Ne I nostri ieri di Andrea Papini, Maria Roveran diventa l’emblema di un cinema che “fa luce” sulle vite dei personaggi. Con lei abbiamo parlato del film e del suo “viaggio” d’attrice.
I nostri ieri è nelle sale distribuito da ATOMO FILM.
Maria Roveran ne I nostri ieri
Ogni volta che il cinema parla di sé esiste sempre un doppio livello di racconto. Quello legato alle vicissitudini della trama e un secondo, più nascosto e simbolico, ma non meno presente, che riflette sulla Settima Arte. Anche Tutti i nostri ieri non sfugge alla regola.
Esatto. I nostri ieri è un film che usa metalinguaggi in maniera forte, preponderante e stratificata. Penso che questo sia il bello, e anche il rischio, di un progetto qual è il nostro, nato come film indipendente che intreccia la vita personale di Luca, interpretato da Peppino Mazzotta, con quella professionale, di cui fa parte il rapporto con i detenuti che sono anche gli attori del suo film. Oltre a questo doppio strato di narrazione, ce n’è un altro che riflette sul cinema attraverso il personaggio di Peppino, appassionato del suo lavoro, ma, come si capisce, non pienamente realizzato. Decidendo di svolgere un laboratorio all’interno del carcere mette in discussione la propria carriera e, in parte, il proprio percorso umano, interrogandosi sulla sua vita e sugli accadimenti che si ritroverà ad affrontare.
La prima scena
Nella prima scena non capiamo di star vedendo il film diretto dal protagonista. A rendercene consapevoli è il passaggio successivo in cui vediamo la luce del proiettore illuminare il volto degli spettatori. Tutti i nostri ieri ci mette subito in guardia sulla fragilità dello sguardo e su come il cinema sia capace di “illuminare” il nascosto delle nostre vite.
Esatto. Il cinema è esaminato non solo come linguaggio, ma anche attraverso i suoi tanti elementi. Questa stratificazione diventa per lo spettatore un po’ il gioco di un illusionista perché poi, come dicevi tu, ci ritroviamo, a vedere un’immagine che sembra il film che stiamo guardando e non quello proiettato agli altri spettatori che noi osserviamo guardare il film. L’inizio è davvero un volo pindarico!
I vostri ruoli confermano questo gioco di specchi, per via di una fluidità che scombina le certezze dello spettatore. Così è il regista Peppino Mazzotta, di cui a un certo punto arriviamo a dubitare della correttezza, e che, a fasi alterne, sembra qualcuno a metà strada tra un educatore e un investigatore dell’anima. Il tuo, poi, è nel contempo uno e trino.
Esatto, proprio per il gioco di ruoli presente all’interno di questa macchina del cinema, io interpreto in realtà un’attrice che veste i panni di due personaggi diversi. Quello della suora, nel lungometraggio presentato ai detenuti all’inizio della storia, e poi il ruolo della vittima, nella parte conclusiva del film. Il mio, vive come tutti gli altri personaggi, una sorta di dualità, di transfert. Lo vive il regista che, come dicevi, sembra quasi una sorta di investigatore ma anche un operatore sociale. L’attrice dapprima viene scambiata per una suora, poi, dopo essere ritornata se stessa, si trasforma ancora in qualcun altro. A quel punto sappiamo chi è Caroline, ma quasi ce lo dimentichiamo nel momento in cui si narra la violenza che ha portato Peppe in carcere. Io per prima, pur avendola interpretata, quando guardo quella scena quasi mi scordo che lei è l’attrice del laboratorio interno al carcere. Me lo ricordo a tratti, ma poi lo perdo di vista.
Maria Roveran e Denise Tantucci ne I nostri ieri
Tornando all’inizio del film, le sua natura metaforica emerge in due scene simili. Nella prima ci sei tu nei panni della suora mentre fuggi via, non prima di toglierti il velo e gettarlo via. Nell’altra vediamo il personaggio di Denise Tantucci indossare il maglione della sorella del padre. Vestire e svestire i panni altrui non potrebbe riassumere meglio il mestiere d’attrice.
