Parlare di Liliana Cavani significa evocare il cinema narrativo in una delle sue forme più autentiche e radicali. Non per un discorso meramente astratto e formale, ma per la sostanziale inetichettabilità di un’autrice che, pur sensibile alle idee progressiste e al solidarismo cattolico, è sempre stata restìa ad ammiccamenti ideologici e collocazioni di sistema; e che nella sublimazione della propria libertà intellettuale ed espressiva non si è mai fermata dinanzi al timore/minaccia di scandali, dissensi e interventi censori.
Liliana Cavani può dunque definirsi artista pura, se l’arte è – come in effetti dev’essere – mezzo di emancipazione, strumento di crisi e rivoluzione, ma anche sguardo negli abissi sociali e personali.
Il suo è una sorta di cinema-ponte gettato tra ricerca di spiritualità e pulsione carnale, storia e attualità, libertà e potere. Quel potere (qualunque esso sia) che, attraverso i suoi personaggi ribelli, disallineati, a volte disturbanti, osserva, analizza e scompone nelle sue dinamiche più crudeli e perverse, per nulla intimorita da critiche, censure e reprimende benpensanti; ben consapevole, anzi, che proprio nella vis polemica risieda l’essenza “maieutica” del suo cinema umanistico e, al contempo, di rottura.
Oggi, a novant’anni compiuti, la grande signora della regia cinematografica italiana ed europea si appresta a ricevere il Leone d’Oro alla carriera. Un riconoscimento prestigioso che si aggiunge al David di Donatello alla carriera già ottenuto nel 2012, e che si pone a suggello di un lungo e proficuo percorso svolto non soltanto nel campo della settima arte, ma anche in quello lirico, documentaristico, televisivo e, da ultimo, teatrale (sua, nel 2017, la regia di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, seguita l’anno dopo da Il piacere dell’onestà di Luigi Pirandello).
Nata a Carpi nel gennaio 1933, la piccola Liliana, cresciuta in una famiglia antifascista, riceve il suo imprinting artistico dalla madre che, da appassionata cinefila, la porta ogni domenica in sala con sé.
Il vero e proprio connubio con la settima arte avviene però qualche anno più tardi, quando la futura cineasta, fondato un cineforum nella sua città natale e ottenuta la laurea in Lettere Antiche a Bologna nel 1959, si trasferisce a Roma per frequentare (da unica donna) il corso di regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, dove si diploma con il corto La battaglia (1961), premiato col Ciak d’oro.
Dagli esordi con i documentari Rai a Francesco d’Assisi
Nella prima metà degli anni Sessanta, la giovane Cavani intraprende una proficua collaborazione con la Rai per la realizzazione di una serie di documentari perlopiù imperniati sulla storia contemporanea e sulla realtà sociale italiana.
Tra questi, Assalto al consumatore (1962), brillante inchiesta-denuncia sulla società dei consumi e sui bruschi cambiamenti socio-antropologici ad essa connessi, Storia del Terzo Reich (1963-64), minuziosa ricostruzione della tragica parabola nazista, e La casa in Italia (1964), accurata ricostruzione della situazione abitativa degli italiani, attraverso cui si offre, non senza strascichi polemici, uno spaccato delle sacche di povertà ancora persistenti nell’Italia del boom economico.
L’anno della svolta nella carriera della cineasta emiliana è il 1966. È allora, infatti, che la regista dirige sempre per la Rai la miniserie televisiva in due puntate Francesco d’Assisi (poi riedita come film nel 1972), basata sulla vita del santo vissuto tra il 1182 e il 1226, e tratta dal libro Vita di san Francesco d’Assisi di Paul Sabatier.
Realizzato con pochissime risorse finanziarie (poco più di trenta milioni di lire), il film tv (il primo della Rai) – sceneggiato dalla regista assieme a Tullio Pinelli e girato prevalentemente con una camera a mano -, pur aderendo ad uno stile cronachistico sobrio e asciutto, non omette di descrivere, sullo sfondo di volti pasoliniani, il contrasto interiore del protagonista (interpretato da Lou Castel), ai cui primi piani e alla cui voice-off viene affidata la descrizione del proprio percorso di crescita.
