Shin’ya Tsukamoto, il regista elettrico da Tetsuo a Venezia
Shin'ya Tsukamoto è uno dei più grandi cineasti viventi, inventore del cyberpunk nipponico e autore di almeno due capolavori assoluti. A Venezia con Hokage
Il cinema è pieno di generi e sottogeneri: specie dopo che il pulp di Tarantino ha proiettato il linguaggio in un limbo atemporale dove regna il crossover, per attingere da un presente infinito e continuo, la grammatica cinematografica si ibrida e muta ciclicamente sempre più veloce.
Senza sapere esattamente se il 1989 è oggi vicino o lontano (e oggi si usa consapevolmente, per intingere i concetti in un flusso cronologico di coscienza ininterrotto), è però in quell’anno che esce sugli schermi Tetsuo, film che definisce il cyberpunk nipponico per gli anni a venire, l’esordio -che definire rivoluzionario è riduttivo- di Shin’ya Tsukamoto che a trentaquattro anni dalla sua nascita è perfettamente in grado di sconvolgere e scuotere nel profondo uno spettatore ignaro.
Però il geniale regista, sceneggiatore, attore, montatore, direttore della fotografia, produttore cinematografico, scenografo giapponese nato il 1960 a Tokyo aveva già fatto le prove del suo cinema disturbante, costruito sull’ibridazione dell’horror con la fantascienza per meglio spiegare la mutazione, tra amputazioni, piroette, metallo, fiamme e sangue, con il mediometraggio di due anni prima Le Avventure del Ragazzo del Palo Elettrico (電柱小僧の冒険Denchû kozô no bôken).
SETE DI SANGUE
È da qui che Shin’ya Tsukamoto si diverte a sperimentare sui tempi, sulle dinamiche e sullo spazio scenico del cinema attraverso la messa in scena di un mondo ipercinetico e ansiogeno; perché nonostante una trasformazione artistica ovvia e ineluttabile, Shin’ya rimane fedele ad alcuni stilemi formali e tematici che si fondano prima di tutto sull’uso costante della steadicam e un montaggio ipercinetico e violento. la fotografia poi assume connotati simbolici ed evocativi, facendo lo slalom tra surrealismo e futurismo, e avvicinandosi -almeno all’inizio- alla poetica di David Cronenberg, dove l’identità del corpo si associa al rapporto uomo-macchina e sfocia nell’alienazione.
Ne Le Avventure del Ragazzi del Palo Elettrico, Hiraki è uno studente vessato dai compagni di scuola che lo prendono in giro per la sua natura, ha infatti un palo della luce che gli esce dalla schiena. Una conformazione fisica che è più una maledizione, ma che però gli permette di viaggiare nel tempo e di vedere, in un futuro tenebroso, i vampiri Shinsegumi che minacciano di togliere la luce alla terra grazie alla deflagrazione di una bomba. Sarà proprio Hiraki a dover combatterli.
È questo il film che lo fa conoscere come uno dei principali innovatori dell’industria cinematografica di fine millennio, che lui rivolterà con una visione che è un punto di non ritorno dell’intero movimento cyberpunk (e non solo). Il Kaiju Theater, gruppo teatrale con il quale Tsukamoto affina la propria ricerca estetica, nato durante la sua accademia d’arte, gli permette di comporre alcuni lavori che già contengono, in nuce, il suo impianto immaginifico che proromperà da lì a pochissimo. Le Avventure del Ragazzo… è allora il primo confronto con materiale mainstream, opera che miscela orrore e fantascienza e che però mostra la propensione dell’autore ad affrontare i clichè senza smitizzarli o smentirli, e contemporaneamente a farsi personalissimo nello stile e nello sguardo attraverso l’ipercinesi glorificata, un utilizzo solo apparentemente fuori controllo della macchina da presa, un montaggio schizzato, spinto al massimo e quasi alla cieca verso una estrema, lucidissima sperimentazione, e senza per questo dimenticare il fascino -che non ha nulla di morboso ma diventa gioioso- per umori, liquami, rifiuti organici della società industriale.
