Intervista a Jin Ong: “Il segreto di Abang Adik? L’amore”
Il regista malese parla nel dettaglio della storia d'amore fraterno che ha vinto, convinto e commosso al noto festival del cinema asiatico. Il film è al cinema
Se c’è da fidarsi del Far East di Udine, tra le più autorevoli voce sul cinema asiatico nel circuito dei festival europei, il film vincitoreCome Fratelli-Abang Adikdel malese Jin Ong deve essere opera di pregio assoluto, tanto più se si considera che è stata insignita non solo del Gelso d’Oro per la migliore opera in assoluto, ma anche del Gelso Bianco come migliore opera prima. E c’è da fidarsi, certo. Prima ancora, garantiva la reazione del pubblico europeo, già scaldatosi al Friburgo Film Festival, dove Abang Adik aveva vinto sia il Premio del Pubblico, sia quello della Giuria Ecumenica; ancor di più nella stessa Udine, dove i ben informati riferiscono quanto il film del regista malese sia stato applaudito prima e tifato. Il segreto? Sconcerterà sapere quanto sia semplice: “l’amore”, mi dice il regista Jin Ong.
Si tratta di un amore in particolare: quello tra fratelli. Sono loro a dare il titolo al film. Abang (Kang Ren Wu) è il maggiore; sordomuto ma combattivo, cerca di sbarcare il lunario con mille lavoretti, sudando le sette camicie – ma a stento ha una canotta – nel brulichio dei mercati di Pudu Pasar, chiassoso quartiere di Kuala Lumpur da cui non esce mai. Adik (Jack Tan) è il minore; testa calda, più incline a lavori sporchi e piccole truffe, sembra di capire, ma anche capace di un affetto caloroso e gratuito per il fratello.
I due, in realtà, non sarebbero nemmeno fratelli di sangue, ma la povertà e la fuga li hanno uniti precocemente. Entrambi originari della Malesia, non hanno carta di identità, né diritti. Una volenterosa e giovane assistente sociale, Jia En, vorrebbe aiutarli, come già in passato la dolcissima transgender Money, che si era presa cura di loro. Ma un incidente complicherà ulteriormente la situazione. I fuggitivi fuggono ancora. Altro che diritti, va tutto storto.
Ad Hollywood, molti registi e attori finiscono per diventare produttori. Jin Ong, invece, fa il percorso inverso: è un produttore diventato regista. Abang Adik è il suo primo film. Possibile che un esordio così fulminante per pubblico e critica si riduca a questo, all’amore? Abbiamo cercato di fare la carta d’identità al film, approfondendo l’esordio alla macchina da presa del regista malese. Si è parlato di rapporti affettivi tra uomini, immigrazione e povertà, ombre e luci della fraternità, astuzie di sceneggiatura e di fotografia, cinema asiatico e cinema europeo. E tanto altro, perché i segreti non finiscono mai.
Il trailer di Abang Adik
L’intervista: Jin Ong parla di Abang Adik
APPRENDISTA REGISTA
Più di un critico ha osservato la sorprendente qualità visiva e l’eleganza della tua regia, tanto più notevoli se si considera che per te si tratta dell’esordio dietro la macchina da presa. Nel cinema, invece, ci sei da un po’, in qualità di produttore. Riesce naturale, allora, chiederti quale senti sia stato l’influsso della tua precedente esperienza nella produzione rispetto alla realizzazione di Abang Adik.
È una sorpresa e un onore molto grande per me aver ricevuto questi complimenti. La mia è una storia malese, che viene dalla Malesia. Se può, in qualche modo, riuscire a toccare il pubblico o le persone di altri Paesi, e se posso suscitare in loro certi sentimenti, non posso che dirmi felice. La mia esperienza di produttore mi aiuta molto quando opero da regista. Da produttore, ho realizzato sette film negli ultimi otto anni. Questo fa capire come in realtà anche in questo settore, tutto sommato, io sia abbastanza fresco. Ho saputo sin dall’inizio che mi piacevano i film, per questo sono diventato produttore. Col tempo, ho cercato di imparare a comunicare con il regista, con la troupe, con il direttore della fotografia, con gli attori e con la squadra di produzione tutta. Ho visto costruire i film, metterne insieme i pezzi, scegliere le inquadrature. Lentamente, ho imparato tanto.
