Con il suo ultimo lungometraggio, Io capitano, Matteo Garrone rappresenterà il cinema italiano nella 96esima edizione degli Oscar che si terra il prossimo 10 marzo al Dolby Theatre dell’Ovation Hollywood. L’evento, condotto dal popolare comico Jimmy Kimmell, affiancato da Ariana Grande e America Ferrera, sarà trasmesso dalla RAI. Dopo circa due anni, un film italiano torna nella cinquina dedicata alle migliori opere straniere. L’ultima volta è avvenuto nel 2022, quando Paolo Sorrentino, con È stata la mano di Dio, non riuscì a replicare il trionfo di La grande bellezza. Quest’anno ci sono tante speranze per Io capitano che rappresenta, nella filmografia di Matteo Garrone, un punto d’arrivo fondamentale per una carriera di un cineasta imprescindibile del cinema italiano.
Io Capitano, un punto d’arrivo nella filmografia di Matteo Garrone
Il film, in corsa per l’ambita statuetta, è stato presentato alla 80esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha ottenuto il Leone d’argento alla regia e il Premio Marcello Mastroianni, assegnato a Seydou Sarr.
Io Capitano di Matteo Garrone
Io capitano ha poi ricevuto innumerevoli riconoscimenti in Italia e in giro per il mondo. L’undicesimo lungometraggio di Matteo Garrone è stato premiato alla 28esima edizione del Capri Hollywood International Film Festival e al prestigioso Festival spagnolo di San Sebastian.
Dal 23 febbraio il film è sbarcato in America, suscitando gli apprezzamenti di Sean Penn e Joaquin Phoenix. Sempre da oltreoceano giunge l’ennesimo riconoscimento. Questa volta si tratta del premio dei critici della comunità afroamericana che ha scelto Io capitano come miglior opera straniera.
“Sono particolarmente felice di questo premio, dimostra che il film è stato capito. In fin dei conti, mi si poteva accusare di appropriazione culturale, di appropriarmi di una vicenda umana e storica non mia”.
In realtà qualche fraintendimento il film di Garrone l’ha creato. Sulle pagine del New York Times è apparso un articolo firmato da Richard Braude, attivista di Porco Rosso, un laboratorio collettivo di idee e di pratiche politiche antifascista e antirazziste. Braude rimprovera a Io capitano di semplificare troppo la complessa questione dell’immigrazione e soprattutto di terminare lì dove iniziano gli interrogatori e quasi sempre l’arresto.
Il film di Matteo Garrone, come giustamente fa notare Braude, giunge alla sua conclusione con l’arrivo in Italia, quando i due giovani protagonisti avrebbero affrontato un’atra Odissea. Un’altra storia che, probabilmente, Matteo Garrone ha già raccontato.
Un’Odissea contemporanea
Braude fa il suo dovere, ricordando la responsabilità dell’Europa e dell’Italia per quanto riguarda l’emigrazione dall’Africa. Una volta giunti dall’altra parte del Mediterraneo, uomini, donne e ragazzi giovanissimi, non tanto diversi da Seydou e Moussa, subiscono altre umiliazioni e vengno rinchiusi nei famigerati centri di identificazione ed espulsione o lasciati al loro destino, non certo fortunato nella stragrande maggioranza dei casi.
Le accuse rivolte a Io capitano, però, sono ingiuste, perché basate su un fondamentale equivoco. Senza dubbio, il film tratta d’immigrazione, tema di stringente attualità in tutto il mondo, ma la sua chiave di lettura non è la politica. Come quasi sempre avviene nella filmografia di Matteo Garrone, le storie raccontate mostrano il lato umano, forse antropologico della realtà.
Il regista romano, con questa sua ultima fatica cinematografica, ha messo in atto un cambio di prospettiva. Ponendo la macchina da presa dall’altra parte ed evitando un punto di vista eurocentrico, ha realizzato un controcampo, mostrando ciò che non si vede.
