Il pluripremiato corto Ultraveloci di Davide Morando e Paolo Bonfadini in concorso al Sentiero Film Factory, segue le vicende di Dodo, un uomo di mezza età affetto da paralisi parziale chiamato a difendere l’officina di famiglia da due rapinatori.
Ultraveloci, una questione di ritmo
Il ritmo in Ultraveloci è il vero centro della narrazione, a partire dalla sincopata routine di Dodo, ultralenta, che guadagna progressivamente dinamismo e rapidità fino a prolungarsi in una corsa sfrenata a bordo del furgoncino di famiglia.
Dodo passa il suo tempo risolvendo labirinti, un impiego a cui si dedica ogni qualvolta abbia un po’ di tempo morto. Si tratta di un passatempo che tiene occupati i suoi ingranaggi mentali, che olia la sua capacità di ragionamento, che lo tiene lucido. Il padre questo lo ha capito, ed è conscio che l’handicap del figlio non pregiudica le sue capacità intellettive, e che, anzi, è piuttosto svelto, ma, tuttavia, non nutre grande fiducia nella sua capacità di farcela nel mondo esterno ed è quindi reticente a responsabilizzarlo.
Il ratto rovesciato
Un primo tiepido cambio di ritmo nella vita di Dodo arriva quando vede il padre scacciare e poi uccidere un topo che infesta la cantina, il roditore è messo in trappola, incapace di risolvere la labirintica situazione in cui si è cacciato.
I topi, a detta del padre, sono animali veloci, ma stupidi, facili da trarre in trappola, e Dodo, invece, è a suo parere “un ratto al contrario”, svelto di pensiero ma lento nelle movenze.
La velocità è il sogno d’infanzia di Dodo, la sua camera è piena di modellini d’auto, di foto d’infanzia in cui monta a bordo di macchinine giocattolo, ed è come se l’idea di essa ancora oggi fosse presente in lui, richiamandolo a sé con insistenza, arrivando fino a tormentarlo.
Una sera, mentre sta ultimando le ultime faccende in negozio, il padre deve assentarsi per via di una emergenza, non ha scelta se non quella di responsabilizzare il figlio, di metterlo nella condizione di rendersi autonomo.
Non che questa sia la volontà esplicita del padre, ma il destino di Dodo lo costringe a rompere il guscio di sicurezza e familiarità che fino a quel momento lo hanno preservato.
Ultraveloci e l’inseguimento della velocità
Che storia sarebbe se il protagonista per scoprire sé stesso non dovesse superare una serie di peripezie e pericoli? Ultraveloci non fa eccezioni, ed ecco quindi che le insidie subito tentano di mettere il bastone fra le ruote alla scoperta e consapevolezza del nostro eroe.
Due rapinatori si introducono nel negozio, Dodo li vede e decide di reagire.
Qui, la sua natura di “ratto rovesciato” affiora in tutta la sua contraddittorietà, sgattaiolando silenziosamente da uno scaffale all’altro, orientandosi nel magazzino come in uno degli intricati labirinti che è solito risolvere su carta. E Dodo riesce, infine, a mettere fuori gioco un rapinatore.
L’uomo lo tratta come se stesse avendo a che fare con un topo qualsiasi. Non può vederlo, è sfuggente e difficile da individuare, ma sa che può contare sulla sua lentezza di pensiero, sulla sua incapacità di ragionare. Dodo tuttavia non è un normale ratto, è di una specie differente, è un ratto all’incontrario, e forte della sua sveltezza riesce a giocare un tiro mancino a rapinatore, spingendolo a terra e disarmandolo.
Il rapinatore annaspa trascinandosi a terra, mentre il suono dei suoi affanni si mischia con lo squittire di un ratto, non è più Dodo l’animale in trappola, ora è lui a decidere delle sorti del suo antagonista.
È come se i due lembi del racconto, quello coincidente con la scena iniziale di caccia al topo e questo, si congiungessero, concorrendo a realizzare una circolarità narrativa coerente, che apre l’iter introspettivo del protagonista e che prosegue poi fino qui a chiuderlo.
Dodo non è però un carnefice, decide di risparmiare il rapinatore, la situazionalità in cui è immerso gli permette di far ben di più che abbassarsi alla pratica di una sterile vendetta violenta, capisce infatti di trovarsi di fronte all’occasione di una vita.
La corsa finale
Lascia così il luogo prediletto della sua quotidianità, monta a bordo del camioncino della ditta e si dà alla fuga, si tratta però di un escapismo che trascendente la geografia, si tratta di una fuga dell’anima e del pensiero, di uno smarrimento consapevole esercitato mediante l’esplicita volontà di prendere il largo senza sapere dove ci si trova per il puro gusto di farlo.
La splendida fuga di Dodo è il momento apicale del suo processo di crescita, l’uomo è estasiato dalla libertà conquistata ed ottenuta, quasi trasportato dall’ebrezza di quella ultravelocità che tanto ha ardentemente desiderato.
La sua corsa a bordo del camioncino squarcia il suo universo di senso, il mondo che fino a quel momento ha conosciuto. Funge da cesura con la sua quotidianità e allo stesso tempo da collante con i propri sogni di bambino, respingendo una parte della sua vita e informandone di coerenza un’altra
La scena finale di Ultraveloci è gravida di significati espliciti ed impliciti, magistralmente girata nella sua semplice fissità, nonché eccezionalmente toccante.