Mi ritengo fortunato ad aver accumulato questa esperienza. Da regista, come da produttore, sto ancora curando la parte della raccolta fondi. Anche se sono diventato regista, continuo a fare quello che compete a un produttore: cercare soldi, soldi, soldi! Si può dire che in fondo sono ancora mezzo produttore. E questo mi aiuta tanto, sì. Ma ripeto, è importante soprattutto aver imparato a comunicare con la propria squadra. A mio avviso, questo mi favorisce anche nel saper comunicare col pubblico attraverso le storie.
L’AMORE VINCE TUTTO
In che modo Abang Adik comunica col pubblico? In cosa riesce a connettersi profondamente con lo spettatore? Penso che ti sia fatto un’idea in merito, visto anche il confronto che hai avuto con platee come quella del Festival di Friburgo o del Far East Film Festival.
Penso che in tutti i miei film, non importa se realizzati da produttore o, come per la prima volta in questo caso, da regista, ci sia questa cosa chiamata amore. Tutte le storie devono avere a che fare con l’amore. Il progetto, il concetto riguarda l’amore. Ecco perchè penso di riuscire a trovare una connessione col pubblico e col mercato: do allo spettatore un carico di emozioni, lo commuovo, riesco a far percepire che le cose che succedono al protagonista accadono anche nella sua vita, e che quindi il protagonista è reale. L’amore tra essere umani è la cosa più toccante che ci sia e nei miei film ha sempre la priorità.
Abang Adik, i due fratelli si abbracciano
Non voglio solo parlare di temi e argomenti vari. Voglio far sentire l’amore nell’umano, dentro il nostro corpo. Se sei un essere umano come tutti gli altri, puoi sentire tutto questo amore quando guardi qualcosa di toccante o commovente. Poi sta a te, chiaro, capire perché ti senti triste, o felice, o sull’orlo delle lacrime. Per questo, durante la proiezione ufficiale a Udine, ho voluto condividere con il pubblico che, per quanto dura sia la vita, per quanto crudele sia il mondo, credo sia sempre la volontà di amare a tenerci in vita.
LA QUESTIONE DELL’IMMIGRAZIONE: VOGLIAMO VIVERE!
Eppure, in tanta umanità della tua materia filmica, è comunque possibile estrarre alcuni temi. Per muovere i sentimenti raccontando storie, c’è bisogno di dare a queste ultime uno sfondo sociale. Nel tuo caso, in Malesia, c’è un tema che non può mancare di interessare lo spettatore: l’immigrazione. Questione all’ordine del giorno in Italia, ben nota in Europa, ma più in generale, un fenomeno globale. Che caratteristiche specifiche ha l’immigrazione nella Malesia di Abang Adik? Cosa sa raccontare questo sfondo sociale, soprattutto allo spettatore italiano, così centrato sulla propria prospettiva mediterranea?
Credo che il problema che si evidenzia nel mio film, Abang Adik, sia lo stesso in ogni Paese. Non importa se si tratti di Oriente o Occidente, il problema dell’immigrazione clandestina esiste in tutti i Paesi. La Malesia ne è afflitta da lungo tempo, insieme alla questione degli apolidi, le persone senza documenti di cittadinanza. Ma quanti ne sono a conoscenza? Ho pensato di girarci un film, perché il cinema rappresenta la strada più facile per arrivare alla gente, indipendentemente dal luogo in cui ti trovi.
Quanti hanno visto Abang Adik, spero ora possano apprezzare la propria vita. È sicuramente una vita buona e giusta, se raffrontata a quella di tante persone sfortunate. A Udine, una persona nel pubblico mi ha chiesto perché avessi scelto un soggetto del genere. Io dico solo che se non puoi fare nulla di concreto, puoi comunque accettare la sfida di dare un qualche contributo. Nel mio caso è stato così, e lo è stato perché conosco bene la questione.
La conosci “intellettualmente” o perché l’hai vissuta? Intendo dire, c’è qualcosa di autobiografico che è confluito nel film?
Sai, Antonio, sono stato un lavoratore straniero a Taiwan, e tale mi sono sentito anche in Malesia. Tutto attorno a me ha a che fare con la cultura filippina. In un modo o nell’altro, conosco le esperienze di tanti lavoratori e immigrati, legali e illegali. Nutro dei sentimenti molto forti nei confronti delle loro vite, capisco cosa si provi quando qualcuno lascia il proprio Paese per un altro perché vuole sopravvivere, perché vuole provare a smuovere qualcosa. Questa emozione pervade anche il film.