La Cavani è chiaramente attratta da Francesco non soltanto nella sua dimensione “consacrata”, ma anche – e forse soprattutto – in quella puramente umana, di individuo alla ricerca di sé, della propria collocazione nel mondo.
Francesco è un giovane uomo che fa delle proprie inquietudini il suo punto di forza. Rifiuta compromessi, subisce processi e condanne. Infine, trova se stesso nel Vangelo, in quel cristianesimo puro e primitivo che non conosce potere e sopraffazione ma soltanto amore e fratellanza.
Il santo di Assisi è a suo modo un precursore libero e anticonformista che attraverso la spiritualità afferma la propria ragion d’essere.
È un ribelle sui generis che pratica la rivoluzione su se stesso e che, proprio per tale ragione, riesce a entrare in perfetta sintonia con quell’universo giovanile della metà degli anni Sessanta, il quale, ancora lungi dal dar vita a rivolte e tumulti, comincia a mostrare i primi segni d’inquietudine.
Liliana Cavani, perciò, compie una straordinaria opera di attualizzazione. Il suo Francesco è drammaticamente moderno, vivo, pulsante. Così vivo e pulsante da spingerla ad imbastire con lui un lungo, fertile dialogo dal quale scaturiranno, nel 1989, una pellicola cinematografica con Mickey Rourke e, nel 2014, una miniserie tv, entrambi intitolati Francesco.
Da Galileo a I cannibali
Nel 1968, a distanza di due anni da Francesco d’Assisi, la regista emiliana torna sul grande schermo con Galileo (1968), rigorosa ricostruzione di alcuni episodi della vita di Galileo Galilei (Cyril Cusack), perlopiù legati alle sue scoperte astronomiche. Scoperte che, ponendosi in aperto contrasto con le teorie sostenute dalla Chiesa, portano quest’ultima ad accusare lo scienziato di eresia. Minacciato di finire sul rogo, Galilei, nonostante l’esattezza delle proprie tesi, verrà costretto all’abiura.
Raccontato con uno stile asciutto, arricchito da sprazzi espressionisti ottimamente risaltati dalle musiche di Ennio Morricone, Galileo, lungi dal rappresentare un mero biopic, costituisce un vero e proprio j’accuse nei confronti dell’arroganza potere. Un potere asettico e gelido (nel caso specifico, quello ecclesiastico) che, nell’ottica della propria perpetuazione, non ammette libertà d’espressione.
Si potrebbe pensare a una ricostruzione di carattere essenzialmente storico. Ma l’intento della Cavani – come già ci ha insegnato con Francesco d’Assisi – è quello di realizzare opere in grado di assumere un senso compiuto anche nell’attualità.
E Galileo, sotto tale aspetto, finisce, quasi paradossalmente, per essere duplicemente attuale, dovendo aggiungere all’intrinseca modernità del messaggio, le vicende strettamente materiali della pellicola, la quale, cannoneggiata da accuse di anticlericalismo, deve subire, proprio come un moderno Galilei, l’intervento della censura che, dopo averle imposto consistenti tagli, ne vieta la visione ai minori di diciotto anni.
Come se ciò non bastasse, il film, nonostante la presentazione alla 29ª Mostra del cinema di Venezia, viene fatto oggetto di un esecrabile ostracismo che ne limita fortemente la circolazione e, dunque, la visione.
Le vicende censorie e distributive di Galileo di certo non intimidiscono la Cavani, la quale, nel 1969, rilancia ulteriormente la propria sfida al potere realizzando I cannibali (1969), pellicola che, attualizzando l’Antigone di Sofocle, pare voler direttamente dialogare con la realtà sessantottina dell’epoca.
In una Milano distopica, le strade sono riempite, tra l’indifferenza generale, dai corpi degli oppositori assassinati da un governo tirannico, che, a mo’ di macabro memento, ne proibisce la sepoltura.
“Morte a chi tocca i corpi dei ribelli”, recitano minacciosi i manifesti sui muri. Ma Antigone (Britt Ekland), giovane d’agiata famiglia, è decisa a infrangere il divieto pur di seppellire il fratello e gli altri cadaveri. L’aiuta Tiresia (Pierre Clementi), misterioso straniero che parla una lingua sconosciuta.