GAME OVER!
Tetsuo (鉄男) ha tutto dell’opera rivoluzionaria e distruttiva. Ancora oggi ogni suo elemento (la fotografia, la storia, il montaggio, il suono, il bianco e nero) tendono verso l’autodistruzione, e fanno sì che questo autentico e assoluto capolavoro sia una scheggia impazzita, in attesa di penetrare in un corpo -filmico, materico, intellettivo- che lo faccia suo e lo rigeneri. Tetsuo è uno dei pochissimi film davvero rivoluzionari visti negli ultimi quarant’anni, a partire dal suo voler ostinatamente fondere i due antagonisti in un corpo unico per generarne un altro mostruoso e meccanico, che gronda sangue e orrore, fino a quell’erotismo sfiancato e sfiatato, concentrato nella celebre sequenza di deflorazione del membro-trivella.
All’alba degli sfilacciati e ipercinetici anni Novanta, su proprio Tsukamoto a sfondare la barriera occidentale per la nuova cinematografia orientale: non erano infatti ancora sbarcati, né tantomeno glorificati, Takeshi Kitano che esordiva con Violent Cop, né Kiyoshi Kurosawa, né Sogo Ishii. E dopo l’esplosione del film al Fantafestival romano, fu Enrico Ghezzi ad innamorarsi dell’opera e riprodurla ossessivamente nei suoi cicli di Fuori Orario.
Tetsuo è un film profondamente figlio del suo tempo, nel modo e nel momento in cui rimastica e sputa l’estetica da videoclip, la scansione narrativa da videogame, le mutazioni nucleari di Akira di Katsuhiro Otomo; e insieme, supera d’un colpo tutto questo e si pone sempre due passi avanti, perché in Tetsuo c’è sempre un dopo (sancito da quel game over posizionato dopo i titoli di coda), un post che segue la catastrofe catartica, mutando esso stesso in una lunga catena di corpi/non-corpi ch si lanciano a folle velocità verso l’estinzione.
Tetsuo rielabora il materiale di partenza e, così come opera sui generi senza distruggerli, accetta in sé la narrazione come atto di continua trasformazione in una umanità ormai sconfitta, persa in una megalopoli che non accetta l’umano in quanto tale ma deve deformarlo, relegarlo a meccanismo, robotizzarlo. È in questo modo che il film è in tutto e per tutto immagine in movimento, cinema per il cinema che come in ogni forma d’arte pura diventa lettura della società. Perché Tetsuo è figlio di una società senza freni inibitori apparenti, lanciata in una corsa sfrenata il cui unico fine è l’annullamento delle proprie regole e, come diretta conseguenza di ciò, di sé.
ORRORE NUCLEARE
Va sottolineato però che il furore iconoclasta dell’opera non è finalizzato ad una destrutturazione della grammatica della messa in scena: la negazione dei clichè è sì nichilismo punk, ma conduce anche ad un racconto che coglie il nervo scoperto di un Paese con l’acqua alla gola: Tetsuo è un doloroso dramma politico, una sorta di brivido pre-morte o post-orgasmo di un popolo sconfitto, di un’umanità che ha ceduto.