Quando sono tornato in Malesia, non ho potuto fare a meno di guardarmi attorno con uno sguardo nuovo. Mi interrogavo sulla società, sulle ragioni profonde dei comportamenti sociali. In un film che ho prodotto nel 2017, Shuttle Life (primo progetto malaysiano a vincere il gran premio al Taipei Golden Horse Film Project Promotion, n.d.R.), non parlavo di immigrazione, ma di povertà in Malesia. Ecco ciò che mi piace fare: prendere qualcosa di vero, che abbia a che fare con la realtà delle cose che succedono nel mio Paese, e farne una storia.
UN POSTO ALL’OMBRA
Veniamo proprio alla storia. In interviste come queste, su film che hanno vinto festival importantissimi come il Far East, ma che non molti spettatori hanno ancora avuto occasione di vedere, sono consapevole di dover fare l’equilibrista: devo parlare del film senza svelare troppo. In proposito, è spesso funzionale riferirsi al prologo. Nel caso di Abang Adik, l’inizio consiste in una frase di Marin Sorescu: “C’è chi si basa solo sul vivere nella propria ombra, nemmeno in quella intera. E forse, a volte con una mano sola, a volte con un occhio solo”. In che modo metteresti questa frase in relazione con la vicenda dei due fratelli, Abang e Adik?
Si tratta di una poesia che si chiama Shadow e di cui ho preso solo l’ultima parte. Ti spiego dal principio. Due anni fa, nel 2020, quando durante la pandemia ho cominciato a scrivere la storia di questo film, sapevo dal punto di vista concettuale di voler far confluire nella mia opera un messaggio d’amore. Allorché sono riuscito a focalizzarmi sul tipo di storia, vale a dire quella dell’amore tra due fratelli, mi è venuta in mente l’immagine dell’ombra. Non sempre riusciamo a vederla. A volte ci riusciamo, magari quando la luce si fa spazio nell’oscurità, oppure sotto il sole. Ma certo è, l’ombra ti segue sempre.
Quindi Abang è come l’ombra del fratello minore.
Ecco: Abang, il fratello maggiore, è un’ombra. Segue e protegge sempre il fratello minore, proprio come un’ombra. Per tutto il tempo, in maniera così quieta, si limita a seguirlo, a proteggerlo. Quest’idea mi ha ispirato molto quando ho scritto dell’amore tra questi due fratelli. Abang è sordomuto, ma se è come un’ombra, sarà in qualche modo sempre lì per il fratello. Ecco perché ho voluto iniziare il film con questa frase: ci sono persone che vivono come ombre, hanno solo questa forma. A volte usano una parte del loro corpo, forse una mano o un occhio; ma avvolti nell’ombra come sono, non sai di che mano o di che occhio si tratti. Eppure, stanno lottando contro il mondo. È quello che fa Abang per proteggere Adik, quasi come un fantasma invisibile.
Con questo riferimento all’ombra, magari lo spettatore pensa che chissà cosa possa succedere nel film. Ma come vedi, si tratta di un riferimento concettuale: pensare all’amore come un’ombra. Non è l’amore che possiamo vedere di solito. Nell’oscurità, però, forse si riesce a percepire.
L’AMORE COSTA CARO
Ci sono molte forme d’amore, come l’affetto della transessuale Money per i due ragazzi o l’altruismo dell’assistente sociale Jia En che si batte per procurar loro i documenti. I due stessi fratelli esprimono una concezione diversa dell’amore verso le donne in una scena emblematica. Abang ha una storia con quella che Adik chiama “la ragazza di Myanmar”, una giovane che vive nell’affollato condominio da emigrata illegale a rischio di rimpatrio. Adik sembra quasi esprimere un’idea cinica, materialistica dell’amore. Dice ad Abang a proposito della ragazza: “Potrebbe partire da un momento all’altro. Lei sa che ti piace? Se devi portarla a letto, agisci velocemente”. Come riassumeresti la diversa visione dell’amore da parte dei due fratelli a partire da questo dialogo?
