Presentato in anteprima alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, all’interno delle Notti Veneziane, sezione realizzata dalle Giornate degli autori, L’invenzione della neve di Vittorio Moroni è un film sull’amore e sulle sue conseguenze raccontato attraverso la complessità di un personaggio indimenticabile, anche per la strepitosa interpretazione di Elena Gigliotti. Del film abbiamo parlato con il regista Vittorio Moroni.
L’invenzione della neve di Vittorio Moroni è prodotto da 50N in associazione con Crédit Agricole Italia e con la collaborazione di Cinnamon Digital Cinema. È distribuito nelle sale da I Wonder Pictures.
L’invenzione della neve di Vittorio Moroni
L’invenzione della neve, più che la vita di un personaggio, ne mette in scena la dimensione esistenziale. Ciò che vediamo non è una narrazione fattuale, ma emotiva, volta a registrare i cambiamenti e gli stati d’animo di Carmen, la protagonista del film.
Sì, guardando il film con gli spettatori mi sono convinto che in realtà L’invenzione della neve contenga due film. Da una parte raccontiamo il rapporto tra Carmen e il mondo e come il mondo abbia paura di lei, come la tenga a distanza, la punisca, protegga le persone da lei; dall’altro, in profondità, c’è come un fiume carsico, che racconta il suo universo interiore, magico, quello che Carmen evoca continuamente e a cui appartiene il suo sguardo, il suo modo di intendere le relazioni, l’amore stesso e la speranza. In ogni scena questo fiume carsico a un tratto riaffiora e si mette in contrapposizione al film principale. Per un istante la storia sembra andare nel verso desiderato da Carmen, ma poi torna indietro e riprende il cammino principale, quello inesorabile, che porta all’inferno. Quello che tu dici è quindi vero, anche in relazione al modo in cui abbiamo girato il film.
La dimostrazione di quanto detto è data anche dalla circolarità della narrazione che, attraverso la scena finale, si riaggancia all’inizio, per poi intraprendere una strada diversa da quella che ci saremmo aspettati. Peraltro le ultime immagini chiariscono appieno il significato di quelle iniziali, svelandone parte del mistero.
A monte del racconto c’è questa fiaba inventata da Massimo, il compagno di Carmen, il padre della bambina. Carmen l’ha dipinta ed è diventata la loro favola, la sua possibilità di stare al mondo, ma anche la testimonianza di ciò che sono stati capaci di sognare per sé e per la loro bambina. Un patrimonio affettivo che a un certo punto Massimo sente l’esigenza di cancellare. Per poter cambiare e andare avanti.
La figura di Carmen
Cancella il murale che hanno dipinto nella stanza della bambina con una vernice bianca, bianca come la neve evocata dal titolo. E più Massimo sente il bisogno di cancellare, più Carmen sente il bisogno di rendere viva e presente la loro favola, fino a tatuarsela sulla schiena.
Massimo sente che per rifarsi una vita non ha altra possibilità che cancellare la loro storia. Al contrario, per Carmen quella fiaba è l’ultima possibilità di avere un posto e un senso al mondo. Si tratta di un movimento antagonista, quello che guida lui alla sua vita senza Carmen e quello di lei verso la speranza di un nuovo inizio insieme.
Mentre la disputa più dichiarata ruota attorno alla possibilità di una madre di poter vedere la propria figlia, dal fondo della memoria traspare il racconto dell’infanzia di Carmen. Non solo è lei a essere sempre dentro il campo di ripresa – mentre la figlia ne resta di fatto esclusa -, ma la loro infanzia si rivela più o meno simile. L’invenzione della neve è il grido di dolore della bambina che è dentro Carmen.
Sì, la trovo un’osservazione molto appropriata e acuta, che mette in luce significati decisivi. Carmen non vuole essere estromessa dalla vita di quella bambina. Nel volerla frequentare sempre di più però c’è anche il suo desiderio fondamentale di avere un posto nel mondo perché lei ha già vissuto da figlia quella espropriazione e il destino le sta riproponendo lo stesso meccanismo, la stessa privazione.
Rappresenti Carmen come una donna carnale e sensuale. Al tempo stesso negli atteggiamenti con gli altri, e per esempio con la sorella, sembra di stare di fronte a una bambina.