Con Io capitano, Matteo Garrone non fa una neutra trasposizione della realtà sul grande schermo. Come in precedenza, basti pensare a Gomorra, il regista romano mette in pratica un’operazione iperrealista, svelando l’interiorità della storia e dei suoi protagonisti. Una storia catturata dalla realtà, interpretata da Garrone e gli attori stessi, i quali arricchiscono il testo filmico, evocando le loro esperienze che vengono tradotte in immagini e collocate in una dimensione irreale e magica.
Io capitano conferma una costante della filmografia di Matteo Garrone: la realtà sfocia nella favola, conservando i connotati del realismo. L’etichetta di nuovo neorealismo, spesso affibbiata al suo cinema, è un tantino fuorviante. Il neorealismo è sicuramente un punto di riferimento e i punti in comune sono davvero tanti, ma Garrone trasfigura il dato oggettivo, giungendo a una modalità vicina al realismo magico.
In tutti i suoi film il regista parte da un fatto neutro, spesso di cronaca (L’imbalsamatore, Primo amore, Dogma), per poi, progressivamente, svelare l’interiorità delle cose. Questa prassi è del tutto riconoscibile in Io capitano, la cui storia è stata estratta dai racconti ascoltati in Senegal e poi rielaborati dal regista e i suoi collaboratori (Massimo Gaudioso, Massimo Ceccharini, Andrea Tagliaferi) e sempre tenendo conto della prospettiva dei due giovani protagonisti si è giunti a un film davvero collettivo.
Nel tessuto narrativo del lungometraggio, la tematica dell’immigrazione emerge come elemento fondamentale, ma Io capitano, nella sua magnifica semplicità va ben oltre. È il racconto di un viaggio, un’avventura degli ultimi eroi epici che non vogliono rinunciare al proprio desiderio di scoperta del mondo. Con questo suo ultimo film, Matteo Garrone dà vita a una favola. Costruisce, contemporaneamente, un mondo reale e magico, dove il bello e il deforme si mescolano, in un contrasto senza soluzione di continuità.
Ospiti
L’altra accusa lanciata a Io capitano è stata quella di concludersi dove iniziano gli eventi più cruciali di una storia d’immigrazione. L’arrivo in Italia di Seydou e Moussa non viene mostrato, il film si conclude con la fine di un’Odissea contemporanea.
Da qui potrebbe iniziare un altro film che, in realtà, ma Matteo Garrone lo ha già realizzato nel 1998: Ospiti.
Gheni e Gherti sono due giovani cugini albanesi giunti in Italia. Vivono a Roma, dove trovano ospitalità in casa di Corrado, un fotografo impegnato ad allestire una mostra.
Come Io capitano, anche Ospiti non tratta solo di emigrazione. I due film hanno molto in comune, non solo perché in entrambi i casi i protagonisti sono una coppia di cugini, con le stesse prospettive e desideri. In entrambe le opere il regista va oltre la realtà dei fatti, raccontando ciò che è nascosto.
Ospiti è ambientato in contesto del tutto diverso. Siamo sul finire degli anni Novanta, ma, come oggi, l’immigrazione era un tema molto contemporaneo. All’epoca, però, il principale flusso migratorio giungeva dall’Albania. Il regime comunista era crollato da pochi anni e la giovane democrazia albanese viveva una profonda crisi politica, sociale ed economica. Così migliaia e migliaia, tra donne, uomini e bambini, si imbarcavano per raggiungere la terra promessa: l’Italia. Le innumerevoli storie di questo ennesimo viaggio della speranza è spesso trattato dal cinema, come in Lamerica di Gianni Amelio.
Garrone trasfigura la vicenda e con il suo tipico stile, solo apparentemente documentaristico, mostra un altro viaggio, altrettanto magico e allo stesso tempo reale. Un racconto corale, dove diverse storie si intrecciano, per raccontare la nascita di un’amicizia.