Abang ama il fratello, naturalmente; poi ha questo amore per la “ragazza di Myanmar”. È molto coinvolto ma sa di non poter andare oltre, perché è consapevole dell’ambiente a cui appartiene. Non ha una carta d’identità, non può nemmeno garantire un futuro alla ragazza. Abang è una persona che tiene sempre tutto nascosto nel cuore, ma a volte amore non significa dover avere per forza una persona. Nella vita di questa gente, nel loro mondo, l’amore è qualcosa che non ci si può permettere. Quando Adik si rivolge ad Abang in quel modo apparentemente cinico, lo fa anche per ricordargli che, suvvia, onestamente, non si può fare. Perché non ce lo possiamo permettere. Perché è dura vivere nel nostro mondo.
Abang Adik, Adik al lavoro al mercato
È anche vero, bisogna dire, che Adik è un po’ geloso, perché non ha nessuno se non il fratello. E non lo vuole dividere con nessun altro. Abang, dal canto suo, dividerebbe qualsiasi cosa con Adik. Anche a causa di suo fratello, non va oltre in questa storia. Nella scena in cui i due fratelli dialogano, il tono può sembrare divertente, ma per me tutto questo è molto triste, perché si parla di un amore che non ci si può permettere.
IN FUGA DA UNA VITA
Stiamo davvero entrando nel film, confermando quanto avevamo premesso: l’amore è un elemento centrale, ma è impossibile disgiungere la storia dal suo contesto sociale. Un’altra scena è significativa in questo senso. Abbiamo visto quanto sia grave in Malesia il problema delle persone senza documento di riconoscimento e dell’immigrazione clandestina. C’è una scena in cui la polizia compie un raid e arresta chi può; alcuni scappano. Nella confusione, i fratelli si separano. Usi spesso questa forma narrativa: seguire prima l’uno, poi l’altro, in parallelo. Vorrei che in questo caso descrivessi le reazioni di entrambe: Adik vede la polizia arrestare alcune persone nel palazzone, Abang si ritrova in un vicolo a osservare due ragazzini che fuggono.
Hanno reazioni diverse. Non è la prima volta che assistono a un intervento della polizia della squadra immigrazione. Quanto ad Adik, ogni volta che vede qualcosa del genere, non sa mai come possa andare a finire (Adik esibisce sempre dei documenti falsi, n.d.R.). La prossima volta potrebbe toccare a lui far parte del gruppo di coloro che vengono arrestati. Ha paura.
Anche Abang ha paura, probabilmente.
Sì, e sai perché? Quando vede i due ragazzini che fuggono, è come se vedesse sé stesso col fratello. Non può fare a meno di pensare: quando potrò smetterla di fuggire? Quando? Per ora, è ancora costretto a correre. Ma perché? C’è della fantasia in questa scena. Ogni volta che fuggirà, Abang vedrà sempre spuntare i due ragazzini: gli scorre davanti agli occhi il film della sua stessa vita. Insomma, sia Adik che Abang hanno paura, ma è un sentimento diverso. La rabbia è diversa nell’uno e nell’altro.
RABBIA SORDA, CINEMA MUTO
È interessante ciò che dici, perché ci sarà un altro momento nel film in cui Abang sembrerà avere un attacco di rabbia verso il destino, chiedendosi proprio questo: perché non può avere una vita normale come quella degli altri? Perché deve sempre lottare e fuggire? Si tratta di uno dei momenti di maggiore intensità di Abang Adik.
Abang Adik, Abang (che è sordomuto) è un attento osservatore
Nella propria percezione di anormalità, naturalmente Abang è anche cosciente della sua peculiare condizione di sordomuto. Dal punto di vista espressivo, che conseguenze comporta il fatto di avere un protagonista muto? Si ha la sensazione che il silenzio diventi una componente importante e che, in generale, tutta la progettazione del suono ne venga influenzata.
All’inizio, il personaggio di Abang non doveva essere muto. Doveva essere una persona “normale”, intendo come me e te. Quando ho cominciato a fare ricerche, anche presso organizzazioni non governative, mi sono cominciato a chiedere: se prendo una persona in difficoltà e aggiungo il fatto che sia muta, di che tipo di sofferenza farebbe esperienza? E se oltre a essere muta, non avesse la carta d’identità, cos’altro le succederebbe? È attraverso questo processo mentale che si costruiscono i personaggi. Allo stesso tempo, però, ho capito una cosa: il silenzio è un potere enorme. Il problema sarebbe stato il contrario: fare di Abang un personaggio che parla troppo. Dal punto di vista drammatico, una situazione del genere non sarebbe risultata potente come auspicavo. Allora la mia ricerca ha avuto una svolta: ho cominciato a cercare persone mute.