Tsukamoto non è allora (solo) l’ennesimo “figlio della bomba”, ma un regista che firma uno spietato documento della società giapponese della Bubble Economy (ndr:la Bubble Economy è la bolla speculativa giapponese formatasi a partire dal 1986 e scoppiata nel 1991, riguardante il mercato azionario e il settore immobiliare, la cui formazione fu possibile a causa di vari fattori, per primo la liberalizzazione delle norme finanziarie sommata al rapido aumento dei prezzi dei beni immobiliari. Una volta scoppiata, il Giappone andò incontro ad un lungo periodo di deflazione noto come “decennio perduto”, che segnò la fine del boom economico del secondo dopoguerra)
Nel 1990 arriva Hiruko The Goblin ((ヒルコ/妖怪ハンターHiruko/Yōkai Hantā), una sfrontata commedia horror libera che non si fa ingabbiare dai reticoli di una grande produzione pur essendo l’unico film su commissione di Tsukamoto; nel 1995 affronta liberamente il suo vate Cronenberg con Tokyo Fist; sempre una metamorfosi al centro di Bullet Ballet del 1998, mentre nel 1999 adatta il romanzo di Edogawa Rampo, Gemini (双生児Sōseiji), che descrive le sofferenze di un medico la cui moglie è afflitta da amnesia.
Il nuovo millennio si apre con le ossessioni amorose: nel 2002 con A Snake of June (六月の蛇 Rokugatsu no hebi), dramma erotico che in un visionario e atipico nero e blu racconta le nevrosi di coppia, dove a dispetto del suo stile solito, l’eleganza riesce a dominare anche le passioni più torbide; nel 2004 con Vital, un triangolo amoroso che si bagna nel sangue.
INDAGINI SUI COLORI DEL DOLORE
Tsukamoto aveva sempre dichiarato il suo amore per Twin Peaks, e la sua voglia di cimentarsi con il mezzo televisivo (“Veramente avrei un’idea per la TV, vorrei fare un serial alla Twin Peaks; la storia di un detective che deve scoprire chi crea incubi nella mente dei suoi clienti. Una cosa del genere potrebbe portarmi molti soldi, visto che sono completamente povero e di soldi ne ho bisogno”). E il nuovo millennio sembrava poter realizzare il suo desiderio, con la serialità dl progetto Nightmare Detective (悪夢探偵, Akumu tantei): è un horror che si piega alle regole del thriller psichedelico e subliminale, con un detective che indaga su due misteriosi suicidi.
Il film si iscrive con facilità nel tracciato autoriale dell’autore, storia su un corpo elettrico/morto/rinnovabile/mutato nella quale Tsukamoto filma il corpo come materia privata della sua forma, che dissolve la sua consistenza nel dolore inevitabile della mutazione. Nightmare Detective si muove nei passaggi dell’onirismo, spostandosi continuamente tra il binomio realtà/finzione e quello tra corpo e mente: privilegiando forse quest’ultima discrasia, per la necessità di puntare la macchina da presa sull’inafferrabile, sull’inconsistente, sui prodotti della mente umana con le sue deviazioni e i propri urli disperati.
Allora il protagonista, l’investigatore degli incubi, si muove nell’inconscio e nell’inconsapevolezza più totale nella quale agiscono i comprimari. La loro pulsione suicida (che si materializza di fatto nella telefonata a “0”, il personaggio non a casa interpretato dallo stesso regista) viene da radici ben più profonde e non riesce a trovare nella società nipponica di oggi una razionalizzazione compiuta. L’uomo si è costruito attorno e addosso un universo fagocitante, al punto da farne materialmente parte (in fondo era il percorso stesso di Tetsuo, che mirava a fondersi con l’altro)
Il nemico, quindi, non è più né fuori né dentro, perché il percorso di disumanizzazione intrapreso nel 1989 con Tetsuo ha raggiunto lo zenit, l’umanità ha perso senza essersi neanche accorta che stava partecipando ad un gioco. Il Game Over del primo film ha portato ad un labirinto senza uscita di atrocità, ad un mondo di incubi disseminato di morte e autodistruzione che Tsukamoto mostra grazie al digitale: che lui usa per destrutturare il colore, che qui come in precedenza abita il bianco&nero, i monocromi, il seppia, in una progressiva spoliazionedel colore.
Nightmare Detective è un successo inaspettato che figlia un seguito nel 2008; nel 2009 arriva il primo film girato in lingua inglese, il terzo capitolo di Testuo (dopo il secondo del 1992), mentre nel 2014 è la volta di Fires on the Plain (Nobi), portato a Venezia.