Sì, è vero.
È evidente come lei reclami ciò che le hanno rubato. In ogni stagione della sua vita.
C’è qualcosa in lei che è rimasto bambina e che non ha potuto evolvere, ed è come se gli altri la vivessero come una minaccia. Carmen è continuamente costretta a mendicare accoglienza, accettazione, fiducia. Nella scena in cui incontra la sorella Sonia, diventa chiara l’evocazione dell’infanzia comune.
Realtà e immaginazione
I disegni animati della favola che i due genitori raccontano alla bambina funzionano anche come espediente drammaturgico per mostrare il dualismo tra realtà e immaginazione e dunque il modo con cui Carmen manipola le persone. Da una parte le animazioni ci raccontano la sua fuga dal mondo, dall’altra la dimensione fantastica ti serve per far sentire in maniera ancora più traumatica il suo ritorno alla realtà.
È vero. Quella dimensione del resto ha anche a che fare con il mondo onirico di Carmen. È come se lei non controllasse totalmente il racconto delle animazioni. È il suo inconscio che conosce cose che sfuggono alla consapevolezza razionale. Anche in quel mondo c’è ferocia e paura, sirene dai denti aguzzi e belve feroci, però in quella dimensione è come se tutto risultasse possibile, accettabile, aperto alla possibilità di una salvezza.
Le prime sequenze
Lette in chiave psicanalitica le prime tre sequenze si possono intendere come i diversi stadi della mente di Carmen nel suo viaggio di ritorno alla realtà. Così, se nella prima, i disegni animati rappresentano il luogo ideale, quello in cui Carmen trova rifugio da ciò che non le piace, le altre, quella in macchina, e poi a casa dell’ex compagno, pur nell’affermare un’istanza di realtà oggettiva, si portano dietro la componente immaginifica – espressa dalla vivacità dei colori e dalle maschere degli animali presenti nella scena d’apertura – che alterando il punto di vista della ragazza, la mette in disaccordo con il resto del contesto.
È come se Carmen avesse un rapporto privilegiato con l’universo animale, reale e immaginato; con un mondo fatto di istinti con cui lei cerca di entrare in comunione attraverso diversi linguaggi. Quindi è vero che quando Massimo entra in casa, quel mondo rimane presente e lentamente affiora, in un contesto a metà tra reale e immaginato.
In quel frangente Carmen si porta dietro un po’ di quella animalità che caratterizzava il suo alter ego all’interno della favola, somatizzando la doppia natura che è uno dei suoi tratti distintivi.
Sì, in lei c’è qualcosa di scaltro e di manipolatorio. Da bambina ha imparato a conoscere strumenti che il mondo accetta più facilmente; per questo lei porta sempre regali a tutti. Anche se non ha una lira trova il modo di comperarne di bellissimi e costosi per fare colpo sugli altri. Dietro quei doni nasconde il suo bisogno di essere accettata.
D’altronde quello che abbiamo appena detto è il comportamento più facile per conquistare l’amore degli altri.
Quell’attitudine serve a nascondere quel senso di minaccia che Carmen trasmette agli altri. D’altra parte è come se lei confidasse di continuo nella possibilità di essere accolta, di trovare porte che si aprono per poter ricominciare. Per risvegliare il rapporto con la sorella, per ricominciare la storia d’amore con Massimo, per aggiustare il suo stesso passato. Carmen è questa schizofrenia, gioia di vivere e disperazione. La sua risata emerge soprattutto quando si confronta con le cose più indesiderabili.
Il rapporto tra i personaggi nel film di Vittorio Moroni
Una doppiezza che è fonte di tensione, allorché in ogni scena si rimane sempre nel dubbio che l’istintività di Carmen possa sfociare in un gesto inconsulto. Quando dialoga con Mara, la fidanzata di Massimo, all’interno del negozio di animali, agisce come farebbe un predatore di fronte alla sua preda.
Sì, penso che anche lo spettatore oltre che i personaggi si trovino in quella situazione, ovvero con la sensazione che lei possa fare qualcosa di inaspettato e di tremendo e devo dire che questa cosa l’ho notata anche nella vita, nel senso che le persone che incontrano Elena Gigliotti durante il tour di presentazione del film, all’inizio sembrano aver paura di lei, talmente forte è l’impressione lasciata dal suo personaggio.