Ciò di cui mi sono reso conto è che, in effetti, anche se non possono parlare, e spesso sono sorde, la loro capacità di osservazione è molto forte. Sanno molte cose. Capiscono più di noi. Così, ne ho avuto conferma: per una vita così misera e difficile, l’ideale sarebbe stato quello di avere un protagonista muto. È stata la mia scommessa.
A volte sembra che lo sceneggiatore sia un aguzzino che accumuli difficoltà sul cammino di un personaggio. Ma in questo, per Abang, si può dire che ci sia anche un valore simbolico, e non solo drammatico, per il suo mutismo?
Decisamente. Nel mio paese, quando ci sono problemi come quelli di cui stiamo discutendo, della povertà e dell’immigrazione, la maggior parte della gente semplicemente non ha parola. Resta in silenzio, incapace di farsi sentire. Desideravo che in qualche modo il mutismo di Abang rappresentasse anche questo senso di impotenza.
LA NOTTE E LA CITTÀ
Se il silenzio è così incisivo, c’è un altro elemento che definirei poderoso dal punto di vista filmico: si tratta della notte. Il film inizia proprio con una sequenza notturna, mostrando Adik alle prese con losche attività. C’è un’aria di clandestinità in più di una scena di notte. È vero che ci sono anche tante scene di segno opposto, nel mercatino di quartiere: rumoroso, policromo, affollato – catturato dalla fotografia accalorata dell’indiano Kartik Vijay. Evidentemente, però, l’idea della notte è quella che resta con maggiore suggestione, se alcuni critici si sono spinti a parlare di noir. Definiresti tale l’atmosfera prevalente di Abang Adik? Come va pensato Abang Adik, come un film nell’oscurità o nei colori?
Le scene notturne sono importantissime. Creano un contrasto tra luce e oscurità. Prima del film siamo stati quattro mesi col direttore della fotografia Kartik a parlarne. Ci siamo confrontati scena per scena, su ogni dialogo, su tutti i movimenti di camera. Su tutto. Ma lasciami dire anche che sono una persona che ama le cose colorate. Il mio primo lavoro è quello di grafico. Faccio il graphic designer. Se prendi un’area povera della città e la rendi colorata, hai implicitamente creato un contrasto. Non è solo il posto bello o ricco a dover avere dei colori, ma anche l’altro mondo, quello povero e sporco.
Abang Adik, i colori non sono un caso
Ho dibattuto molto col mio direttore della fotografia su questo, dicendogli che volevo avere degli scenari molto colorati. Ma è anche vero che ci sono delle parti più pallide o scure. Sono molto sensibile all’illuminazione in un film. Le parti luminose devono essere molto luminose, quelle scure molto scure.
Si può parlare di una distribuzione studiata di luce e oscurità, colore e nero?
Il punto è che il film è diviso in tre parti. La prima precede l’incidente centrale. Dopo l’incidente, c’è la fuga. La terza è quella della prigione. Per ognuna di queste parti i colori e i movimenti della macchina da presa sono totalmente diversi. C’è però una parola che hai usato che trovo interessante: oscurità. Nel film c’è qualcosa che definire come rumore oscuro. Il rumore è oscurità. È vero che ci sono parti molto colorate, ma la palette fotografica si riserva sempre di avere delle gradazioni piuttosto scure. E quando, dopo l’incidente, la vita dei due fratelli diventa ancor più sofferta, dolorosa, difficile, il colore sembra come andarsene. Il tono si abbassa. Alla fine resta quasi un bianco e nero, un colore prosciugato. Non c’è più vita nel loro mondo. Alla fine, quindi, mi sento di concordare con chi definisce noirl’atmosfera del film.
SOLI SENZA LUCE
Parlavi dei diversi movimenti della macchina da presa e della variazioni della fotografia nelle tre parti del film. In realtà, prima ho volutamente semplificato la questione del noir. Il noir non si definisce semplicemente per i toni “oscuri” della pellicola. Storicamente ed esteticamente, è una questione largamente dibattuta. Una delle caratteristiche del noir è quella di presentare delle percezioni psicologiche distorte, allucinate. In tema di movimenti della macchina da presa, mi sembra che la parte di Abang Adik in cui manipolando le inquadrature hai ottenuto il più potente “effetto vertigine” sia l’inizio della terza ancora una volta in parallelo: la solitudine di Adik, disperato senza il fratello; la solitudine di Abang, isolato in prigione. Come hai concepito stilisticamente queste parti?
