‘Animal’ di Sofia Exarchou: il carnevale delle anime perse nelle notti greche
Un sensibile affresco su un’umanità troppo esposta ai ritmi forsennati del turismo capitalistico, quella degli animatori di un resort che vivono in un vuoto sospeso, glitterato e anemico. Sarà presentato all'Euro Balkan Film Festival l'11 Novembre
Dopo essere stato presentato in concorso alla 76a edizione del Locarno Film Festival, Animal parteiperà all’Euro Balkan Film Festival, dove verrà proiettato l’11 Novembre. Queste selezioni segnano una tappa vincente nel percorso emergente di Sofia Exarchou, regista greca che al debutto con Park (2016), presentato con ampi consensi ai festival di San Sebastián e di Toronto, aveva raccontato la crisi economica di Atene post Olimpiadi 2004 attraverso una nuova generazione perduta di disoccupati emarginati e rovinosi.
Se in questa pellicola d’esordio lo scenario era il fatiscente e desolante villaggio olimpico che si allargava per allegoria alla decadenza di una nazione, in questo secondo lungometraggio la cinepresa si concentra su un altro proscenio circoscritto, anche se non caduto in disuso: un resort greco all inclusive, dove una delle animatrici, Kalia (Dimitra Vlagopoulou), attraverso il corpo martoriato avverte su di sé la misera solitudine di questo non-luogo popolatissimo e luccicante.
Sinossi
Kalia è una giovane donna greca fuggita di casa da adolescente, ritrovatasi ad aggregarsi a una compagnia di intrattenitori di un villaggio-vacanze sul mare, capitanata dal suo attuale compagno. La sua vita trascorre con placida svagatezza nella scansione standardizzata delle serate di lavoro, dove le lezioni di ballo, le animazioni in discoteca, i canti e le coreografie con cui diverte gli ospiti sono dettati dai riflettori, dalla disco music, dai lustrini dei costumi, dalle decorazioni di carta, dai cocktail e dalle seduzioni dei clienti più disinibiti.
Impercettibilmente qualcosa però si spezza, l’equilibrio di un’esistenza apparentemente esaustiva nella sua semplicità senza prospettiva scricchiola sotto la luce sinistra di alcuni imprevisti. Kalia pare assumere nuova consapevolezza dietro il copione di ogni giorno: si frappongono un infortunio e un piccolo incidente, gli incontri occasionali, le orde di nuovi animatori stranieri con vissuti simili al suo. E si scopre il baratro di un intrattenimento omologato e senza fine, la dipendenza da una maschera nel dissolvimento della personalità, il proseguo di un tempo ciclico che scandisce non la noia, ma il nulla.
Amore e Psiche non abitano più qui
Animal introduce fin dai titoli di testa un gioco etimologico di slittamenti di significato, dove la caduta della L finale (anima) anticipa uno sguardo sull’interiorità di quegli intrattenitori adibiti ad animali da palcoscenico e non casualmente il film si apre con le grottesche pose ginniche di alcuni ragazzi in uno spazio deserto e recintato, come bestioline in gabbia. Ma, ha specificato Sofia Exarchou, il termine animatore deriva dal latino animare che significa ‘vivificare, dar vita’, in paradossale contrasto con il show business del resort che adotta questi lavoratori come merce circense, nella reiterazione di gesti, sorrisi, esibizioni, negli ammiccamenti del corpo e nell’elargizione di un’allegria grottescamente artificiosa. Aggiunge inoltre la regista:
L’hotel all-inclusive è la macchina turistica della Grecia. Gli animatori provvedono all’intrattenimento. Che cosa significa dover indossare lo stesso costume, interpretare gli stessi ruoli e recitare con la stessa energia e gli stessi sorrisi tutti i giorni?
Sebbene la cinepresa di Exarchou non indugi troppo sulla politica del lavoro con le sue implicazioni economiche e sindacali, Animal riesce a mappare un contesto sociale specifico ed eloquente, quello di una fauna umana di greci, polacchi, russi e altri immigrati dell’Europa orientale che trovano nel team del resort un’occasione di riscatto retributivo, un’oasi di asilo emotivo più che politico, il surrogato di una famiglia allargata che è in realtà un intreccio di solitudini tra loro sconnesse; di fronte, il pubblico di clienti che, lungi da rivestire rispettabilità sociale o benessere morale, è una sfilacciata e mediocre corte dei miracoli non dissimile da loro.
La regia di Exarchou non possiede la statura tragica e melodrammatica della frenesia dello spettacolo di Bob Fosse (né forse si addice allo sguardo interessato alla decadenza del suo paese), non agguanta le metafore grottesche e le incursioni oniriche della distorsione mentale del reale come sa fare Matteo Garrone nei meandri populisti della macchina-spettacolo, non ha la presa allegorica e la coralità sfumata di Non si uccidono così anche i cavalli? (1969) di Sidney Pollack: Animal preferisce concentrarsi sulla parabola esistenziale e rappresentativa del suo personaggio, l’animatrice Kalia.
Il film, che sa lavorare sulle reticenze delle immagini e sul non detto dei dialoghi, si regge in particolare sulle spalle esili della protagonista Dimitra Vlagopoulou, attrice dalla fotogenia non classica ma intrigante, il cui magnetismo nello spazio circostante viene potenziato da una cinepresa che la osserva, la segue, ne registra la presa di coscienza sul vuoto pneumatico della sua vita di cartapesta, sulla sterilità delle relazioni interpersonali dove neppure una bambina lì presente pare schiudere una speranza sul futuro, una possibile rinascita. Perché Kalia avverte in piccole epifanie joyciane che the show must goon e il sistema sforna sempre nuove intrattenitrici.
Animalci inoltra così nelle retrovie capitalistiche disfunzionali di un microcosmo turistico noto a tutti per interfaccia ma misconosciuto ai più nei suoi ristagni di dolore da prosciugare in scena, in una sorta di fordismo da avanspettacolo. Ma, a differenza dell’epoca dell’uomo-macchina di Charlie Chaplin, in Animali tempi non sono affatto moderni, gli intrattenitori vivono in una bolla atemporale di disco music, Madonna e film da botteghino degli anni Novanta.
Ne fuoriesce un desolante carnevale di anime, uno Shangri-La di sorda frenesia, una comune di festosa segregazione, la sineddoche di un Occidente tramontato nell’assenza di veri desideri e nel culto consumistico del nulla. E se il film ci consegna a un pessimismo rassegnato, lo spettatore può animare il suo sguardo nell’arrancare stanco e lucido della protagonista, vera ancella greca di confortante umanità.
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