I due verranno crudelmente puniti per la loro disobbedienza. Ma le loro azioni serviranno a risvegliare le coscienze altrui.
I cannibali è un film profondamente duro, nonostante i tratti grotteschi. Basterebbe ricordare, in tal senso, la sequenza iniziale, in cui quattro bambini vengono uccisi senza alcuna ragione da alcuni uomini armati di fucile.
Si tratta dello sconvolgente incipit di un racconto in cui la Cavani, anche ricorrendo a passaggi dalle nuances bunueliane, mette letteralmente a nudo un ordine costituito descritto come ottuso e infantile. La violenza da quest’ultimo usata è gratuita, perversa e inaccettabile. Tanto più inaccettabile perché rivolta verso i morti, inermi per definizione. Ed è infatti dalla mancanza di pietas nei loro confronti che divampa la ribellione.
Una ribellione che rappresenta il trait d’union con l’attualità di fine anni Sessanta: Antigone e Tiresia, infatti, incarnano plasticamente quei giovani contestatori di allora che, insorgendo nelle strade e nelle piazze, rifiutano il potere autoritario dei loro padri-padroni.
Il risultato è potente, suggestivo e convincente. E I cannibali finisce per diventare esso stesso atto di rivolta e fratellanza.
Da L’ospite a Milarepa
Dopo aver girato nel 1971 il film L’ospite – sguardo basagliano ante litteram sulla condizione degli ospedali psichiatrici italiani e racconto, attraverso la triste parabola di Anna (Lucia Bosè), sulle difficoltà di reinserimento sociale degli ex malati psichiatrici -, Liliana Cavani prosegue quel discorso sulla ricerca spirituale – di evidente anelito universale – iniziato con Francesco d’Assisi, realizzando Milarepa (1973), film girato sulle montagne abruzzesi e sceneggiato assieme ad Italo Moscati, in cui, attraverso il curioso espediente di un incidente automobilistico, si racconta la vita del monaco buddhista tibetano vissuto tra il 1051 e il 1135 (interpretato da Lajos Balázsovits) che dà il nome alla pellicola.
Il grande successo con Il portiere di notte
La definitiva consacrazione della cineasta avviene, però, l’anno seguente. Corre, infatti, il 1974 quando nelle sale esce Il portiere di notte, ad oggi il suo lungometraggio più conosciuto e controverso.
Siamo nella Vienna del 1957. In un albergo dove lavora come portiere di notte, l’ex nazista Max (Dirk Bogarde) incontra di nuovo Lucia (Charlotte Rampling), una ex deportata “usata” come sua schiava sessuale in un lager dove prestava servizio come ufficiale delle SS.
Max a distanza di anni dalla cessazione del secondo conflitto mondiale cerca di cancellare le prove del suo odioso passato, mentre Lucia è diventata moglie di un direttore d’orchestra americano in tournée in Europa.
Fortemente attratti l’un l’altro, i due, nonostante i trascorsi violenti e scabrosi, danno vita ad un’appassionata, insana relazione sessual-sentimentale che finisce per assumere i contorni di un’inesorabile discesa agli inferi.
In un racconto noir di forte impronta psicanalitica, Liliana Cavani affronta il tema del rapporto vittima/carnefice ricorrendo ad una messinscena dalle atmosfere cupe e rarefatte.
Vi sono tante notti da attraversare in questo duro, disturbante lungometraggio. Non si tratta soltanto di quelle durante le quali Max lavora. Le notti più tenebrose sono quelle dell’anima. Quelle nella cui penombra lo stesso Max si rifugia per sfuggire ai propri sensi di colpa. E quelle in cui Lisa manifesta il lato oscuro di sé, arrivando a stringere (per vendetta, dipendenza o paradossale redenzione?) un perverso rapporto col proprio aguzzino.
Bene e male finiscono per compenetrarsi. Il buio ne sfuma i confini. E la Cavani vi introduce la sua riflessione/metafora più scomoda e inquietante, immergendosi nella notte dell’Europa e delle ambigue dinamiche psico-sociali che favorirono l’ascesa del nazismo. Su tutto aleggia una domanda: qual è stata la relazione tra quest’ultimo e la gente comune?
