino dal teatro kabuki per la mimica attoriale. Una variegata compagine di fonti con cui coltivare un intrattenimento costante, che vada di pari passo con le riflessioni più profonde sollevate dal film. A Samurai in Time appare perciò come un grande mosaico in movimento, in cui ogni singolo tassello diventa indispensabile e insostituibile al fine di un significato d’insieme coeso e coerente.

Una lettura del passato nel presente

È il 2024. Sono ormai lontani i tempi in cui i rōnin dediti ai dettami del bushidō si aggiravano per le strade di Kyoto, così come è distante l’epoca d’oro dei jidaigeki.

Un genere che per gli elevati costi produttivi e la scarsa attrattività verso il pubblico odierno, nonostante alcune eccezioni che spesso portano la firma di grandi autori, come Miike (13 Assassini), Kore’eda (Hana), Kitano (Zatoichi) e il veterano Yamada Yoji, ha subito un drastico declino negli ultimi anni. A Samurai in Time, girato negli studi Toei di Kyoto, e dedicato al defunto Seizo Fukumoto, kirareyaku che si dice sia stato ucciso decine di migliaia di volte sullo schermo, non nasconde sicuramente la volontà di volgere la propria attenzione verso questi due elementi storico-culturali del passato nipponico. Tuttavia è proprio lo stile d’approccio alla cultura della memoria e alla filosofia arcaica del bushidō che esime A Samurai in Time da qualsiasi equivoco d’interpretazione.

Ciclicità mutevole

Il film non sfocia mai in una mera mistificazione di un passato a cui è impossibile tornare, ma guarda all’etica come a qualcosa di mutevole e adattabile. Tutto si ripresenta in nuove forme, non perdendo però la sua essenza. Sembra sussistere una sorta di ciclicità all’interno del film che in parte non può che rimandare anche alle teorie buddhiste. La dedizione del samurai trova il suo corrispettivo nella devozione al lavoro della giovane assistente del regista. Il rispetto e l’accoglienza verso il prossimo sono incarnati dai due anziani che accolgono Kosaka nella loro casa-tempio. Le lezioni per l’apprendimento dell’arte della spada hanno lasciato il posto a gli allenamenti per gli stuntmen. I canti e i racconti orali o scritti delle grandi gesta di un tempo sono a loro volta diventati sceneggiature dei jidaigeki. Gli aspetti corretti della morale antica, che andrebbero mantenuti nel presente, ancora persistono, ma in nuove forme.

Questo non significa però che siano immortali. La scena del pestaggio ai danni di Kosaka da parte di un gruppo di giovani teppisti ne è un lampante esempio. A Samurai in Time sembra quindi volere in fin dei conti ricordare di come l’importanza di preservare il bene sia possibile solo una volta che si è in grado di vedere dove il bene persiste.

Meta-cinematografia in A Samurai in Time

L’aspetto meta-cinematografico di A Samurai in Time rende irresistibile un parallelismo con un film proveniente anch’esso dal Giappone. Si sta parlando di quel piccolo capolavoro di Zombie contro zombie – One Cut of the Dead di Shin’ichirō Ueda del 2017. Questa volta al posto degli zombie ci sono i samurai. Nonostante questo, il gioco rimane lo stesso. Un gioco che in A Samurai in Time, come nel film di Ueda, è gestito alla grande. Per esempio le scene d’azione, splendidamente coreografate, servono a ricordarci che la vita vera è qualcosa di totalmente diverso.

Questa affermazione emerge in modo lampante durante due dialoghi tra il “sensei” degli stuntmen e Kosaka. La prima volta Kosaka, che sa come si combatte nella realtà, e non all’interno di una produzione cinematografica, viene redarguito perché tiene la punta della spada troppo in basso dietro la propria schiena mentre si appresta a sferrare un fendente verticale. In questo modo rischierebbe di ferire un collega che si trova dietro di lui nella stessa scena. La seconda volta il maestro rifiuta di allenare Kosaka in vista di un duello fatto con spade vere, poiché la vera essenza del cinema è far sembrare realistico ciò che in realtà è finzione.

Sono due momenti estremamente intelligenti, che rivelano la volontà del regista di riflettere sul medium da lui stesso utilizzato. Basti pensare che lo stesso attore protagonista Makiya Yamaguchi ha un curriculum che comprende numerosi film jidaigeki. Un aspetto che accentua l’autoriflessione mediale di A Samurai in Time. E vedere un film su un samurai che impara a diventare un “finto samurai”, per prendere parte a film sui samurai, non è mai stato così appassionante.

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A Samurai in Time

  • Anno: 2024
  • Durata: 131'
  • Genere: Fantascienza, jidaigeki, azione
  • Nazionalita: Giappone
  • Regia: Junichi Yasuda