Un rapporto sincero, ma non del tutto privo d’interessi, si istaura tra i personaggi del film. Questi rappresentano figure non del tutto realizzate. Nonostante la loro diversa collocazione sociale, i protagonisti di Ospiti condividono la stessa estraneità alla realtà che li circonda. Vivono ai margini, senza essere compresi, con il proprio linguaggio inceppato, sognano una realizzazione, difficilmente raggiungibile. Sono in perenne cammino in un modo apocalittico, in una terra di mezzo che, non a caso, è il titolo del suo primo lungometraggio.
L’esordio con il cortometraggio Silhouette e il primo lungometraggio, Terra di mezzo
Matteo Garrone, nasce a Roma nel 1968. Il padre, Nico, è un critico teatrale e la madre, Donatella Rimoldi, è una fotografa. Matteo, dunque, cresce in una famiglia che sostiene le sue vocazioni artistiche. Inizialmente, il futuro cineasta decide di dedicarsi alla pittura. Dopo poco, però, con un gruppo di amici decide di girare un cortometraggio, Silhouette, vincitore del Sacher d’Oro, che solo qualche anno più tardi diventerà l’incipit di Terra di mezzo.
È un film del 1996, scritto, diretto e prodotto da Matteo Garrone, realizzato con la collaborazione di Marco Onorato alla fotografia e Marco Spoletini al montaggio.
È la successione di tre storie. La prima parte è dedicata alla quotidianità di un gruppo di prostitute nigeriane al rapporto con i clienti. La seconda parte, invece, mostra una giornata di lavoro di due giovani emigrati albanesi. Il film si conclude con la storia di Ahmed, un egiziano sulla cinquantina che lavora come benzinaio in un distributore alle porte di Roma.
Già in questo suo primo film, Matteo Garrone dimostra la sua magistrale capacità di trasfigurare la realtà, proiettandola in una dimensione fiabesca, tra il meraviglioso e il deforme. La transizione, da una dimensione all’altra, avviene, con la stessa immediatezza, a livello narrativo e visivo.
Il regista, con i i suoi trascorsi da pittore, è capace di creare una messa in scena semplice, scarna, ma mai lasciata al caso. I racconti dei protagonisti, mostrati con uno stile documentaristico, partoriscono immagini dell’inconscio. Ricordi, emozioni, pulsioni e rabbie vengono svelate in una favola crudele, vera e umana.
L’imbalsamatore
Dopo Terra di mezzo e Ospiti, film autoprodotti, alla filmografia di Matteo Garrone si aggiunge L’imbalsamatore, prodotto con una grande casa di produzione, la Fandango di Domenico Procacci.
Un uomo troppo piccolo, un ragazzo troppo alto, una ragazza con la bocca rifatta si incontrano casualmente. Un incontro che sembra destinato a non avere storia e invece diventa fatalmente la tormentata cronaca di un amore negato.
Il lungometraggio si basa su un mero fatto di cronaca, con protagonista il cosiddetto nano di Termini. La notte del 26 aprile 1990, viene ritrovato il corpo senza vita di Domenico Semerano, un professore in un Istituto tecnico di Roma, con la passione della tassidermia. Ma la principale caratteristica di Domenico è la sua altezza, appena 130 centimetri, per un uomo di 44 anni. il ritrovamento del cadavere di Domenico porta alla luce una storia torbida, fatta di ossessione, amore e gelosie.
Matteo Garrone sfrutta al meglio l’evento delittuoso, creando un percorso antecedente al tragico finale. Il regista mette in atto una sua ricostruzione dei fatti, conservando il nucleo della reale vicenda. Ancora una volta, il regista romano parte dalla realtà e giunge al favoloso, realizzando una fiaba nera.