Al di là del bene e del male: un doloroso ménage à trois
A distanza di tre anni dal controverso successo de Il portiere di notte (fortemente attaccato dalla censura), Liliana Cavani torna nelle sale con un crepuscolare ed esteticamente elegante lungometraggio che affronta ancora una volta il tema della libertà individuale.
Si tratta di Al di là del bene e del male (1977), trasposizione cinematografica dell’omonima opera di Friedrich Nietzsche, in cui viene messo in scena il ménage à trois realmente instaurato a fine Ottocento tra lo stesso filosofo (interpretato da Erland Josephson), Lou Salomé (Dominique Sanda) e Paul Rée (Rober Powell). Un ménage destinato a lasciare strascichi dolorosi.
La regista emiliana, nonostante l’ingombrante presenza di Nietzsche, si concentra sulla figura della disinibita Lou Salomé, facendone il vero cardine del racconto.
È lei a dominare con la propria emancipazione il triangolo amoroso. Il suo slancio di pura vitalità mette a nudo non soltanto gli ostacoli sociali, ma anche le resistenze personali che impediscono la piena affermazione di sé.
Perché Lou, da giovane donna che decide di vivere rifiutando schemi e condizionamenti, finisce per collocarsi non soltanto al di sopra delle regole, ma anche al di là di Friedrich “Fritz” e Paul, abili a parole nell’inseguire la sua stessa libertà, ma fondamentalmente incapaci di sfuggire a quelle dinamiche che ne rivelano il sostanziale conformismo.
La ragazza, perciò, è modernità incarnata, emblema protofemminista. E il suo sguardo sul mondo diventa inesorabile atto di sovversione.
Liliana Cavani e la Storia contemporanea: La pelle
Nel 1981 Liliana Cavani realizza il suo ottavo lungometraggio intitolato La pelle, tratto dall’omonimo romanzo di Curzio Malaparte.
Nella Napoli del 1944 appena liberata, i soldati americani riempiono i vicoli e i bordelli.
Curzio Malaparte (Marcello Mastroianni), ufficiale italiano di collegamento con l’esercito statunitense presente in città, tratta per il governo americano la vendita “un tanto al chilo” dei militari tedeschi fatti prigionieri da un “guappo” locale (un ottimo Carlo Giuffré).
Nel contempo, lo stesso ufficiale è chiamato a fare da cicerone a Deborah Wyatt (Alexandra King), giovane aviatrice moglie di un importante senatore americano, giunta a Napoli per consegnare alcuni beni di prima necessità.
Sarà questa l’occasione per mostrarle miserie e sofferenze di un popolo ridotto alla fame.
Tra ricostruzioni ferocemente realistiche e sfumature grottesche, Liliana Cavani ci conduce in un girone dantesco in cui tutto ciò che conta è la sopravvivenza. La guerra ha portato quella povertà che ora i liberatori – incapaci di entrare in sintonia col “ventre” della città – sfruttano per soddisfare i loro istinti più bassi. La prostituzione dilaga, le madri vendono i propri figli: “Abbiamo perso la guerra; le donne e i bambini l’hanno persa più di tutti”, riflette amaramente Malaparte/Mastroianni.
Il suo sguardo è disincantato, fors’anche rassegnato. Alla violenza nazifascista si è già sostituita la forza corruttrice di “cioccolata e sigarette”. È così che i “salvatori” comprano i “salvati”, in una città tanto degradata e umiliata da far scorgere nell’eruzione del Vesuvio i segni di un’apocalisse.
È l’apocalisse della povera gente; quella che sconta più di tutti la violenza della guerra; quella che, a prescindere che si stia dalla parte dei vincitori o dei vinti, finisce per essere sempre schiacciata. E la Cavani, che tutto ciò osserva con approccio documentaristico, non può che prenderne atto in un finale splatter che sa tanto di definitiva sconfitta.
Da Oltre la porta a Interno berlinese
Dopo aver realizzato nel 1982 un altro film con Mastroianni protagonista, dal titolo Oltre la porta, storia di un’insana, torbida dominazione in cui la giovane Nina (Eleonora Giorgi), pur conoscendone l’innocenza, lascia che il patrigno Enrico (Marcello Mastroianni) resti in carcere con l’accusa di aver ucciso la moglie, nonché madre della stessa ragazza, Liliana Cavani realizza l’opus n. 10 dal titolo Interno berlinese (1985), tratto dal romanzo La croce buddista di Junichiro Tanizaki.