E forse anche dei tanti ruoli e delle maschere che da comuni mortali ci ritroviamo a indossare nella vita. Parlare con te mi offre nuovi spunti di riflessione perché io osservo il film da attrice, ma grazie al tuo punto di vista riesco ad approfondirne nuovi aspetti. Di questi giochi, stratagemmi e invenzioni il pubblico non sempre è cosciente.
Stiamo parlando di scene fondative di un altro tema, legato alle vicissitudini dei personaggi, e cioè quello di capire il presente facendo luce sul proprio passato. Così succede ai personaggi, così fa il cinema.
Esistono film che si prefiggono di riuscire a dare un senso alla vita e a ciò che accade. In questo caso c’è un desiderio di ricerca e di comprensione attraverso una rilettura, o comunque, una messa in scena di ciò che è nei nostri ricordi; di quello che vive nel nostro passato. Questo è uno dei temi su cui si interroga il film, ovvero quanto peso ha la rilettura storico scientifica dei fatti e quanto peso può avere dentro di noi il ricordo emotivo di ciò che è stato.
Il ruolo dell’attrice
Nel film l’escamotage del blue screen, utilizzato dal regista per ovviare al problema di non poter girare con i detenuti fuori dalla prigione, diventa il pretesto per ragionare sulla capacità del cinema di superare i limiti materiali e psicologici, per mettere in comunicazione il dentro con il fuori. Quest’ultimo è un concetto che ti appartiene come attrice ogni volta che sei chiamata a entrare in un determinato ruolo.
Sì, è sempre un atto magico, che per me diventa un processo molto concreto, collegato al corpo, ai sentimenti, alle emozioni, al pensiero. Ovviamente dentro i personaggi c’è anche una parte di me, perché utilizzare me stessa è l’unico modo che conosco per dare anima e corpo alle vite degli altri. Solo così i personaggi mi arrivano al cuore, permettendomi di assumerne le sembianze.
Il carcere
L’immagine del gatto che riesce a intrufolarsi dentro la prigione rafforza la metafora di una realtà che non si può in nessun modo tenere fuori dalla nostra vita. Anche chiusi e separati dal mondo i detenuti continuano a essere inseguiti dalla vita che hanno lasciato fuori dalle sbarre.
Esatto, anche quella può essere letta come una metafora di qualcosa che sfugge a qualunque controllo e spiegazione; alle prigioni, anche esistenziali, che il film di Andrea Papini mette in campo trovando come pretesto il carcere. In realtà il film allarga il discorso indagando prigioni molto più simboliche, che riguardano la nostra dimensione interiore. Per la scena del gatto che non si sa come riesce ad entrare all’interno del carcere, Andrea si è ispirato a un fatto realmente accaduto. Nel penitenziario il gatto era diventato per qualcuno una compagnia, una presenza vitale e spontanea. In fondo è quello che accade spesso nella vita: cerchiamo di controllare, di monitorare, di prevedere, di chiudere, però poi qualcosa riesce a entrare. Nel bene e nel male.
L’immagine del carcere è resa in controtendenza poiché il vostro è un ambiente tutt’altro che fatiscente, assomigliando, anche nella forma, a una sorta di casa famiglia più che a un istituto detentivo. Un’astrazione, questa, ancora più presente nella resa del paesaggio, saturo di luoghi reali e, allo stesso tempo, immaginati.
Gli interni della prigione contrastano con la bellezza paesaggistica dei luoghi in cui abbiamo girato, capaci di dare vita a visioni di ampio respiro e di tenere lontana la desolazione. In generale non cercavamo di raccontare le carceri contemporanee con precisione scientifica. Piuttosto ci siamo rifatti a un contesto laboratoriale di cui ci siamo informati in maniera diretta. Al regista interessava approfondire una realtà più rara, ma comunque esistente, in cui i luoghi che accolgono i detenuti sono ospitali e dignitosi. Dovrebbe essere la normalità, ma purtroppo non è così.