Il primo sostanziale mutamento riguarda l’ambientazione della vicenda. È L’imbalsamatore il primo film di Matteo Garrone girato a Castel Volturno, location scelta anche per Dogman e in parte per Gomorra. Una scelta fondamentale che dà all’intero film un’atmosfera lugubre, come la vicenda raccontata. Gli scheletri dei palazzoni del Villaggio Coppola assumono la fisionomia di navicelle spaziali, proiettando i tre personaggi in un luogo che non è luogo, senza tempo. Un paesaggio apocalittico, come in Ospiti e Terra di mezzo, che conserva la sua potenza anche quando nel finale la storia si trasferisce nei pressi di Cremona.
Il registro favolistico usato da Garrone trova altre corrispondenze nei tre protagonisti. Domenico Semerano diventa Peppino Profeta (Ernesto Maheux), innamorato di Valerio (Valerio Foglia Manzillo), un ragazzo altissimo e bellissimo. Tra i due, a un certo punto, si inserisce Deborah (Elisabetta Rocchetti), la quale sottrae a Peppino il suo oggetto del desiderio.
I tre protagonisti conservano i tratti realistici del fatto di cronaca, ma Matteo Garrone li trasfigura. Usando un linguaggio puramente cinematografico, con l’utilizzo di diversi teleobiettivi, allo scopo di manipolare le immagini. Il regista romano muta i convenzionali rapporti con il bello, il brutto e il deforme. L’accostamento di un nano a un gigante risulta grottesco, magico, favolistico e iperreale.
L’imbalsamatore è disponibile su Prime Video
Primo amore
Nella filmografia di Matteo Garrone segue Primo amore, liberamente ispirato al romanzo autobiografico, Il cacciatore di anoressiche, scritto da Marco Mariolini, pubblicato nel 1997 dalla casa editrice Edicom.
Vittorio cerca una donna che corrisponda al suo ideale. Incontra Sonia, una ragazza dolce, simpatica e intelligente, ma che pesa 57 kilogrammi. Troppi. Vittorio, che di mestiere fa l’orafo, vorrebbe modellare il corpo e la mente di Valeria, intrappolata in un vincolo amoroso, destinato al massacro.
La filmografia di Matteo Garrone è un continuum. Ogni film richiama quello precedente e anticipa quello successivo. Una prassi già accennata, confrontando Io capitano e Ospiti e che trova conferma accostando Primo a more a L’imbalsamatore. I due film vengono realizzati a distanza di quattro anni e in Vittorio è ancora vivo qualcosa di Peppino Profeta. Entrambi sono innamorati. Il loro non è amore vitale, ma un’ossessione mortifera. Peppino era un tassidermista, Vittorio, invece, è un orafo. Tutti e due, dunque, modellano la materia, la assoggettano alla propria volontà, fabbricando l’oggetto desiderato. Questa volontà viene trasferita nei rapporti umani.
La professione di Vittorio è basata sull’eliminazione della materia in eccesso, così come desidera eliminare il peso, secondo lui eccessivo, di Sonia. La donna, interpretata da Michela Cescon, non ha la forza, il coraggio, la consapevolezza di ribellarsi alla tortura.
La vicenda di Primo amore, come quella del precedente film, è tratta da un fatto di cronaca e conserva l’impianto reale dei fatti. Ma ancora una volta, Matteo Garrone trasfigura la realtà, creando una dimensione altra, ancora una volta favolistica.
Sonia assume le funzioni narrativa della principessa presa in ostaggio dall’orco, che questa volta non ha bisogno di essere rappresentato in maniera informe. Vittorio è freddo, anaffettivo, un personaggio creato per sottrazione, come l’intero film.
Il film è disponibile su Prime Video
Gomorra
Un punto di svolta nella carriera di Matteo Garrone avviene nel 2008, con la realizzazione di Gomorra. Il film, tratto dall’omonimo best-seller di Roberto Saviano, è stato presentato al Festival di Cannes, dove si aggiudica il Premio della giuria.