Le immagini danno conto della tensione interna alla vicenda e dei suoi sbalzi emotivi con l’alternarsi frenetico di buio e luce: come succede all’interno della villa in cui si incontrano Carmen e Massimo. Il disagio della coppia si riflette nell’impossibilità di ricostruire una topografia certa degli interni della casa, come pure dalla difficoltà di messa a fuoco, allusione al disagio di Carmen nei confronti del mondo.
Sì, e anche la difficoltà di noi narratori ad afferrarla. Qualcuno ha scritto che lei non è un personaggio nel senso programmatico del termine e questo sono felice che arrivi perché ho cercato con tutte le mie forze di conservare tutto il mistero che per me aveva questo personaggio e la persona che lo ha ispirato. Per ottenere questo ho messo in scena il suo inseguimento dentro gli spazi, in modo da restituire la frammentarietà, inafferrabilità e contraddittorietà della sua vita. Il rapporto tra noi che la guardiamo e lei che porta avanti la sua esistenza è un inseguimento sempre spiazzante e incerto, in cui non si ha mai la sensazione di averla incasellata.
Un pedinamento che mette chi guarda nella condizione di vivere nello stesso tempo e nel medesimo spazio del personaggio e dunque di scoprire assieme a lei quello che le riserva la storia. La mancanza di “preveggenza” rende tutto più incerto e appassionante.
Devo dire che questo è accaduto anche sul set, nel senso che il modo in cui abbiamo creato le condizioni di lavoro mirava a questa imprevedibilità. È vero che avevamo una sceneggiatura molto scritta e levigata, ma tutti sapevamo che era destinata ad autodistruggersi, a diventare una mappa sulla quale gli attori avrebbero dovuto compiere un viaggio insieme ai personaggi. Gli interpreti erano così fusi ai rispettivi ruoli da assicurare una reazione coerente anche di fronte all’accadimento più inaspettato, “l’incidente” che continuamente istigavo. Ho cercato di mettermi nella stessa posizione in cui mi trovo quando faccio i documentari di osservazione, dove fino all’ultimo non so cosa succederà al protagonista: potrebbe decidere da un momento all’altro di correre in strada e prendere la macchina senza che io abbia nessun diritto di dirgli di fermarsi, girarsi da questa parte o a favore della luce.
Il documentario d’osservazione
L’invenzione della neve utilizza la forma tipica del documentario d’osservazione.
Un linguaggio che mi corrisponde, a cui per primo ricorro istintivamente quando cerco di raccontare una storia, un’abitudine che appartiene anche ad Andrea Caccia e alla sua macchina a spalla e all’esperienza di Massimo Schiavon nell’immaginare le luci. Entrambi hanno firmato la fotografia. Entrambi sono abituati a quel linguaggio, hanno il gusto e la familiarità di essere dentro a una situazione dove vincono imprevedibilità e sorpresa rispetto a calcolo e predeterminazione. Con loro alla steady Julien Dehers.
C’è stato un momento in cui questa forma di cinema era diventa maniera, mentre L’invenzione della neve ha la qualità di riproporla con la forza di un tempo. Così facendo la narrazione procede per frammenti di vita: da una parte questo favorisce una fenomenologia delle immagini, dall’altra riproduce “l’interruzione” di Carmen.
Nelle nostre intenzioni c’era la volontà di restituire il disagio di Carmen attraverso la frammentarietà di piani sequenza montati tra loro. La cosa un po’ strana, e se vogliamo anche faticosa di questo dispositivo, è di avere girato tutte le scene in piano sequenza sapendo che poi li avremmo tagliati e montati uno con l’altro. In ognuno di questi cercavo, invece della ripetizione della stessa sequenza, l’avvento della meraviglia, della differenza, attraverso la provocazione dell’incidente, al quale tutti bisognava reagire come se questo “errore” fosse l’opportunità di trovare altro. Mi è stato subito chiaro che così facendo avremmo ottenuto un materiale schizofrenico, dove in tre stacchi consecutivi era possibile raccontare ellitticamente un ampio e variegato movimento interiore dei personaggi.
