Reem Al Shammary: The Bedouin Boxeur è il nuovo cortometraggio di Mattia Ramberti, già conosciuto per la sua opera d’esordio Yoshi Funabashi, del 2021. Dopo una presentazione in anteprima internazionale presso il Big Sky Documentary Film Festival 2024, il film è stato proiettato al Sentiero Film Factory di Firenze.
Trovi il ulteriori informazioni sul Sentiero Film Factory qui.
Sinossi
L’opera si configura come un documentario che, utilizzando materiali d’archivio e sequenze di ricostruzione, vuole ritrarre la pugilessa beduina Reem Al Shammary. Sì segue il percorso sportivo della donna dagli inizi fino al tentativo di partecipare le Olimpiadi e ci si concentra, in particolare, sulla sua personale forma di lotta contro la disparità di genere in Giordania: ispirare ed allenare una generazione di pugilesse.
Pugilato e parità di genere
La forza di Reem Al Shammary: The Bedouin Boxeur di Mattia Ramberti è da ricercarsi, soprattutto, nella sua forte volontà di indagare e ritrarre un’importante tematica sociale. La pugilessa protagonista, infatti, diviene simbolo di una vera e propria lotta per la parità di genere. Ciò che è maggiormente sottolineato nel suo percorso non è tanto l’importante traguardo della partecipazione alle Olimpiadi ma, più che altro, il modo in cui l’atleta riesce ad avere una forte influenza sulle donne della sua generazione, che vorrebbero emularla. Il documentario mostra quindi il pugilato femminile non solo analizzandone le caratteristiche intrinsiche ma anche, e soprattutto, le implicazioni a livello sociale, in particolare all’interno di uno stato come la Giordania.
Per il resto, il film di Mattia Ramberti risulta molto semplice, in particolare dal punto di vista tecnico e narrativo. La regia è caratterizzata da un costante alternarsi di campi lunghi e inquadrature più strette sulla protagonista, a sottolineare la necessità di un racconto che non sia solo intimista, ma che riesca ad inserire in maniera efficace il soggetto all’interno del contesto sociale di riferimento.
Sorprende maggiormente la prima parte, che mette in scena l’allenamento della donna per le Olimpiadi. Qui le immagini sono spesso distorte per dare loro una maggiore carica emotiva e per favorire il ritmo quasi frenetico del montaggio che, in questa fase iniziale, fa un ampio utilizzo del materiale d’archivio, presentato in sovraimpressione alle scene di finzione. È in queste sequenze che il cortometraggio risulta più efficace, arrivando a ricordare, a tratti, lo stile delle opere del periodo anni ’90 di Shin’ya Tsukamoto, in particolare Tokyo Fist.
Conclusione
Nonostante non risulti del tutto riuscito, Reem Al Shammary: The Bedouin Boxeur è caratterizzato da alcune sequenze estremamente efficaci, che contribuiscono a renderlo decisamente unico nel suo genere. Colpisce maggiormente la scelta di un argomento apparentemente semplice, come il pugilato femminile, che riesce, tuttavia, a portare alla luce importanti tematiche sociali, messe in scena in maniera analitica in tutta la loro complessità.