La carriera di Hirokazu Kore’eda come regista inizia nel 1995 con Maaborosi e da allora ha sempre dimostrato di saper raccontare il vissuto umano in forme innovative e profonde. Il tema prediletto da Kore’eda sono le famiglie scelte che si creano tra persone legate da qualcosa di diverso dal sangue. Si tratta di famiglie atipiche che dimostrano la superiorità dell’amore puro anche nelle situazioni più drammatiche.
Un aspetto fondamentale legato al tema della famiglia è la crescita interiore che avviene nel momento in cui i personaggi si relazionano con coloro che li circondano.
Prendiamo in esame Nessuno lo sa (2004), Father and Son (2013) e Monster (2023), tre pellicole in cui Hirokazu Kore’eda racconta l’essenza della crescita e della costruzione di sé tramite i rapporti umani. Sono storie che hanno tutto il sapore della vita reale e mostrano personaggi così veri che, osservandoli, non possiamo fare a meno di guardarci dentro. Ci viene da chiederci come sia possibile che un’opera arrivi a parlare di noi fino in fondo, facendoci osservare aspetti della nostra personalità che forse non potevamo nemmeno sospettare. Probabilmente è proprio questo il merito di tutte le grandi opere d’arte e dei grandi artisti del calibro di Kore’eda.
Nessuno lo sa, Kore’eda, 2004 – Trama
Una madre single e il figlio dodicenne Akira si traferiscono in un appartamento di Tokyo. Ben presto si scopre che la donna ha altri tre bambini che ha fatto introdurre di nascosto nell’appartamento, di cui due che aveva chiuso nelle valigie usate per il trasloco. I bambini vivono nascosti nell’appartamento; la mamma non permette loro di frequentare la scuola e solo Akira è autorizzato ad uscire. La mamma è una presenza poco costante nelle vite dei figli e spesso lascia i bambini a casa da soli per lunghi periodi, incaricando Akira di badare ai fratellini. Un giorno la donna menziona di aver intrapreso una relazione con un nuovo compagno che promette di sposarla e di far condurre alla famiglia un’esistenza normale. Con queste premesse, si allontana di casa lasciando un po’ di soldi e abbandona i bambini per mesi. Con il passare del tempo i bambini vanno incontro a difficoltà sempre maggiori, a partire da capire come procurarsi il cibo e pagarsi le bollette.
Nessuno lo sa, Kore’eda, 2004 – Commento
Il film è stato presentato alla 57ª edizione del Festival di Cannes nel 2004, con la giuria presieduta da Quentin Tarantino. Yuya Yagira, nei panni di Akira, è stato premiato con il Premio per la miglior interpretazione maschile. Ad oggi risulta essere il più giovane vincitore in questa categoria nella storia del Festival.
Un aspetto molto importante della lettura di Nessuno lo sa è che il film si ispira a fatti realmente accaduti.
Nel 2004 il Giappone è stato scosso da un caso di abbandono di minori particolarmente grave. Una madre aveva abbandonato i suoi cinque figli nel loro appartamento nel distretto di Sugamo a Tokyo, dando al primogenito la responsabilità di badare agli altri e lasciandogli una cifra di ¥50.000 (circa €350 con il cambio dell’epoca). I bambini avevano vissuto quasi in totale autonomia per ben nove mesi, finché la polizia non è intervenuta dopo che il proprietario di casa aveva espresso dei sospetti sull’appartamento in cui vivevano i bambini. Sono stati ritrovati solo quattro dei cinque bambini, tutti in evidente stato di malnutrizione. Uno di loro era morto durante il periodo di abbandono e il fratello maggiore aveva dichiarato di averne seppellito il corpo in un bosco vicino Tokyo.
La società di cura
La tragedia della vita reale crea una breccia per raccontare i legami profondi che si creano in situazioni di estrema necessità. Tutto il film è incentrato sui gesti di cura. In particolare la cura è fornita dalle mani, che sono mostrate mentre cucinano, pettinano i capelli, accarezzano i panni stesi ad asciugare. Le mani di Akira si prendono cura della famiglia quando chi dovrebbe prendersi cura di lui viene meno.
Hirokazu Kore’eda lavora in sottrazione. Toglie man mano tutti i supporti esterni – la figura della madre, il supporto economico – in modo da poter esplorare come ci si ricostruisce una stabilità emotiva a partire solo dai rapporti che si scelgono. I personaggi crescono, si adattano, escono fuori nel mondo. Conoscono una realtà che non ha tempo per loro e che li abbandona. Questo li porta a cercare una propria via e a costituire una società di cura in cui sono loro stessi a plasmare la realtà. È un mondo creato dai bambini per i bambini, con risate che risuonano nella cucina, errori ortografici e tutte le storture di una storia vera. I bambini si appoggiano l’uno all’altro per crescere tra i relitti della vita di un adulto assente e così facendo si salvano. Almeno in parte.
Father and Son, Kore’eda, 2013 – Trama
Ryota ha tutto ciò che si potrebbe desiderare. È un uomo di successo nell’ambito lavorativo e che desidera una famiglia perfetta e di successo proprio come la sua azienda. Per questo motivo è particolarmente severo con il figlio di sei anni, Keita, che non riesce a soddisfare le aspettative del padre. Un giorno Ryota scopre che Keita in realtà non è il proprio figlio biologico, ma è stato scambiato in ospedale il giorno della sua nascita. Ryusei, il vero figlio di Ryota, vive con una famiglia meno abbiente ma molto più affettuosa. Si decide dunque di scambiare i bambini e di crescerli con le rispettive famiglie biologiche, ma i rapporti che si creeranno non saranno sempre quelli sperati.