Spazio e personaggi
La mdp rimane sempre vicina ai personaggi e in particolare a Carmen che di fatto non vediamo mai in campo lungo, se non in brevi frammenti. La condivisione dello spazio era anche una maniera per esprimere un forte legame emotivo con i protagonisti della storia?
L’idea era non giudicare nessun personaggio. Ognuno di loro è giusto a modo suo. Ciascuno di noi del resto crede di esserlo. Da parte nostra abbiamo cercato di rispettare questo presupposto nello sguardo del film. E gli ambienti finiscono in qualche modo per diventare parte del paesaggio dell’anima dei personaggi e delle prigioni in cui si trovano ad agire.
Se Carmen è un persona irrisolta è vero che la sua presenza è così forte da mettere in crisi gli altri personaggi. Una caratteristica tipica della vita, dove stare di fronte a qualcuno che ami troppo non è facile per il rischio di sentirsi inadeguati.
È vero, Carmen mette in crisi, rende inadeguati, anche gli spettatori spero. Un tema che secondo me attraversa tutte le donne di questo film è il rapporto con il materno. Carmen ha il suo ed è urlato, anche se forse nasconde piuttosto il suo bisogno di trovare un posto nel mondo. Mara, nel negozio di animali, vuole trovare un rapporto con la figlia di Massimo e dunque di Carmen che, invece, l’accusa di non essere all’altezza del compito in quanto biologicamente non madre. Carmen afferma un principio che è lontanissimo da quello che sento e penso. D’altro canto nel dire questo Carmen svela anche la sua ferita, il distacco forzato che ha dovuto subire da sua madre, che riesco a sentire e con cui riesco a empatizzare. Da regista spero che lo spettatore si trovi a confrontarsi con la condizione di Carmen, percependo non solo la crudeltà del suo modo di porsi con Mara, ma empatizzando anche sull’origine di quella disumanità. L’assistente sociale interpretata da Anna Ferruzzo è una madre adottiva, la qual cosa interroga in qualche modo sul diritto di essere genitori, su chi possa decidere chi ha il diritto di esserlo e per quale ragione. La sorella Sonia è una madre che riversa sul figlio le aspettative della propria rivincita. E in fondo anche la madre di Massimo, Antonia, è una figura importante perché finisce indirettamente per condizionare fortemente la vita di Carmen.
La sequenza finale
Nella sequenza finale Massimo ha un’esplosione di rabbia che non è solo una reazione alla situazione contingente, ma anche alla volontà di allontanare da sé e dalla sua famiglia una donna altrettanto problematica.
Forse Massimo è il personaggio che compie il percorso più grande. È l’unico uomo del film, crede che l’unico modo di cambiare ed evolversi sia cancellare Carmen, ma Carmen cerca a sua volta di cambiarlo, di riorientare le decisioni che ha preso. A un certo punto ha l’occasione di emanciparsi da quella madre che ha avvelentao la sua vita. Lo vediamo cacciare madre e assistente sociale, per andare solo e nuovo alla ricerca di Carmen e della figlia, verso un nuovo inizio. O verso la fine?
Riferimenti e omaggi di Vittorio Moroni
Ti volevo chiedere dei riferimenti a John Cassavetes e al suo A Woman Under Influence a cui ti lega il fatto di ricostruire la personalità della protagonista risalendo i tratti della sua instabilità.
Quel capolavoro è un riferimento che abbiamo utilizzato anche nel lavoro con gli attori. Per me è un punto di riferimento fondamentale a cui ovviamente non oso paragonarmi.
Però diciamo che L’invenzione della neve rende onore al mentore di questo modo di fare cinema.
Sì, mi piace più pensarla così, come il riconoscimento del merito a Cassavetes di avere inaugurato una strada impervia, di avere per primo aperto il sentiero, dando a tutti la possibilità di esplorare altri spazi lungo quella strada. È per questo che ho sentito il diritto di ringraziarlo nei titoli di coda. È stato per noi un talismano, un coraggioso che è riuscito a fare cinema super indipendente, fuori dai comfort e dai diktat dalle grandi produzioni. Un cinema culturalmente e politicamente molto libero. Fatto insieme a un gruppo di persone che credevano in lui ciecamente.