Ad oggi, l’ultimo film è Killing (斬, Zan) del 2018, un’elegia pacifista dimessa e violenta che lega la poetica di Tsukamoto sull’iper-cineticità delle immagini alla contemplazione del cineasta Kon Ichikawa.
I SAMURAI AI TEMPI DELLA MUTAZIONE
Il Jidai-geki (時代劇) è un termine che indica un genere storico ambientato in un contesto temporale ben preciso usato nel settore cinematografico, televisivo, teatrale o fumettistico in Giappone.
Il termine tradotto suona come “rappresentazione del periodo”, assimilabile al dramma storico quindi: e solitamente, si riferisce a storia ambientate tra il 1603 e il 1868, ovvero il periodoTokugawa noto anche come periodo Edo, quella fase storica del Giappone in cui la famiglia Tokugawa appunto detenne il massimo potere politico e militare. Edo è la capitale, sede dello shogun (titolo ereditario conferito ai dittatori politici e militari), ribattezzata Tokyo nel 1869.
Nel cinema, il Jidai-geki racconta di samurai, contadini, fabbri e mercanti, spesso avvicinandosi al Chambara –letteralmente, “combattimento con le spade”.
La storia, quindi: ancora una volta il Giappone della contemporaneità, il riarmo voluto da Shinzo Abe (politico audace, pragmatico, nazionalista, più di chiunque altro ha segnato il Paese dal Secondo Dopoguerra, l’ha rilanciato nella scena economica e internazionale, l’ha avvicinato agli Usa e allontanato dalla Cina e dalle Coree).
Tutto questo materiale si riversa in Killing, probabilmente il più bel film della Mostra di Venezia del 2018, nel quale Tsukamoto rilegge i samurai dicendo addio ai campi lunghi di Akira Kurosawa sbizzarrendosi con la sua amata macchina a mano, tellurica, schiacciata sui primi piani o sui dettagli: delle mani, delle spade, delle ferite.
Il dilemma morale si dispiega tra quattro personaggi, un villaggio e una fuga che diventa percorso ascetico: un film rapidissimo come solo Tsukamoto sa fare (appena 80 minuti), mentre si contengono gli spargimenti di sangue a favore di un dilemma etico che guarda da vicino alla resistenza pulsionale e spirituale all’atto di uccidere.
Zan è -finalmente?- uno sbocco nuovo per l’estetica del regista nipponico, forse meno esplosivo di altre opere ma con una sfera sensoriale ed espressiva superiore a gran parte della produzione contemporanea: e fin dall’inizio è evidente il lavoro fatto su colore, fotografia e montaggio.
Scelte nette a partire dall’inizio, con la luce del giorno che illumina un colore vividissimo nel conflitto cromatico, prima dell’avvento di un chiaroscuro crepuscolare contemporaneo al ritmo della narrazione che vira verso la tragedia. Tutto questo mentre la steadicam nevrotica e velocissima cattura i primissimi piani, come se si volesse trasportare quell’estetica cyberpunk in un’epoca lontana secoli, solitamente messa sotto una teca di cristallo come in ossequio rarefatto.
Killing rilegge il suo presente con lo sguardo paranoide ed epilettico di Tetsuo: e quando Mokunoshin, il protagonista, ripudia l’idea di uccidere, sembra un manifesto politico contro Abe e la nuova spinta nazionalista e militarista del Giappone del 2018. La sua incapacità di uccidere è una scelta istintiva ancor prima che filosofica, che viene però letta come mancanza di virilità da quella società machista che non può invece che glorificare le gesta del suo avversario, Sawamura, la cui katana è un prolungamento mortifero del suo sesso, dove l’uomo (già) si fonde con il metallo, con un’arma che uccide i nemici.
Di seguito il trailer originale del film presente a Venezia, Hokage (Ombra di Fuoco):
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