Presentato nella sezione Grand Public della kermesse romana, Longlegs, è fra i titoli horror più attesi del 2024.
Al cinema dal 31 ottobre distribuito da Be Water.
Un film che raccoglie il bagaglio seminato da certi titoli di culto e che tuttavia rimette in discussione i parametri del genere. Seguendo l’onda delle nuove tendenze della scuola americana, pur non trovando punte eccellenti sullo script, riserva riuscite soluzioni stilistiche e di forma.
In Oregon, nella “provincia” americana, territorio rurale e di piccoli centri, si indaga su un’efferata serie di uccisioni che si perpetuano da decenni e che sembrano collegate tra loro. Intere famiglie sono state sterminate: omicidi-suicidi che vedono sempre i padri come carnefici e artefici delle efferatezze. L’FBI sta cercando di capire se ci sia l’impronta di qualcun’altro, un soggetto esterno, un serial killer o qualche altro disegno ai limiti del paranormale.
La giovane agente Lee Harker (Maika Monroe) viene arruolata dall’agente Carter (Blair Underwood) e incaricata di affiancarlo nelle indagini. Le sue doti e la sua riconosciuta sensibilità potrebbero rivelarsi preziosi per scovare cosa si nasconde dietro questi tragici accadimenti e svelare il mistero delle terribili stragi.
L’estetica e la forma
Nell’ultima opera di Oz Perkins, colpisce subito la scelta stilistica e di linguaggio. A farla da padrone è l’estetica, la ricostruzione ruvida in 4:3 delle scene di retrospezione, con la fotografia tipica di certi film di culto degli ultimi decenni del secolo scorso, dai film di Wes Craven fino a Rob Zombie, dai titoli rosso sangue, dalle efficacissime grafiche minimali, fino alle colonne sonore rock e blues.
La ricostruzione degli scenari legati alle varie analessi, degli anni Settanta e Ottanta ci riporta in modo funzionale, piano piano, a svelare cosa si cela dietro agli accadimenti al centro dell’indagine. In Longlegs l’orrore prende forma in un’America altra, quella delle aree interne, urbanizzate ma non troppo: ambientazioni, paesaggi e luoghi gelidi, disumani e disabitati, dove l’alienazione, il fanatismo e certi culti oscuri non si generano dal nulla. Dunque, l’alternarsi tra il passato e un presente (siamo negli anni ’90) con scenari ancor più lugubri e inquietanti, crea un parallelismo su due assi temporali che rende una propedeutica tensione narrativa.
L’approccio al genere non è esente dal citazionismo di grandi cult, uno su tutti Il Silenzio degli Innocenti, sul quale oramai si sono spesi anche troppo i paragoni. Se guardiamo alla costruzione del personaggio, Lee Harker non è Clarice Sterling, anche se possono esserci delle analogie. Un parallelismo che si ritrova anche nell’aspetto dell’antagonista, Longlegs, che ha alcuni tratti androgini e di travestitismo, non molto lontani dai tratti di Buffalo Bill de Il Silenzio degli Innocenti. Inoltre, vive in scantinati e in solitudini simili. Nicolas Cage nei panni di Longlegs, grazie anche a un make-up efficace, ci riporta a una interpretazione inedita, che probabilmente meritava di essere approfondita maggiormente. Il personaggio della Harker non rapisce come quello della Sterling, non riusciamo a empatizzare come con il mitico ruolo che fu di Jodie Foster.
Un limite relativo ai personaggi di Longlegs, è la semplicità di ricalcare aspetti in modo forzato, senza riuscire a persuaderci mai del tutto. Non c’ è un personaggio che ci rapisce, con forza e potenza. Non si crea mai un’alchimia che forse ci sarebbe calcando i tratti di un thriller psicologico.
L’orrore raccontato tra i generi
Un elemento di spicco in Longlegs: il film mette in contatto horror ed elementi da slasher movie, pur poggiandosi su una impostazione di indagine poliziesca tipica di un thriller. Perkins lavora sui canoni del genere, fa un horror ma vuole ridiscuterne i paradigmi, aggiunge il thrilling, la suspense, e poi ci spiazza inserendo anche degli elementi grotteschi. Lasciando trasparire un’attitudine cinefila nel tratteggiare alcuni elementi grezzi da b-movie. Per alcuni pregio o per altri difetto.
Alla fine non stiamo nei canoni dell’horror splatter, né del paranormale o esoterico e nemmeno del thriller o del noir, ma in una terra di mezzo che ridiscute i confini di un genere, andando quasi a provocare lo spettatore. Una cosa che ha saputo fare molto bene Ti West con la trilogia di Maxxxine.
Le dinamiche commerciali
Va fatto un appunto a questo Longlegs: una cosa che colpisce sulle dinamiche fuori dalla fruizione del film, è la capacità di comunicazione e di marketing che di riflesso all’uscita statunitense è riuscita a costruire un hype non indifferente sulle attese di questo film. La campagna pubblicitaria, la propensione commerciale di un progetto però non fanno da sole un’opera; la possono rendere accattivante con la comunicazione, ma poi ci deve essere la sostanza. Questo comunque può rinvigorire il valore di un progetto, e senza dubbio, è un “volano” che stimola e invoglia la gente ad arrivare nelle sale, elemento prezioso per tutto l’indotto. Ma una cosa è la distribuzione con tutte le appendici promozionali, un’ altra il contenuto del film.
Le dinamiche commerciali in Longlegs però arrivano al limite della “contaminazione” dell’opera in termini di produzione. Il lungometraggio di Oz Perkins potrebbe sembrare un film già pensato per essere parte di una trilogia, e magari lo sarà, con una storia che ci appare impostata in funzione di una serialità. Prequel e sequel sembrano indispensabili oggi, in un modello americano che bada più agli aspetti commerciali su più episodi che alla genuinità di un’idea e di un’opera sola. Viviamo nell’epoca delle piattaforme, del “consumo” di serie e di conseguenza degli audiovisivi, compresi anche i film che seguono questa logica, oramai, e vengono concepiti per questa distribuzione. Ciò contamina anche un film come questo che in prima battuta esce nei cinema.
La prevalenza dello scenario d’insieme sulla profondità dei personaggi
Ritornando alla scrittura del film, rimaniamo con l’interrogativo se con una stratificazione dei personaggi più profonda, potevamo trovarci coinvolti maggiormente come spettatori. Diremmo probabilmente di sì.
Longlegs poteva diventare un cattivo di culto, un simbolo dell’horror o del thriller come lo sono stati gli Hannibal Lecter, per ritornare ancora una volta al capolavoro di Jonathan Demme. Invece rimaniamo su di un personaggio, sì spaventoso, ma che non sembra avere una fascinazione così forte o così terrificante da rimanere nell’immaginario del pubblico.
In Longlegs abbiamo uno scenario, delle ambientazioni cariche di elementi, ma rimane poco espressa la poetica. Sembra che, quasi volutamente, non si voglia approfondire ma solo accennare dei fattori che potevano essere preziosi nella narrazione di un singolo film e questo non aiuta il crescendo della diegesi.
Il film attinge dalla storia del cinema, si schiera con tanti film di successo della new wave recente e al contempo strizza l’occhio ai cult del passato. Ha un aspetto accattivante, una buona forma estetica e di stile, ma la sostanza ci lascia con più di qualche distacco. Purtroppo, a livello di script, siamo abbastanza sul territorio del prevedibile. Ci troviamo così ad appagarci per estetica e forma dimenticandoci un po’ della storia e delle sue “imperfezioni” che dovrebbe essere materia imprescindibile. Sostanza appunto.