La protagonista
L’invenzione della neve ha il merito di farci scoprire nel ruolo della protagonista Elena Gigliotti, attrice di una bellezza assoluta, dentro e fuori. La sua Carmen non si dimentica facilmente e, come succede nel film, anche noi continuiamo invano a cercarla, rapiti come siamo dal mistero della sua tormentata esistenza. Volevo chiederti se la sua beltà picassiana ti serviva per rendere anche visivamente le peculiarità caratteriali della protagonista.
Elena sprigionava dal primo istante del primo incontro l’energia che serviva a Carmen. Dico sempre che quando l’ho vista nel primo provino ho avuto la sensazione che lei sapesse di Carmen delle cose che nemmeno io conoscevo, nonostante ci stessi lavorando da dieci anni. Davanti alla mdp Elena ha una bellezza inafferrabile che ha a che fare tantissimo con il suo sguardo, con i suoi occhi, con una luce che emana, con la velocità di emozioni e la complessità di pensieri che accadono dentro di lei e che attraversano i suoi lineamenti per scomporsi in un quadro modernissimo e contraddittorio che a mio parere ha a che fare col sublime ancora più che con la bellezza.
Il suo personaggio richiedeva un’adesione totale. Come avete lavorato per arrivare a questo risultato?
Con Rosa Morelli, actors coach che lavora da anni con me, abbiamo distillato la sceneggiatura scena dopo scena, mettendo Carmen nella condizione di non sapere cosa sarebbe venuto dopo, lavorando ogni volta sulle singole parti e chiedendole di fondere la propria esperienza personale con quella che andava scoprendo del personaggio.
Un processo che lei ha compiuto in modo estremamente serio, cercando di raccogliere e intercettare tutto ciò che apparteneva alla sua esperienza: dalle persone importanti della sua vita ai suoi momenti di svolta, ai traumi, ai ricordi… Ha redatto un diario in cui era libera di scrivere tutto, anche i sogni che venivano attivati dalla lettura della sceneggiatura. Siamo andati avanti così, con lei che in qualche modo comprendeva sempre più e metteva in comunicazione se stessa con le scelte di Carmen. Elena cercava di capire attraverso la pelle. Lo ha fatto in maniera potente e viscerale. Elena è un’attrice che possiede due polarità che in lei riescono incredibilmente a stare insieme: una grande padronanza dei propri strumenti di lavoro, formati alla scuola del Teatro Stabile di Genova e presso la compagnia di Valerio Binasco. Questa consapevolezza e “mestiere” non hanno scalfito minimamente la sua sensibilità. Trovo che sul set Elena sia senza pelle, attentissima e vulnerabilissima, permeabile a qualunque refolo di vento, a qualunque cosa accada. I suoi tempi di reazione emotivi sono incredibilmente veloci e quindi veri e intelligenti. Questa istintualità, questa nudità e questa padronanza insieme credo siano un fenomeno naturale spettacolare che tutti stanno notando e apprezzando.
Il cinema di Vittorio Moroni
Parliamo del cinema che ti piace come spettatore e come regista.
Amo tanti tipi di cinema, anche molto diversi dal mio, da quello che voglio e so fare. Un grande punto di riferimento è appunto John Cassavetes anche per le premesse del suo cinema, per quella ricerca dell’onestà fino in fondo che gli fa espellere tutti gli elementi artificiosi, con l’obiettivo di far accadere cose vere.
Un altro regista che per me è stato importantissimo è Abbas Kiarostami, per il suo modo di raggiungere la verità attraverso lo svelamento della costruzione filmica. Da giovanissimo al Festival di Locarno ho avuto la fortuna di cenare con lui. Io ero uno studente al primo corto, lui aveva già la sua prima retrospettiva, eppure accettò di cenare e parlare con me.
Ci sono poi autori che mi stimolano molto sul versante della costruzione drammaturgica: uno di questi è Kieslowski, di cui mi affascina l’idea che il cinema possa essere un prisma attraverso cui guardare eticamente la realtà. Uno dei miei film preferiti è Il caso, tradotto in italiano col titolo discutibile di Destino cieco. Mi seducono la maestria e la capacità di scavare nel torbido dell’animo umano di Roman Polanski, l’invincibile vocazione all’indagine dell’oscurità di Werner Herzog e di Vintenberg e l’incanto perverso di Kim Ki Duk.