Siamo nella Berlino del 1938. Sullo sfondo della campagna di moralizzazione del regime nazista, la giovane Mitsuko (Mio Takaki), figlia dell’ambasciatore giapponese, intraprende un rapporto amoroso con Louise (Gudrun Landgrebe), bella moglie di Heinz (Kevin McNally), funzionario del Ministero degli Esteri. Quest’ultimo, scoperta la relazione, dopo l’iniziale opposizione finisce per aderirvi imbastendo un torbido triangolo dominato dalle manipolazioni di Mitsuko. Il timore dello scoppio di uno scandalo imprimerà alla storia una tragica accelerazione.
Con Interno berlinese, Liliana Cavani propone un lungometraggio di estrema raffinatezza formale, in cui, attraverso un nuovo ménage à trois – dopo quello di Al di là del bene e del male -, porta avanti quell’indagine sulla sessualità e sulle sue più recondite pulsioni intrapresa con Il portiere di notte e proseguita con le sue opere successive.
Come nel passato, l’eros di Interno berlinese pare sublimarsi, nelle sue declinazioni psicanalitiche, non soltanto in complesse metafore sulle relazioni umane e sugli ambigui rapporti di potere che ne derivano, ma anche, sotto l’aspetto individuale, in un ancestrale disvelamento degli istinti e delle complessità del sé più profondo. Istinti e complessità che, risolvendosi in una sorta di tensione Natura/Cultura stagliata sullo sfondo della diade Amore/Morte, conducono i tre protagonisti ad una sorta di paradossale incatenamento in grado di liberarli da messinscene (quella nazista in primis) e schemi prefissati.
Il ritorno della Cavani alle origini: Francesco
Dopo Interno berlinese – film che, unitamente a Il portiere di notte e Al di là del bene e del male, forma la cosiddetta “trilogia tedesca” – Liliana Cavani torna alle origini realizzando Francesco (1989), pellicola che ripercorre la vita e il doloroso percorso spirituale del santo assisiate (interpretato da Mickey Rourke) attraverso il ricordo di Chiara (Helena Bonham Carter) e dei confratelli a lui più vicini.
Per la regista emiliana si tratta, a distanza di ventitré anni da Francesco d’Assisi, di un ritorno alle origini. Ma a differenza della pellicola del 1966, la Cavani, pur riproponendo una storia dall’impostazione realista che si riflette in una sorta di cronaca costruita attraverso un’abile successione di flash-back, preferisce smussare il lato rivoluzionario dell’iconico protagonista per concentrarsi maggiormente su quel concetto di fraternitas che qui sembra costituire il nucleo del racconto.
Ne scaturisce un lungometraggio dallo sguardo sobrio e oggettivo che tende all’introspezione nella parte finale, allorquando emergono in tutta la loro forza i tormenti interiori di Francesco – enfatizzati dalle musiche di Vangelis -, disperatamente alla ricerca della “parola di dio”.
Il tutto sullo sfondo di un Medioevo brutale, in cui il contrasto ricchezza/povertà è efficacemente risaltato dalle belle scenografie di Danilo Donati, premiate nel 1989 col David di Donatello e con il Nastro d’argento.
Liliana Cavani e il mondo della disabilità: Dove siete? Io sono qui
Quattro anni dopo Francesco – presentato al Festival di Cannes 1989 – la cineasta emiliana realizza il suo dodicesimo lungometraggio dal titolo Dove siete? Io sono qui (1993), in cui va in scena la storia di Fausto (Gaetano Carotenuto) ed Elena (Chiara Caselli), due giovani non udenti.
Fausto lavora in banca e proviene da un’agiata famiglia borghese. Elena, invece, lavora in una pizzeria e ha interrotto i propri studi perché il suo handicap non le consente di seguire le lezioni.
Tra i due nasce una tenera relazione amorosa. Ma la madre di Fausto (Anna Bonaiuto), possessiva e incapace di accettare la disabilità del figlio, rischia di far precipitare tutto nel dramma.