Quando Abang è in prigione, non c’è praticamente movimento di camera: ci sono close-up statici. È giusto ciò che dici sulla solitudine dei protagonisti. Nelle discussioni a cui accennavo poc’anzi col direttore della fotografia, ho fatto presente questo: che Abang, nella terza parte, è praticamente morto. Non è più; non sente di appartenere al mondo.
Abang Adik, il mondo è grigio quando si è in fuga
Ecco perché quando abbiamo attraversato quella parte del racconto, ho avuto bisogno di far sì come il mondo apparisse tale dai suoi occhi, nella sua mente. Adik, frattanto, è fuori, e c’è una bella differenza tra uno che è in prigione e l’altro che è libero. Ma c’è una scena che li accomuna fortemente nei toni: quando Adik torna a casa, solo, il vuoto della casa e la sua solitudine assomigliano a quelle di Abang in prigione.
MIO FRATELLO È FIGLIO UNICO
Siamo nella parte finale della nostra intervista ed è probabilmente arrivato il momento di tirare le fila del discorso. È chiaro, sia per chi abbia già visto, sia per chi non abbia ancora visto Abang Adik, che il film è una storia di fratellanza. Il tema è ampiamente diffuso non solo nel cinema, ma anche nella letteratura, nella Bibbia, nella mitologia. Che cosa trovi di rilevante e distintivo nella fratellanza raccontata in Abang Adik?
Dura rispondere a questa domanda, ma ci proverò. Il fatto è che mi sento una persona piena d’amore. ho una famiglia felice con i miei genitori, mio fratello, mia sorella, tutti, e la mia compagna, naturalmente. Capisci facilmente che il tipo di amore che contraddistingue questi personaggi è completamente diverso. È un amore fondato sull’unicità: ognuno ha solo l’altro, nessuno più. Puoi ben immaginare la forza di un legame del genere. Questo fa sì anche che il loro sia un amore un po’ borderline, e non a caso ho molti amici della comunità LGBT. D’altro canto, è detto chiaramente nel film, Abang e Adik non sono fratelli di sangue. Semplicemente, si prendono cura l’uno dell’altro in un modo speciale. Qualcuno me l’ha chiesto: i due sono gay? La risposta è no, non lo sono. Ma l’intimità della loro relazione può farlo pensare, perché no?
Questo sarebbe un altro tema interessante, ossia ragionare della tenerezza nella mascolinità attraverso la lente del rapporto fraterno.
Vedi, quando non hai genitori, né padre né madre, o parenti che si possano chiamare tali, è naturale che ci sia una vicinanza di questo tipo. Può essere difficile da immaginare, ma è logico che sia così.
ANG LEE, UN ANGELO CUSTODE
Per concludere, voglio uscire dal film e tornare alla tua formazione e ai tuoi progetti. Anche se, probabilmente, finiremo trovandoci a dire cose che riguardano ancora Abang Adik. Hai dichiarato in passato che il cinema di Ang Lee è stato come una fulminazione per te. Quando leggo cose di questo tipo, non mi accontento mai: ho bisogno di sapere come e perché.
Il primo film che ho visto è Il banchetto di nozzedi Ang Lee del 1993. Ne fui impressionato ed entusiasta. Mi chiesi: com’è possible fare un film come questo? Come ben sai, la Malesia è un paese islamico. Non era nemmeno pensabile un film che parlasse di omosessualità o LGBT a quel tempo. Fu in generale quella trilogia a piacermi, da Pushing Hands del 1991 a Eat Drink Man Woman del 1994. Mi ha ispirato tantissimo. Ogni volta che Ang Lee parla di famiglia, non lo fa solo della madre, ma anche del rapporto tra figlio e padre. È un tipo di amore mascolino e questo mi ha sempre attratto.
Un amore, per certi versi, come quello tra fratelli del tuo Abang Adik.
