Di tragica attualità, Un altro domani di Silvio Soldini e Cristiana Mainardi racconta con partecipazione e senza retorica il fenomeno della violenza nelle relazioni affettive. Con gli autori del docufilm siamo entrati nel cuore di un progetto necessario.
Un altro domani è il documentario di Silvio Soldini nelle sale grazie a Lumière & Co.
Il bisogno dell’altro in Un altro domani
La frase di Elsa Morante, tratta da L’isola di Arturo, riassume una delle questioni vitali del film, rappresentata dal bisogno ossessivo dell’altro.
Cristiana Mainardi: Secondo noi questa frase ha un valore ancora più importante perché se pensiamo che L’isola di Arturo, pur essendo un libro del ‘57, è ancora oggi capace di spaccarci il cuore, ciò vuol dire che a fronte dei molti cambiamenti – storici, sociali e culturali – intercorsi dalla data di pubblicazione, l’animo umano è rimasto fortemente fragile di fronte ad alcuni aspetti della vita: primo fra tutti quello delle relazioni con l’altro.
La frase centra il cuore della questione. Il film si dirama in varie direzioni seguendo molteplici discorsi, però alla fine il problema è sintetizzato nelle parole della Morante, ovvero dalla concezione sbagliata rispetto alla questione del possesso. Una stortura che abbiamo ereditato dalla nostra cultura.
Un altro domani procede attraverso una grande stratificazione narrativa che storicizza la violenza delle relazioni intime puntando soprattutto ad analizzarne le conseguenze più che le cause del comportamento che le hanno prodotte. Un aspetto rilevante della vostra ricognizione riguarda anche il punto sull’apparato normativo e istituzionale che si adopera per prevenire il fenomeno e tutelare le vittime.
Silvio Soldini: Sì, sulle conseguenze e poi su quello che si può fare per andare verso un domani migliore di oggi. In realtà l’input è arrivato dalla questura di Milano, in particolare da Alessandra Simone, ora questore a Savona. Ci ha contattato per capire se si poteva fare qualche cosa per parlare del protocollo Zeus che, diciamo, è in buona parte una sua invenzione. Avendo a che fare con gli uomini autori di violenze il film è partito dal loro percorso trattamentale. Da lì abbiamo pensato di allargare il discorso il più possibile, andando a parlare anche con le vittime. Fin dall’inizio per me era chiaro il fatto di evitare testimoni maschili che non accettassero di farsi vedere, perché trovo insopportabili quelle cose classicamente televisive in cui c’è il volto sfuocato e la voce robotica. Così facendo tutti diventano automaticamente dei mostri, per cui abbiamo cercato per mesi e mesi qualcuno che accettasse di parlarci senza remore. La cosa non è stata per niente semplice. Originariamente addirittura si pensava di fare un film esclusivamente su due o tre di questi personaggi, quelli favorevoli a farsi filmare e a farci entrare nelle loro vite. A un certo punto però abbiamo capito che era impossibile. E ci siamo anche resi conto che un argomento del genere, nella sua ricchezza e complessità, doveva essere trattato in modo più esaustivo.
La costruzione del documentario
A parlare per primi sono gli uomini e non le donne. Soluzione, questa, che sul piano artistico traduce la volontà di partire dal cuore del problema, e cioè da chi è partita la violenza.
CM: Questa era la lente con la quale abbiamo cercato di guardare al problema, nella preoccupazione di capire in che modo si possono prevenire gli episodi di violenza, e infatti tutto il nostro percorso è partito dal protocollo Zeus che Alessandra Simone ha ideato a Milano. Parlare dei femminicidi, ovvero dell’apice del fenomeno, equivale purtroppo a constatare un dato di fatto. Penso sia d’accordo anche Silvio nel dire che nonostante le migliori intenzioni, nel porre alcune domande mi sono accorta di quanto sia consolidato nella nostra forma mentis il tema della subalternità della donna. Pur pensando di esserne liberi, certi pregiudizi si sono fatti largo. Per ovviarvi abbiamo tentato di restare il più possibile in un ascolto molto profondo. Abbiamo girato tantissime ore per poi desumere due o tre frasi significative. Farlo è secondo noi l’unico modo per favorire un cambio di passo generale. Non possiamo accettare questa violenza come destino ineluttabile. Dobbiamo andare oltre le normative, oltre le convinzioni, oltre tutte le cose che già ci sono.