Quattro vicende intrecciate mostrano la presa di potere della camorra che influisce sulla quotidianità dei personaggi. Tutti, chi più chi meno, vengono coinvolti dal sistema criminoso. Da Pasquale, il talentuoso sarto, a Totò, reso killer senza avere il tempo di rendersene conto; passando per l’ascesa di Marco e Ciro. E infine, gli affari loschi dell’imprenditore Franco.
Nella filmografia di Matteo Garrone, Gomorra rappresenta senza dubbio il film più noto. È il lungometraggio che ha concesso al regista romano il palcoscenico internazionale. Gomorra è il primo vero successo di Garrone, accontentando critica e pubblico. Il film, solo in Italia, incassa oltre dieci milioni, risultando al decimo posto nella classifica degli incassi nella stagione.
Matteo Garrone non rinuncia al suo marchio di fabbrica. Il film è senza dubbio più curato dei precedenti, ma questa caratteristica è probabilmente dovuta al maggior budget a disposizione. Il regista organizza la materia narrativa secondo la sua consueta prassi, mescolando iper-realtà e favola. Non deve sorprendere, ma anche in Gomorra si palesano gli elementi di una fiaba. Il regista, con la sua originale e tipica messa in scena, è in grado di rendere meravigliose e a tratti poeticamente affascinanti le vele di Secondigliano, che diventano un paesaggio che sconfina nel fantasy.
Il film inizia all’interno di un salone di bellezza, dove improvvisamente scoppia una sparatoria tra i membri di uno stesso clan. Un incipit realistico, tratto dal quotidiano della criminalità, che, nelle mani di Garrone, riesce ad evocare diversi stili cinematografici, narrativi e antropologici.
La luce azzurra, emanata dai led delle lampade abbronzanti, fanno venire in mente alcuni episodi di Odissea nello spazio e allo stesso tempo l’ambientazione nel salone di bellezza è un chiaro riferimento alla cultura del classico mafia movie, dove i boss si prendono cura del proprio corpo. In nessuna storia raccontata il protagonista è un capo. Viene mostrata la quotidianità della manovalanza del sistema criminale che, con modalità diverse, governa ogni cosa.
Reality
Dopo circa quattro anni da Gomorra, nel 2012, Matteo Garrone realizza Reality. Il film viene presentato al Festival di Cannes, dove si aggiudica il Grand Prix Speciale della giuria.
Luciano è un pescivendolo napoletano che, insieme alla moglie Maria e all’amico Michele, si dedica anche un traffico losco di robot da cucina. Dotato di una spiccata simpatia, Luciano si esibisce come intrattenitore tra amici e nelle feste in famiglia. Un giorno, spinto soprattutto dai figli, decide di partecipare ai provini del Grande Fratello. Da quel momento, in lui nasce l’ossessione di entrare a far parte del mondo della televisione.
Reality è la rappresentazione di un viaggio, la cui meta è l’esplosione di un’ossessione che, questa volta, torna nella filmografia di Matteo Garrone, personificando un sogno.
Luciano, interpretato da un straordinario Aniello Arena, è un uomo comune, indaffarato nella sua doppia occupazione. Lavoro e famiglia: sono questi i due ambienti prediletti dal protagonista. Ma poi, progressivamente e sempre in modo più pericoloso, il sogno di cambiare vita diventa sempre più prepotente.
Realtà e favola trovano il loro giusto equilibrio per l’ennesima volta. Lunghi piano sequenza, di stampo quasi documentaristico, sono alternati con inquadrature dall’alto, spesso realizzate con l’uso di droni. La realtà dei fatti che diventa la cronaca familiare tra il comico e il tragico, sfocia in un finale astratto, capace di mescolare il sacro e il profano.
Garrone torna sul suo bagaglio poetico anche per quanto riguarda questo film. Reality inizia all’esterno e poi all’interno del Grand Hotel La Sorisa, struttura oggi famosissima, grazie alla trasmissione televisiva Il castello delle cerimonie.