Esatto. Poi, da buon cinese di famiglia tradizionale, Ang Lee fa del padre sempre un personaggio molto serio, che non si può permettere il lusso di esprimersi troppo apertamente. Eppure, attraverso i film di Ang Lee osservi questo modo quasi gentile di presentare l’amore tra padre e figlio. A volte il padre non dice niente, ma alla fine fa un’unica cosa che ti fa sciogliere, il tuo cuore si scioglie.
I FILM EUROPEI DELLA SUA VITA
Usciamo dall’Asia. Del cinema europeo sapresti indicare qualche fonte d’ispirazione?
In genere mi piacciono pochi film. Ma comunque non mancherò di dirtene un bel po’ di relativamente recenti. Comincerei con Close (2022) del belga Lukas Dhont. Poi Il labirinto del fauno (2016), di Guillermo del Toro. Restando in ambito spagnolo, Dolor y Gloria (2019) di Pedro Almodóvar. Sono tutti film che in cui c’è una forte componente di umanità e di dramma. Citerei anche Biutiful(2010) di Alejandro G. Iñárritu.
Ovviamente abbiamo leggermente allargato il confine europeo, considerando che Del Toro e Iñárritu sono messicani.
Sì, ma torno subito in Europa con un film francese: Monsieur Je-Sais-Tout (2019), di Stéphan Archinard e François Prévôt-Leygonie. Parla di uno zio che si prende cura del nipote con la sindrome di Asperger. Mi interessava come interagissero un uomo grande e grosso e un ragazzetto di giovane età. Altro film è il danese Land of Mine (2015) di Martin Zandvliet. Anche qui c’è un rapporto tra uomini: il generale e i suoi soldati. Sono sempre attento al racconto di come si costruiscano relazioni del genere, tra uomini e uomini. Trovo che il cinema europeo sia ricco di esempi di questo tipo e da questo punto di vista mi impressiona non poco.
Noto anche che sei molto attento alle candidature degli Oscar.
Sì: sono praticamente una fonte di aggiornamento per me. Dagli ultimi Oscar, per esempio, mi è piaciuto anche EO (2022) di Jerzy Skolimowski. Lasciamo completare la lista con Lezioni di Persiano(2020) di Vadim Perelman (regista ucraino naturalizzato canadese, n.d.R.).
L’OPERA SECONDA
Non ti è mancata e non ti mancherà ispirazione, dunque. Ora, lungi dal volerti mettere pressione, ma sarai d’accordo con me, dopo tanti complimenti e premi internazionali, nel maneggiare con cura l’opera seconda, che è sempre particolarmente delicata. In tal senso, hai già un progetto in corso?
Sì, ho diverse storie che bollono in pentola e che mi piacciono molto. Qualche mese fa, dopo un periodo in Svizzera, sono tornato a Taipei e un mio caro amico mi ha detto proprio questo: ehi, sarebbe tempo di metter mano a un altro progetto, a una seconda storia. Ma vedi, ogni volta che si scrive una sceneggiatura, ci vogliono non meno di due anni. Anche in questo caso si tratta di una storia ambientata in Malesia, ma incentrata su di un lavoratore straniero. Ce ne sono dal Pakistan, dal Vietnam, dall’Indonesia. Non mi voglio interrogare sul perché siano qui, bensì capirne la situazione nelle sfide lavorative di ogni giorno, nonché come si comportino alle prese con amore e religione. Ci sarà anche un elemento LGBT nella storia. Ma sto ancora cercando di immaginarne i dettagli, e sicuramente ci riuscirò.
Prendo nota di questo tuo interesse per l’elemento LGBT, che nel cinema contemporaneo, bisogna dire, ha generato un autentico filone.
Di fatto, ho in mente anche la storia di un transessuale in Malesia. Voglio mettermi presto al lavoro, ma non ti nascondo che sono alquanto impegnato col giro del mondo che sto facendo con Abang Adik. E ti confesso che non so se attaccare già col secondo film da regista o prima realizzarne un altro da produttore. C’è tanto da fare.
Aspetto impaziente la tua opera seconda. Scommetto che sarà un altro grande film. Il vero cinema non è nella perfezione, ma nell’umanità delle storie, anche quando imperfette.
Ti ringrazio per l’incoraggiamento, Antonio. Il pubblico europeo, e in particolar modo quello italiano a Udine, mi ha dato così tanta forza da convincermi davvero che posso fare il regista.
Non ne dubito. Alla prossima!
In qualche festival!
Il film è al Cinema dal 30 Aprile con Tucker Film, Academy Two.
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