SS: Tra l’altro, se posso aggiungere, a me piace molto l’intervento di Cristina Carelli in cui dice che tutti rimaniamo colpiti dal femminicidio, vogliamo sapere che cosa è successo e perché un uomo definito spesso da molti mite e tranquillo si trasforma in un assassino. Ma quella è solo la punta dell’iceberg, di quello che c’è sotto, nella parte sommersa, nessuno parla mai. Ecco, Un altro domani cerca di andare a capire e mostrare cosa c’è sotto. Il discorso è molto complesso, pieno di cose legate assieme e difficili da districare.
Le inquadrature di Un altro domani
Dal punto di vista visivo le inquadrature variano a seconda dei testimoni: quelli femminili sono ripresi con immagini centrali e in esterno, a simboleggiare una coscienza che non ha nulla da nascondere. A differenza degli uomini, filmati con un punto di vista più laterale e in interni, a rappresentare la difficoltà da parte loro di aprirsi e parlare delle loro azioni.
SS: L’idea era di trovare dei luoghi per le donne che fossero sempre all’aperto e non chiusi all’interno delle case dove spesso era accaduto il dramma. Abbiamo cercato posti che avessero a che fare con loro. Gli uomini sono invece tutti ripresi all’interno, in luoghi chiusi. Abbiamo voluto mostrarli mentre parlano con lo psicologo o il criminologo di turno, non con noi. Ci sembrava bello entrare in quel rapporto per riprendere un pezzo della loro vita, un momento del loro percorso trattamentale.
CM: È come dire alle donne: “non state chiuse in casa con il vostro dolore, c’è comunque un mondo pronto ad accogliere il vostro problema e a trattarlo”.
Anche perché, sempre dal punto di vista visivo, si tratta di una soluzione che entra in dialettica con il senso di chiusura trasmesso dall’immagine dei palazzi dietro i quali si nasconde il pericolo della realtà di cui parlate.
SS: Sì, esatto!
CM: Sì, perché poi come dice la stessa Alessandra Simone, ma anche Patrizia Schiarizza e un po’ tutti gli operatori che si occupano a vario titolo di questo problema, c’è ancora molto radicata l’idea di una struttura familiare dentro la quale neanche la legge può entrare. Là qualcosa favorisce il pensiero che taluni comportamenti possono rimanere impuniti proprio perché afferiscono la sfera privata e famigliare. Al contrario, essendo la famiglia il perno sociale è da lì che bisogna partire, sapendo che è un aspetto che ci riguarda un po’ tutti. Se uno abita in una casa fatta di venti appartamenti è impossibile pensare che in uno di questi non accada qualcosa che ha a che fare con questo tema.
SS: L’idea di queste finestre dietro le quali si immaginano accadimenti come quelli di cui parla il film, finestre illuminate nella città, è venuta i primi giorni di ripresa, anche perché a un certo punto è diventato chiaro che stavamo lavorando a un film di molte parole, di persone che parlano. Mi piaceva escogitare qualcosa per inserire immagini di diverso tipo, che creassero un paesaggio, un’atmosfera, e che lasciassero anche un po’ di respiro ogni tanto. Tra le altre abbiamo inserito quelle delle panchine rosse del comune e delle saracinesche dipinte da un gruppo di studenti dello IED, che formano altri due discorsi paralleli.