Il celebre albergo della famiglia Polese, torna in Reality come ambiente ideale, per far nascere in Luciano la sua ossessione per il mondo dello spettacolo. Ma lo stesso albergo era stato scelto anni prima dal regista per ambientare Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni, documentario dedicato al celebre fotografo napoletano.
I margini di inserimento di estratti favolistici sono molto stretti, ma Garrone, anche in questo lavoro, riesce a invocare una dimensione favolistica, dove il Grand Hotel La Sorisa diventa un castello che ospita innumerevoli favole. In Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni viene anticipata la messa in scena iper-realistica di Reality, manipolando l’immagine e la traccia sonora, preannunciando il delirio del povero Luciano.
Il racconto dei racconti
La costante del cinema di Matteo Garrone di mutare la realtà oggettiva in una favola simbolica viene invertita ne Il racconto dei racconti. È un film a episodi, il primo del regista girato in lingua inglese. É tratto dalla raccolta di fiabe Lo Cunto de li cunti, scritto da Giambattista Basile.
C’era una volta un regno, anzi tre regni vicini e senza tempo, dove vivevano re e regine, principi e principesse. Un re libertino e dissoluto. Una principessa data in sposa a un orribile orco. Una regina ossessionata dal desiderio di un figlio. Accanto a loro maghi, streghe e saltimbanchi.
Per la prima volta, con Il racconto dei racconti, Matteo Garrone sceglie un cast internazionale, formato da Salma Hayek, Vincent Cassel e Toby Jones, e per assicurarsi il mercato internazionale, decide di girare l’intero lungometraggio in inglese.
Una scelta azzardata e probabilmente sbagliata. Questa volta la fonte non è la realtà o la cronaca nera, piuttosto la letteratura napoletana del Seicento. Il film è tratto da tre favole (La cerva, La pulce, Le due vecchie) scritte da Giambattista Basile, lo Shakespeare napoletano, autore che usava una lingua vivace, musicale, poetica e teatrale.
L’intento di Matteo Garrone, però, non è quello di riportare in vita il vernacolo di Basile. La sfida del regista romano è forse più ardua: partire dalla favola per giungere alla realtà.
Per fare questo Garrone utilizza gli elementi della favola, come i boschi, i castelli, i labirinti, gli anfratti, gli abissi e le viscere infernali non solo come scenografie d’effetto. Essi diventano parte del racconto. Da scenografia immobile, assumono una parte attiva della storia, mostrando gli stati d’animo dei protagonisti, ancora una volta ossessionati da qualcosa o qualcuno.
Emozioni e pulsioni estratte dal mondo della favola, ma che trovano corrispondenza nel mondo del reale. Come il desiderio di trovare marito, il desiderio sessuale, ai quali si aggiunge l’ amore nei confronti di una pulce gigante.
Matteo Garrone continua a giocare con le categorie del bello e dell’orrido. Mescola i due elementi, li inverte, mostrando l’informe corpo dell’orco accostandolo alla minuta ed esile figura del re. In questo modo il regista crea un legame invisibile tra favola e realtà, in un universo favolistico e crudele.
Il film è disponibile su Prime Video
Dogman
Nel 2018, Matteo Garrone torna a girare un film a Castel Volturno, Dogman. Il film si ispira al delitto del canaro, avvenuto a Roma nel 1988.
In una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, dove l’unica legge è quella del più forte, vive Marcello, un uomo piccolo e mite che condivide la sua quotidianità tra il salone di tolettatura per cani e l’amore per sua figlia. A turbare l’apparente normalità di Marcello è l’ambiguo rapporto di sudditanza nei confronti di Simone, ex pugile che mette in scompiglio l’intero quartiere.
La location di Castel Volturno torna in questa favola nera senza speranza. Questa volta la trasfigurazione di Matteo Garrone è portata all’estremo. Il fatto di cronaca diventa un pretesto dichiarato per mostrare un conflitto che, solo in parte, si manifesta esteriormente. L’essenziale, quello che conta davvero, viene riportato, ancora una volta in un registro favolistico.