La figura di Maria Roveran ne I nostri ieri
Nei panni della vittima il tuo look appare altrettanto liquido. La mise dei capelli, il modo di muoverti, il biancore della pelle, il tipo di inquadrature proiettano la tua figura in un contesto più concettuale che reale. In quel momento non sei una persona specifica, ma tutte quelle che si sono trovate nella medesima situazione.
Sono accennata, quasi un fantasma: stereotipata, nel senso non negativo del termine, perché il mio è un personaggio che si presta all’interpretazione dei fatti. È un mezzo della narrazione, non il fine, per cui si, Caroline è una figura molto fluida. Di lei non si sa molto. Si capisce che è una sorta di attrice feticcio del regista e che in precedenza ha già lavorato con lui.
Ognuno dei tuoi personaggi entra in scena senza essere introdotto da una biografia. Come spettatori siamo chiamati a dedurla dalle immagini. Immagino che anche tu, per interpretarla, abbia fatto un po’ la stessa cosa.
Sì, ho lavorato principalmente su Caroline, partendo dalla figura di questa attrice. Mi sono chiesta chi fosse, cosa facesse, che rapporto la legasse a Luca, che tipo di fiducia e, anche se per pochi frame, per pochi momenti, ho sentito la necessità di chiarirmi bene su quale fosse il rapporto con Luca, soprattutto quello professionale. Poi ho lavorato pensando di essere Caroline che interpreta la suora nel progetto che Luca proietta ai detenuti. Successivamente mi sono concentrata sul ruolo della vittima. Sono abituata a lavorare molto sulla preparazione di un personaggio. Qui l’ho fatto diversificandolo per tutti e tre, immaginando di essere Caroline, impegnata a dare forma e interpretare gli altri personaggi. È stato un processo molto interessante, fatto di molteplici passaggi, necessari a dare vita a un personaggio che appare in un trittico di visioni.
Una scena del film
Una delle scene più significative ti vede sul luogo del delitto insieme al tuo assassino. Vi appari come un’autentica visione, ma soprattutto metti in scena la compresenza di attrice e personaggio attraverso il lungo silenzio che segue un’esternazione del tuo interlocutore. Lo sguardo tra la paura e la meraviglia è allo stesso tempo il tuo, oltre che quello del tuo alter ego. Ancora una volta la realtà prende il sopravvento sulla finzione e sei tu a farti portatrice di questo fenomeno.
Le tue stesse impressioni mi sono state riportate dai colleghi che hanno visto il film. Per quanto possa essere semplice e scarna, senza dialogo e con scarsa interazione, è comunque una scena molto bella. Con Francesco abbiamo giocato molto sui silenzi. Trovandomi nella vita a frequentare contesti anche di disagio mi sono chiesta se Caroline fosse stata abituata a lavorare con un detenuto condannato per omicidio. Ho pensato molto a quali timori e imbarazzi la potessero assalire in quel momento. Tutto questo l’ho condensato sottolineando il limite, grande e sottile, che separa la realtà dei fatti e l’inscenare qualcosa che è al di fuori di te. A entrare in gioco è stata anche la riflessione su cosa significa per una donna e un’ attrice impersonificare quel tipo di ruolo insieme a colui che realmente ha commesso il delitto. Se uno ci pensa non è una cosa da poco.
Una condizione che riesci a trasmettere senza pronunciar parola e affidando allo sguardo il compito di comunicare pensieri ed emozioni.
A volte i piani di ascolto sono fondamentali. È lì che capisco se ci sono o non ci sono; se il mio collega c’è oppure no. Pensiamo che sia sempre parlando che esprimiamo le intenzioni ma non è così. Questo per me nella vita è un problema perché mi accorgo di quello che si portano dietro le persone senza bisogno che dicano nulla.
