Noci sonanti è stata per me un’esperienza molto formativa. Si tratta di un documentario d’osservazione che ho realizzato in coregia con Lorenzo Raponi.
È vero che Fabrizio e Ottone hanno qualcosa in comune nel loro isolamento iniziale, ma sono tante le loro differenze nei diversi contesti in cui si muovono e nei percorsi che compiono.
Il punto comune tra i due progetti, più produttivo che narrativo e presente anche nei miei ultimi cortometraggi, è l’ambientazione nelle aree interne marchigiane, la parte un po’ più scollegata dalle grandi vie di comunicazione. L’aspetto che mi interessa di queste zone è la pluralità di oasi narrative che in una manciata di chilometri consentono racconti di natura diversa. Se vogliamo, Castelrotto tratta anche di questo e del rischio che queste oasi si estinguano a favore di una maggiore omologazione.
Occupandoti di questo mondo a parte che è Castelrotto così come avevi già fatto con quello di Noci sonanti compi una scelta politica, quella di raccontare di persone e luoghi che in un modo o nell’altro si pongono al di fuori del ciclo capitalistico e che la realtà esterna fatica a comprendere.
Mi rendo conto che dall’esterno possa sembrare così e nella sostanza mi auguro che Castelrotto possa dare un contributo in questo senso. Per il resto non sono io a poter parlare della percezione finale del film, ma di sicuro posso dire che la concezione e la realizzazione di Castelrotto non hanno niente a che fare con le prassi del sistema di produzione che di solito si adotta per film di finzione come questo.
Posso anche dire che la scrittura ha generato una pratica coerente con il mondo che raccontiamo, che a sua volta ha a che fare con la biodiversità territoriale di cui parlavamo sopra. Scollinando, passando da una campagna all’altra, ti imbatti ancora in realtà inaspettate e del tutto disallineate al sistema. Il cinema che mi interessa ha sicuramente anche a che fare con queste isole.
Il protagonista
Apparentemente lineare, in realtà montaggio e messinscena portano sullo schermo un modo di raccontare articolato su più livelli. Ne abbiamo esempio nel modo di introdurre Ottone, il protagonista della storia. Mettendo in relazione le aperture sul paesaggio con le inquadrature strette e claustrofobiche che ne ne riprendono l’esistenza ci stai già dicendo della condizione di isolamento e della chiusura del protagonista rispetto al mondo esterno. In effetti è come se Ottone vivesse una vita sotto assedio. Da parte tua c’erano questi intenti?
Sì, è così. Quella che nella prima parte appare come una contrapposizione tra due mondi, andando avanti, man mano che Ottone si apre, trova maggiore scambio.
L’impatto iniziale con Ottone è duro, perché lo incontriamo nel suo momento più radicale di chiusura vendicativa. Inizia così una crociata che potrebbe sembrare ultraconservatrice, ma al tempo stesso riattiva in lui un’energia positiva, legata alla sua passione per la scrittura e l’investigazione.
Tanto all’inizio Ottone è distaccato dal paesaggio, tanto con il passare dei minuti vi si immerge con un’esperienza innanzitutto sensoriale.
In un certo senso questa energia positiva riavvicina Ottone anche alla dimensione paesaggistica del film, che in qualche modo ne veicola la metafisica. D’altra parte Ottone è il maestro e c’è tutto un controcanto di paesani che sin dall’inizio evoca il suo ruolo benefico per la comunità, prima del trauma che l’ha portato all’atteggiamento con cui inizia il film.
Un muro tra Ottone e il mondo in Castelrotto di Damiano Giacomelli
La caratteristica residuale evidenziata dal modo in cui filmi gli interni della casa di Ottone rende bene il muro da lui eretto nei confronti del mondo. Peraltro la vetustà dell’arredamento e degli oggetti presenti ci dicono di come all’interno di quello spazio il tempo si sia fermato al giorno in cui si è verificato il trauma che ha convinto Ottone a ritirarsi dalla vita.
Sì, oltre a quello dei paesani anche quello della scenografia domestica si può considerare un controcanto che ci dice qualcosa sul passato di Ottone, così diverso dall’atteggiamento presente. Insieme allo scenografo Davide Marchi e alla sua squadra abbiamo lavorato con attenzione su questo aspetto.
La chiusura di Ottone verso il mondo esterno è la stessa che ha Casteilrotto nei confronti delle altre realtà statuali. Qualsiasi tentativo di contatto tra le parti è destinato a non andare a buon fine. Esemplare in tal senso è l’esito della storia sentimentale tra Mina, la stagista di Bologna arrivata a Castelrotto per collaborare all’articolo che Ottone sta scrivendo, e l’agente Petinari.
Sì, è vero, lo scambio con l’esterno è difficile, confermato anche quando Ottone si imbatte nella strana associazione che ha sede nella cittadina. Per quanto riguarda il personaggio di Mina, abbiamo lavorato su una presenza aliena al paesino, che potesse arrivare all’improvviso offrendo un punto di vista diverso. A differenza di Ottone, l’agente Petinari prova a interpretare e accogliere questa novità, ma le diverse aspettative finiscono per dividerli. In questa dinamica è stato notevole il contributo dato dagli attori Denise Tantucci e Mirco Abbruzzetti.
