Presentato al Torino Film Festival, Orlando racconta gli esseri umani e il nostro tempo attraverso la storia di un incontro indimenticabile. Del film abbiamo parlato con il regista, Daniele Vicari
Orlando è al cinema, distribuito da Europictures.
L’Orlando di Daniele Vicari
La prima scena introduce il personaggio in maniera particolare: la mdp lo isola mostrandolo di sfuggita mentre suona, coperto dal nugolo di persone che festeggiano all’interno del ristorante. Quella e le scene successive ti servono per introdurre il carattere solitario di Orlando, homo faber che preferisce l’azione alla parola.
Gli Orlando che ho conosciuto nella mia vita sono uomini che si esprimono lavorando. Non si tratta sempre di un lavoro produttivo, nel senso che, pur non producendo un salario, chi vive nelle campagne o in montagna è continuamente impegnato in una operosità vitalistica, fa crescere piante, alleva animali, ripara cose, costruisce, fa raccolti in ogni stagione e questa operosità senza sosta sviluppa anche un certo solipsismo poiché cosi facendo si finisce per bastare un po’ a se stessi. Per queste persone non c’è bisogno di fare grandi discorsi, ciò che conta è fare, lavorare. Da questa operosità mai doma nasce Orlando.
Il cinema di Daniele Vicari in Orlando
In un dialogo tra Orlando e Lyse, la nipote rimprovera al nonno di non parlare mai e lui, per contro, gli risponde che se non ha niente da dire preferisce stare zitto. Un’affermazione che mi sembra al tempo stesso una caratteristica del personaggio così come del tuo modo di fare cinema.
Non so se è il mio modus operandi, ma la tua domanda mi fa riflettere. Certamente io sono interessato a fare cinema in tutti i modi perché non credo ce ne sia solo uno. Ho realizzato film con qualunque formato, con qualunque mezzo tecnico e in qualunque situazione. In effetti si tratta di una caratteristica trasmessami da mio padre che faceva il muratore e lavorava in campagna senza fermarsi mai, nemmeno il giorno di Natale. Per me fare cinema non è un lavoro intellettuale: anche se ne parlo volentieri, analizzo e faccio riflessioni, devo ammettere che non lo vivo come un lavoro dell’intelletto, ma come qualcosa di molto fisico. Lo disse una volta Gregoretti in pubblico parlando di Diaz. Lui disse che per fare film come i miei ci vuole “il fisico”; lì per lì mi parve una bella battuta, ma, come sempre, con la sua intelligenza acuta, Ugo aveva colto nel segno.
Facevo questa riflessione perché nella sovrapposizione tra componente artistica ed elementi personali c’è appunto quella di un cinema fatto di cose concrete come quella di raccontare storie senza intellettualismi né orpelli, ma andando al cuore del problema. Un po’ come fa Orlando rispetto a quello che gli capita nel film.
Sì, per me raccontare significa andare al punto della storia, anche se con una cadenza che ogni volta è dettata dall’atmosfera del racconto. Fare troppi giri intorno al nodo narrativo non lo trovo interessante, anche se ci sono grandissimi registi che lo fanno, che eludono quel nodo. Anche lì, non credo che ci sia un modo solo di fare cinema, però sicuramente il mio è quello di trasformare le idee in azione, in movimento. Orlando nel film non sta mai davvero fermo, anche quando dorme ha la sigaretta in mano. Nel cinema per me l’azione è importante. Il viaggio, per esempio, lo spostamento spazio-temporale dei personaggi, il rapporto con la tecnologia, con la velocità, sono elementi sui quali i miei film tornano sempre.
Il paesaggio
Le prime sequenze ti servono per legare Orlando al paesaggio in cui vive. Le immagini lo fanno in maniera così perentoria da costituire una sorta di archetipo destinato a diventare metafora di quella cultura arcaica e contadina destinata a entrare in conflitto con quella moderna, cittadina e tecnologica che Orlando incontra quando arriva a Bruxelles.