L’uso del corpo per Maria Roveran ne I nostri ieri
La tua capacità di lavorare sul corpo emerge anche in questo film. Per te a volte diventa lo strumento principale e anche l’unico, come è successo in Capri Revolution. Penso all’essenzialità primordiale de La Terra dei figli. Il tuo è un corpo cangiante.
Ti ringrazio tantissimo. A livello estetico mi confronto con colleghi e colleghe strepitose. Io ho un corpo particolare e forse anche la mia fisionomia lo è. Talvolta il mio aspetto mi fa penare, altre volte le persone ne riconoscono le proprietà. Io cerco sempre di stare in allenamento. Anche a livello agonistico. Cerco di abituare il corpo a stare in ascolto. A volte ci riesco, altre meno, e questa cosa fa sì che esso cambi di continuo. Per fortuna ho la consapevolezza di essere un tipo emotivo, nel senso che in me c’è un forte legame tra corpo ed emozioni. Sono una che somatizza le situazioni in maniera abbastanza evidente, però ho imparato a gestirmi in maniera serena. Da ragazzina era tutto molto più complesso, perché non avevo coscienza di me. La recitazione è stato anche un mezzo per conoscermi. Non sono ancora un’attrice che gira sei film all’anno e questo per certi aspetti è un male. La cosa positiva è quella di avere più tempo per lavorare sul corpo e per concentrarmi su momenti di studio importanti. Guardandomi indietro e rivedendomi in film di 2/3 anni fa mi trovo molto diversa da oggi. Mi è successo anche con I nostri ieri. L’abbiamo girato nel 2021 e mi sembra di vedere un’altra Maria.
In tutto questo la costante è che ti si ricorda sempre. I cambiamenti di cui parli ti fanno rimanere maggiormente impressa allo spettatore.
Mi stai dicendo delle cose bellissime: anche perché da sola non me ne posso accorgere e non capita spesso di poterne parlare con tale lucidità. Di solito il pubblico mi dice, mi piaci o no, non mi piaci. Invece a me questa riflessione fa piacere perché essere attrice è una cosa che amo in quanto mi permette di esprime tanto e a volte anche ciò che sono.
Non solo attrice
Il cambiamento riguarda anche il tuo modo di essere artista perché oltre al mestiere d’attrice sei anche cantante e cantautrice. In questo caso hai collaborato alla sceneggiatura. Non sarei meravigliato di ritrovarti anche regista.
Tante persone me lo dicono ma penso che tutto faccia parte di un processo. Ritengo sia fondamentale per me percorrere questa strada e continuare a fare esperienza per migliorare e acquisire sempre più strumenti. Se un giorno sarò pronta e ne sentirò l’urgenza lo diventerò, sperando di farlo al meglio possibile. Ne I nostri ieri ho lavorato alla sceneggiatura e ultimamente ho fatto anche da coach all’interno di un set. Cerco di cogliere tutte le occasioni possibili per fare esperienza in ambito artistico e continuare il mio percorso di indagine e di esplorazione sull’umano. Considera che a me piacciono le persone: mi incuriosiscono anche quando mi infastidiscono o mi mettono a disagio, quindi lo faccio proprio perché è una curiosità sull’essere umano. È qualcosa che ha a che vedere con il mio pensare la fede e la spiritualità. Andrea Papini ha visto che le mie osservazioni potevano essere buone per migliorare e ottimizzare alcune dinamiche come pure certe sfumature dei personaggi. Ha avuto fiducia in me e da lì è nata la nostra collaborazione sulla stesura del testo.
Gliene sono grata.
C’è qualche attore che ti piace più di altri?
È difficile rispondere perché non ho attori che non mi piacciono. Questo perché considero le performance. Non do un giudizio sugli attori in sé. Così per me un bravo interprete è quello capace di farmi emozionare.