La parte finale
Anche la chiusa finale, con il rumore del vento che fa da premessa a un tempo migliore, mi sembra un’immagine piena di speranza. Anche rispetto alle parole di Giovanna. Peraltro tutto il tuo cinema parte ed è attraversato dall’azione della mdp che rompe il muro rappresentato dalle facciate dei condomini cittadini.
SS: Sì, è un po’ una mia cifra, soprattutto nei primi film e i vari corti ambientati a Milano. Il paesaggio metropolitano mi ha sempre stimolato. In generale l’architettura tutta mi interessa molto, mi stimola. Quindi sono andato verso quella scelta in maniera naturale.
Ho trovato bella ed efficace l’idea di sovraordinare la molteplicità dei fili narrativi a un crescendo che, partendo dalla violenza psicologica, passa a quella fisica per arrivare a un’idea d’amore capace di sublimare il male.
CM: Quando abbiamo raccolto la testimonianza di Giovanna, una madre il cui marito ha ucciso la figlia, eravamo tutti in lacrime. Non possiamo immaginare nulla di peggio di una condanna a sopravvivere a un evento come questo, eppure Giovanna, anche per l’amore verso gli altri tre figli, ha dovuto rivedere l’intera sua vita, imparando a riconoscere alcune cose, e ha cercato di trasformare il suo dramma in consapevolezza e amore: porta nelle scuole la sua esperienza per la perdita di Lauretta, riesce a parlare ai ragazzi di un mondo che può e deve essere migliore. Probabilmente l’unico significato di queste vite interrotte così bruscamente, anche rispetto agli orfani che sopravvivono alle madri uccise, non può che essere quello di riconvertire la violenza in qualche cosa di utile. È quello che forse tutti quanti come società dovremmo iniziare a fare perché parliamo di temi che riguardano ognuno di noi. Cosa possiamo fare e come può essere modificato il nostro approccio culturale, questo è il nocciolo della questione.
SS: Sì, perché poi la cosa importante del film secondo me è che a un certo punto viene fuori in maniera chiara quanta violenza impregna la società e la cultura delle nostre comunità. È lì da migliaia d’anni. Se solo sapessimo riconoscerla ed essere consapevoli di dove si annida, di quanto viene accettata per “abitudine”, potremmo lentamente iniziare a debellarla.
L’analisi di Un altro domani
Oltre a raccontare e storicizzare Un altro domani riflette sul problema analizzando la narrativa giornalistica che avalla certi pregiudizi culturali.
SS: Infatti ci siamo rivolti a Barbara Stefanelli proprio perché ne sa parecchio rispetto a questo aspetto. Ci lavora da anni e quel momento lì, pur breve, in cui vediamo queste pagine di giornale, con quei titoli, lascia il segno. Un altro domani credo sia un film ricco di stimoli, mostra cose e parla di cose a cui io stesso spesso non avevo mai pensato. La nostra speranza è di riuscire ad accendere nuovi pensieri nella mente delle persone. Pensieri che portino a riflessioni nuove e a 180° gradi sull’argomento.
Come dice Cristiana, il percorso di consapevolezza appartiene a tutti, e prima di tutti, agli spettatori che andranno a vedere il vostro film.
CM: Speriamo. Per noi è stato così, nel senso che siamo partiti per questo viaggio in un modo e arrivati in un altro, a dimostrazione di quanto poco sappiamo e di quanto tanto possiamo fare come individui e come cittadini. Di questo sono molto convinta.
SS: Infatti… Sono molto belle le parole di Cristina Carelli, verso il finale del film, dove parla del prendere le distanza dalla violenza, consapevoli della società in cui viviamo, dell’educazione avuta, e del fatto che sia un fenomeno strutturale. Per poi lottare non tanto per un cambiamento esterno, ma soprattutto per un cambiamento interno a noi, ai nostri comportamenti e al nostro essere in relazione con gli altri.