Universale e particolare
La data del 14 novembre 2015 in cui è collocata la storia è la stessa dell’attentato al Bataclan di Parigi. Con ciò il film riesce a creare una vertigine di senso tra universale e particolare; tra il clamore di quei fatti e l’anonimato delle vicende che coinvolgono Ottone e i suoi compaesani. Era un effetto voluto?
A essere onesti, il 14 novembre è il giorno in cui abbiamo chiuso la post-produzione. Non l’avevo pensata in questo modo, ma ora che me lo dici la trovo una riflessione interessante. L’episodio del Bataclan mi colpì molto, perché avevo studiato a Parigi per un anno e mi capitava di andare in quel locale.
È una suggestione che mi ha molto affascinato. D’altronde, come si dice, ogni spettatore si costruisce il suo film.
Questo tipo di scambi sono un po’ il segno dell’uscita del film, che da qui in poi appartiene anche agli spettatori. Tra l’altro molti dei film che ho amato si lasciano completare da chi li guarda, credo sia un processo naturale. Mi interessano poco le opere chiuse a tavolino con la pinza perché “tutto torni”. Molti dicono che questo si fa per il pubblico, ma gli esempi del contrario sono fin troppi. Il pubblico è composto da esseri umani e credo che la prima esigenza per far loro un buon servizio sia rimanere vicini all’urgenza di racconto da cui nasce il film.
Questo sembra influire anche sulla messinscena. Con il procedere della storia l’interazione tra una scena e l’altra diventa meno stringente, lasciando allo spettatore la possibilità di inserirsi nel racconto con la sua interpretazione dei fatti. È come se il processo di liberazione del protagonista influisse sulla narrazione rendendola più aperta e pronta a trasformare le suggestioni dell’ambiente in ulteriori possibilità di raccontare la storia.
Assolutamente. L’evoluzione del protagonista lo porta a una visione più ampia, fino a passaggi quasi lisergici. E questo non può che influire sulla messa in scena.
La canzone
La sequenza che rappresenta al meglio quanto stiamo dicendo è quella in cui Ottone come niente fosse inizia a cantare una canzone di Paolo Conte, salvo poi essere temporaneamente interrotto dal resoconto della varie testimonianze raccolte dal protagonista tramite la stessa piattaforma che gli è servita per il suo karaoke. Peraltro quest’ultimo dettaglio, a cavallo tra serio e faceto, riassume il modo in cui costruisci il film, e di come l’indagine a un certo punto diventi il pretesto per raccontare una comunità e le sue tipologie umane.
Per Ottone questa indagine nasce come opportunità di perseguire coloro che ritiene colpevoli di avergli sconvolto la vita. Questo gli fa da grimaldello per ritornare a dialogare con il mondo esterno. La sequenza di cui parli è rappresentativa in questo senso. Gong-oh, il brano di Paolo Conte che Ottone canta in quel passaggio, è un brano che ho sempre amato per come racconta l’incontro giocoso con un’energia creativa che prende il sopravvento e fa saltare i riferimenti spazio-temporali.
Quella sequenza esprime bene anche la ricerca in questo film di restituire un’umana complessità anche ai personaggi secondari del film. Le semplificazioni e gli scimmiottamenti con cui spesso il cinema italiano rappresenta i contesti di provincia credo che ormai non servano più a nessuno, tantomeno al pubblico, che conosce la vivacità presente in questi contesti. In questo senso, tra gli ultimi ricordo con piacere i film di Mazzacurati, che spesso riusciva a raccontare questi contesti senza banalizzarli.
Denise Tantucci nel film di Damiano Giacomelli
Nel ruolo di Mina la presenza aliena di Denise Tantucci ti permette di spezzare l’uniformità estetica e caratteriale del paesaggio di Castelrotto. La figura aristocratica e il suo portamento la rendono una sorta di corpo contundente e traducono come meglio non si potrebbe il senso di estraneità verso quel mondo esterno a cui Castelrotto in qualche modo fa resistenza.
Aliena era in effetti la parola usata durante il casting per cercare l’attrice adatta al ruolo, aliena ovviamente rispetto al contesto che raccontiamo. Denise ha interpretato al meglio questa esigenza, portando però un’intelligenza nella comprensione del contesto e della misura necessaria a lavorare con un cast misto di professionisti e non. Il personaggio di Mina occupa una porzione precisa del film e lo fa con progressiva intensità, immergendosi nelle dinamiche del paese e finendo per lasciare un segno sui protagonisti.
La sua è una recitazione essenziale che funziona anche come equilibratore rispetto a una fisiognomica che non ha bisogno di fare molto per rimanere impressa. Se così non fosse il rischio sarebbe quello di una sovraesposizione invece…
Come spesso si dice, con lei abbiamo lavorato di sottrazione, ma credo sia riuscita a restituire anche le fragilità del personaggio, quando viene catapultata in un contesto come quello, anche per lei alieno.
Il cinema di Damiano Giacomelli
Parliamo del tuo cinema di riferimento.