Father and Son, Kore’eda, 2013 – Commento
Hirokazu Kore’eda ha presentato il film alla 66ª edizione del Festival di Cannes nel 2013. Il film ha ricevuto un’accoglienza estremamente calorosa da parte della critica ed è stato premiato con il Premio della Giuria, presieduta da Steven Spielberg. La DreamWorks ha acquistato i diritti del film quasi subito per poterne realizzare un remake, del quale non sappiamo ancora nulla per il momento.
In Father and Son la dimensione della famiglia scelta è di nuovo il fulcro dell’opera. L’idea per il film è nata da una riflessione personale di Hirokazu Kore’eda, che sei anni prima era diventato padre di una bambina. In un’intervista rilasciata a The Moveable Fest nel 2013 parla delle sue difficoltà a vivere la paternità e afferma di chiedersi spesso se sia più forte il legame di sangue o il legame creato dall’amore delle persone con cui vieni cresciuto.
Discutere la paternità
Ryota è un uomo che dall’esterno sembra avere tutto, a partire dal denaro e dalla posizione sociale. L’unica cosa che gli manca è un vero rapporto con la propria famiglia e in particolare con il piccolo Keita. Quest’ultimo rappresenta la sublimazione di tutti gli aspetti irrisolti e possibilmente fallimentari della vita del padre. Per questo motivo Ryota lo tiene a degli standard altissimi e non contempla la possibilità di una relazione d’affetto puro e incondizionato.
Tutto il film è il percorso di un uomo che diventa padre. Ryota man mano accetta il punto di vista dei personaggi che lo circondano e inizia a modificare il proprio modo di relazionarsi con l’esterno. Lascia andare parti di sé e accoglie ciò che portano gli altri. Così facendo ricostruisce man mano non solo un senso di rapporto sincero con la propria famiglia, ma anche la sua stessa personalità. Tutta la nostra essenza è plasmata dalla relazione con l’esterno; possiamo solo decidere se farci ispirare dalla presenza di chi è diverso da noi o restare sulle nostre posizioni e valutare più avanti se ne sia valsa la pena.
Monster, Kore’eda, 2023 – Trama
Saori è una madre single che abita con il figlio dodicenne Minato. Ad un certo punto Minato inizia a comportarsi in modo strano. Torna da scuola con ferite che non sa spiegare come si è procurato, i suoi oggetti personali spariscono e in generale si rifiuta di parlare con la madre di cosa stia succedendo. Il responsabile del malessere del bambino sembra essere Hori, un autoritario maestro di scuola, che pare averlo preso di mira. Hori, dal canto suo, reagisce alle accuse incolpando Minato di essere il bullo di Yori, un altro compagno di classe. Ma la realtà a volte non è quella che sembra, e per comprendere davvero forse è necessario cambiare punto di vista.
Monster, Kore’eda, 2023 – Commento
Ad oggi Monster è il più recente film di Hirokazu Kore’eda. A differenza degli altri film menzionati, Kore’eda non risulta tra gli sceneggiatori. Non succedeva dalla pellicola di esordio Maaborosi (1995). Il film è stato presentato al 76º Festival di Cannes tra i film in concorso, dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura.
La colonna sonora del film è una delle ultime composte dal Maestro Ryūichi Sakamoto, scomparso ormai un anno fa. Sakamoto è riuscito ad occuparsi personalmente solo di due brani per il film e Kore’eda ha deciso di dedicare l’opera alla sua memoria.
Monster potrebbe rappresentare una svolta nella produzione di Kore’eda. Il film inizia come un thriller in cui si cerca freneticamente il colpevole del malessere di Minato. Nel corso della visione, l’opera convince lo spettatore a credere a quello che vede e a dare dei giudizi immediati e accusatori. La narrazione si svolge in episodi in cui ci viene mostrata la stessa storia da diversi punti di vista, in modo da spazzare via le nostre convinzioni e a costringerci a rivalutare ogni personaggio.
Hirokazu Kore’eda affronta di nuovo il tema del rapporto con l’altro. Esso viene arricchito dalla riflessione sulla comprensione di sé, che può realizzarsi solo se siamo disposti a lasciare spazio a vissuti diversi dai nostri. Minato si trova immerso nel caos di un mondo composto da adulti che non riescono o non possono essere sinceri gli uni con gli altri. A volte fanno fatica ad essere sinceri addirittura con se stessi. Di conseguenza neanche Minato riesce ad esprimere chi è davvero, né ad affrontare con serenità alcuni aspetti della propria personalità. La salvezza, in una sorta di ritorno ai temi di Nessuno lo sa, si cela di nuovo nei rapporti umani tra i bambini.
Il mondo segreto dei bambini
Minato è una creatura ferita che non sa come affrontare la vita; la sua guarigione può passare solo attraverso un nuovo rapporto, puro, profondo e spaventosamente reale. Nel confrontarsi con Yori, Minato trova la forza di vivere parti di sé che prima non riusciva nemmeno a comprendere. Il tema della famiglia ritrovata questa volta è subordinato ad un altro aspetto: per vivere relazioni umane profonde, dobbiamo prima accettare noi stessi, vivere la nostra realtà e lasciar morire una parte di noi. Solo dopo aver abbracciato completamente ogni lato di sé, si può arrivare alla catarsi che ci permette di vivere intensamente.
L’innocenza-Monste la felicità è a portata di mano