Marcello subisce una vera crescita, in quanto protagonista del film. La sua evoluzione lo porta a una feroce e casuale rivalsa. Ma ancora una volta gioca un ruolo fondamentale l’ossessione che trascina il personaggio, interpretato da un formidabile Marcello Forte, premiato a Cannes per la miglior interpretazione, in un delirio omicida.
Castel Volturno, più che in L’imbalsamatore, perde ogni connotato. La città a nord di Napoli spoglia la vicenda da ogni riferimento realistico. È un paesaggio spigoloso e crudele come i suoi abitanti, senza umanità.
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Pinocchio
Nel 2019, Matteo Garrone torna alla pura favola, con Pinocchio, film tratto dal celebre romanzo per ragazzi di Carlo Collodi. Il film riceve 15 candidature ai David di Donatello, riuscendo vincere in cinque categorie.
Il Pinocchio di Garrone è interpretato da Roberto Benigni, nei panni di Geppetto e Federico Lelapi come il celebre burattino. Un’avventura per tutta la famiglia che diventa un viaggio di formazione.
Con questo film, Matteo Garrone si smarca dal suo amato cinema della realtà e si rifugia nella favola italiana più conosciuta al mondo. Per far ciò utilizza un attore internazionale come Roberto Benigni, affiancato da attori come Rocco Papaleo, Massimo Ceccarini, Marine Vacth e Gigi Proietti.
L’opera risente di una certa influenza subita dalla versione televisiva di Luigi Comencini, trasmessa nel 1972. C’è però una differenza sostanziale. Il Pinocchio di Collodi è stato portato sul grande e piccolo schermo innumerevole volte, e sempre a livello linguistico, almeno nelle produzioni nostrane, ha prevalso il fiorentino. In Garrone questo non avviene. Il toscano di Benigni viene alternato da altre parlate, come il romano del giovane protagonista. E inoltre sono presenti anche altre parlate, come il napoletano e il lucano.
Una scelta che aiuta a delocalizzare la vicenda in un non luogo, un’ennesima costante del cinema di Matteo Garrone che si ripresenta in questo lungometraggio, solo apparentemente di rottura.
Matteo Garrone e gli attori
La filmografia di Matteo Garrone è composta da opere iper-reali che sfociano nella favola per poi tornare a una specie di nuovo neorealismo, restituendo dei documenti antropologici, con una forte matrice simbolica.
Un risultato ottenuto con un metodo originale e probabilmente atipico, che riguarda inizialmente la scelta degli interpreti. Questi ultimi non vengono presi per strada, alla maniera di De Sica. Il regista ha sempre scelto attori professionisti, capaci di dar vita ai personaggi richiesti. Ciò è sempre avvenuto, anche quando il budget era molto ridotto, come nel caso di Terra di mezzo, dove appare una giovanissima e semisconosciuta Lunetta Savino.
Lo stesso è avvenuto per Gomorra, interpretato da Toni Servillo, Gianfelice Imparato, Salvatore Cantalupo e Gigio Morra. In questo film ci sono anche attori non professionisti, ma interpretano sempre piccoli ruoli, come il capo clan di Castel Volturno, interpretato da un vero boss.
Discorso a parte meritano i due giovani criminali, interpretati da Ciro Petrone e Marco Macor, entrambi scelti da Garrone in un laboratorio di recitazione del Napoletano. Peccato che poi entrambi hanno intrapreso strade diverse.
Con questi e altri attori ancora, come Aniello Arena, Loredana Simioli, Marcello Fonte, Seydou Sarr e Moustapha Fall, il regista romano crea un percosso da intraprendere insieme. Evita ogni falsa costruzione, porta l’interprete verso la nota richiesta, in modo del tutto naturale. Per ottenere questo risultato il regista gira i suoi film in sequenza, spesso non comunicando all’interprete il destino del suo personaggio, lasciandolo provare i vari stati d’animo, come nella vita reale.