Il tono
Una caratteristica del film, che secondo me rende convincente il suo discorso, è un’asciuttezza che riguarda sia i termini espressivi che narrativi. Anche nei toni è evidente la ricerca di una sobrietà che non esclude il dolore, ma che permette al film e ai suoi protagonisti di rimanere lucidi nel perseguire l’obiettivo finale. Anche la decisione di rinunciare al mix tra documento e finzione concorre a evitare retorica e spettacolarizzazione.
SS: Intanto ti ringraziamo per averlo definito asciutto perché renderlo tale è stato un lavoro molto duro. Avevamo centinaia d’ore di riprese, il lavoro di selezione e via via di asciugatura fatto insieme a Giorgio Garini, il montatore, è stato fondamentale. Sei una delle prime persone “esterne” che lo vede, quindi ci interessa molto sapere come lo hai recepito perché comunque è un film lungo (100’, ndr). Il tentativo era di non lasciare niente di inutile, di tenere veramente le cose indispensabili per progredire con un discorso che poi si dirama in vari filoni narrativi. Fin dall’inizio volevamo interlocutori che oltre a portare informazioni, perché per forza di cose il nostro è un film informativo, trasmettessero anche la loro umanità. Dovevano essere persone capaci di trasmettere delle emozioni. Così è stato per criminologi e psicologi, abituati a dare l’anima per lavorare in questo contesto, ma anche per avvocati, magistrati, poliziotti… fino ad arrivare a chi ha vissuto la violenza sulla propria pelle. Ognuno di loro trasmette al film un’emozione che lo rende ancora più forte.
CM: Come dicevi bene tu, è esattamente l’opposto della spettacolarizzazione perché quella crea assuefazione e voyeurismo, portando a dar valore a dettagli morbosi, che stimolano la curiosità naturale dell’essere umano, ma sono colpevoli di depotenziare il dramma di migliaia di donne e dei loro figli. Perché poi non bisogna sottovalutare il disagio vissuto dai minori, un tema tutt’altro che secondario.
Un’umanità, Silvio, che da sempre è la cifra del tuo cinema. Un altro domani è la conferma di una poetica sentimentale che emerge anche laddove non te lo aspetti. Penso alla squadra di agenti di polizia che confessano di piangere insieme di fronte ai racconti delle vittime.
SS: Eppure anche loro piangono. Devo dire che è così, anche in questura abbiamo trovato persone che danno l’anima rispetto a questo argomento e quello che dicono è vero: le abbiamo viste in azione, pronte a prendersi cura di chi si rivolge a loro, al punto da portarsi a casa il lavoro, perché poi la materia non è di quelle che a un certo punto puoi mettere da parte. Essere sempre sul pezzo per loro è inevitabile.
Cristiana, volevo lasciare a te il compito di concludere questa conversazione.
CM: Volevo aggiungere ancora una cosa che riguarda gli operatori. Il loro è un lavoro che in qualche modo li costringe a guardare un male molto particolare. Avendo a che fare il più delle volte con i rapporti affettivi è sempre sfaccettato, ha più protagonisti, e coinvolge i più piccoli. Un agente di Polizia ci ha detto: quando vado sul luogo di una rapina so che cosa aspettarmi, non è così quando entro in una casa per una lite domestica. E conosciamo il lavoro enorme e salvifico che viene svolto da decenni dai Centri Antiviolenza. Voglio aggiungere un’osservazione sul lavoro dei percorsi trattamentali, un’attività molto complessa, affinché gli autori di reato possano avere gli strumenti necessari per riconoscere le conseguenze dei loro comportamenti e possibilmente non replicarli. In questo senso quella di Paolo Giulini e del CIPM è stata una visione pionieristica, e il fatto che oggi inizi a far parte dei protocolli istituzionali, ci dà la misura della voglia di guardare al fenomeno nella sua complessità. E tutto questo nutre la speranza che un altro domani sia possibile.