Con Dove siete? Io sono qui, Liliana Cavani propone un racconto sul mondo della disabilità, a metà tra realismo e simbolismo.
La regista evita accuratamente ogni facile sentimentalismo concentrandosi sugli aspetti legati alle difficoltà oggettive dei due protagonisti chiamati a dover lottare ogni giorno contro le barriere di incomprensione e indifferenza che li circondano.
Ed è in questo senso che Fausto ed Elena finiscono per incarnare plasticamente il classico archetipo cavaniano del ribelle in cerca della propria della libertà. Una libertà che, in questo caso, assume i contorni di un’emancipazione dai propri limiti e dagli altrui pregiudizi. Specie quando questi ultimi assumono la forma di un’iperprotettività morbosa e asfissiante.
Il tutto all’interno di un film che si segnala per le ottime prove di Chiara Caselli e Anna Bonaiuto: la prima, premiata con la Grolla d’oro 1993 e con il Nastro d’argento 1994 come miglior attrice protagonista; la seconda, vincitrice al Festival del cinema di Venezia 1993 della Coppa Volpi per la miglior attrice non protagonista.
Il gioco di Ripley, un thriller sul fascino del male
Nel 2002, a distanza di quasi un decennio da Dove siete? Io sono qui, Liliana Cavani torna nei cinema con Il gioco di Ripley, thriller mozzafiato tratto dal romanzo Ripley’s Game di Patricia Highsmith, già adattato per il grande schermo nel 1977 da Wim Wenders con L’amico americano.
La trama è accattivante: l’elegante, cinico trafficante d’opere d’arte Tom Ripley (John Malkovich), dopo un colpo milionario piazzato in Germania, si ritira in una villa palladiana nella campagna veneta, dove vive assieme alla fidanzata musicista (Chiara Caselli). Qui, con la collaborazione del suo ex braccio destro Reeves (Ray Winstone), convince, un po’ per gioco, un po’ per vendetta, il mite Jonathan Trevanny (Dougray Scott), giovane corniciaio gravemente malato, ad assassinare un uomo in cambio di denaro. Il tragico accordo risucchierà lo stesso Jonathan in un gorgo di violenza.
Con Il gioco di Ripley, Liliana Cavani torna nelle zone d’ombra de Il portiere di notte, imbastendo un racconto che si concentra nuovamente sul rapporto vittima/carnefice e sulla labilità del confine bene/male.
Il suo Jonathan, infatti, nonostante sia “innocente come un agnellino appena nato”, si trasforma in un assassino che non esita a rischiare la propria vita pur di salvare quella del suo sordido manipolatore Tom.
Lo stesso Tom, d’altro canto, dopo aver rovinato la vita della sua preda Jonathan, pare assumere un atteggiamento protettivo nei suoi confronti, specie quando la situazione inizia a farsi troppo pericolosa.
Si tratta di un rapporto perverso già visto nella precedente filmografia della regista che, tra fascinazione/normalità del male e corruttibilità dell’essere umano, realizza una pellicola dalla confezione elegante e dall’indubbio charme, in cui un istrionico Malkovich gioca la parte del dominus assoluto.
Dalle produzioni televisive al nuovo lungometraggio in uscita nel 2023: L’ordine del tempo
Il gioco di Ripley, ad oggi, è la tredicesima e ultima opera cavaniana uscita nelle sale. La cineasta, infatti, negli anni successivi si dedica ad altri ambiti lavorativi e realizza per la televisione italiana alcune fiction, tra cui – oltre al citato Francesco del 2014 – la convincente miniserie in due puntate De Gasperi, l’uomo della speranza (2005), basata sulla vita del grande statista italiano.
Ma il ritorno della novantenne regista nelle sale cinematografiche è ormai prossimo.
Nel 2023, infatti, è previsto l’arrivo del suo nuovo lungometraggio dal titolo L’ordine del tempo, tratto dall’omonimo libro dello scienziato Carlo Rovelli.
È la storia apocalittica di alcuni amici che, durante una drammatica notte d’estate, attendono l’annunciata fine del mondo.
Tra gli interpreti, Alessandro Gassman, Claudia Gerini ed Edoardo Leo.
Gli ammiratori di Liliana Cavani sono avvisati.