Penso che il mondo delle campagne non sia stato mai così lontano da quello urbano come ai giorni nostri. Si tratta di una distanza impressionante anche nella nostra stessa cinematografia nazionale. Dopo gli anni sessanta il nostro cinema è diventato molto “urbano”: nella gran parte dei casi i film raccontano storie cittadine e in questa urbanizzazione un po’ forzata il nostro cinema ha completamente perso il contatto con gli elementi primari dell’esistenza, persino con la vita e la morte, le storie spesso sono atemporali, sospese. Un esempio è dato dal fatto di non mostrare più personaggi al lavoro perché, nel racconto urbano, soprattutto in quello di genere, prevalgono componenti morali o moralistiche. Preponderante è la fascinazione per la delinquenza che è sempre inconsapevole espressione del rifiuto del lavoro produttivo. I protagonisti di questi film non hanno bisogno di lavorare anzi, al posto dei normali strumenti di lavoro, hanno in mano pistole, cocaina e cellulari. Quello che ne emerge è un mondo astratto. Anche nelle opere più belle e sofisticate nelle quali, il più delle volte, si mette in scena l’universo medio o piccolo borghese, il rapporto con il lavoro è praticamente rimosso, prevale il bovarismo. Forse è una questione legata all’appartenenza di classe degli autori, forse alla paura che possa risultare noioso il lavoro. Chissà.
Nei miei lungometraggi tengo sempre ben presente la relazione quotidiana tra i personaggi e la loro occupazione. Anche il peggiore degli assassini combina qualcosa nel quotidiano, magari solo come copertura. Non è una questione “ideologica” perché non si tratta del lavoro salariato e delle possibili rivendicazioni a esso connesse, ma di un’attività che costruisce l’esistenza stessa, quella operosità appunto senza la quale sembriamo sempre tutti in vacanza.
Le attività che compiono sono per me fondamentali per la definizione dei personaggi, infatti non c’è nessun mio film nel quale non si veda il lavoro. Il passato è una terra straniera è l’unico, anche se Giorgio è un magistrato e Francesco un baro, comunque fanno cose con la mente o con le mani, in Prima che la notte, il film su Pippo Fava, racconto il giornalismo e la sua materialità, i giornalisti scrivono e poi stampano il giornale, addirittura lo distribuiscono. L’astrazione della vita proposta dalla cinematografia “urbana” è una cosa nella quale faccio un po’ fatica a riconoscermi e questo prescinde dalla bellezza dei film, possono anche essere dei capolavori, li sento “astratti”. Orlando racconta un personaggio lontano dalle istituzioni, distante dal cuore della modernità per il fatto di abitare in un luogo remoto in cui non si ha bisogno di considerare l’esistenza dell’Europa, una delle tante “astrazioni” del nostro contemporaneo. Orlando è indifferente all’Europa e quando ci casca dentro – come un astronauta che sbarca dallo spazio -, sappiamo da quale pianeta proviene, cioè del paesino di montagna dove l’essere umano non ha una funzione decorativa o estetica, ma sostanziale, poiché dalla terra quell’uomo ricava i beni elementari e fondamentali della vita. A Bruxelles, che racconto come una città “di vetro” egli si ritrova in un universo che parrebbe non avere bisogno della operosità, un universo però regolato dal denaro, che infatti gli presenta continuamente il conto ed ecco che, anche lì, Orlando dovrà lavorare, per lui non ci sono patrimoni, conti in banca, carte di credito; Orlando ha solo il lavoro dalla sua e deve lavorare per riuscire a vivere. C’è poco da fare. Per fortuna è avvezzo a cavarsela, altrimenti soccomberebbe immediatamente.
Da sud a nord in Orlando di Daniele Vicari
Una coerenza, quella del tuo cinema, presente anche nella ricognizione del paesaggio effettuata da sud a nord. Si tratta di un movimento su cui hai costruito molte delle tue storie: penso per esempio a Il mio paese. In Orlando il sud è l’Italia, il nord, L’Europa.
Il viaggio spazio-temporale compiuto da Orlando non è dal passato al futuro, ma è uno spostamento nel presente. Gli elementi apparentemente arcaici della vita di Orlando sono contemporanei a quelli più futuristici della città di Bruxelles. Tra l’altro ho ambientato il film nella zona nuova della città, un luogo fatto di palazzoni di vetro, di strade larghe piene di automobili perché fa parte di una certa schematizzazione, quella iper-ideologica, lasciar intendere che le persone che non vivono l’urbanesimo, che sono fuori dai confini della metropoli, non esistono. Le immagini di Orlando che attraversa Bruxelles, la sua sola presenza in quel luogo, vogliono dimostrare l’esatto contrario. Ho chiesto allo spettatore un po’ di pazienza, con questo inizio apparentemente più lungo del necessario, perché bisogna darsi il tempo, farsi permeare dallo spaesamento di Orlando. Qui questa parola assume il suo senso più compiuto; è lo “slittamento” da un paese all’altro.
In Orlando mostri l’esatto contrario di quanto capitava al personaggio di Mastandrea in L’Orizzonte degli eventi. Lì il movimento è dal mondo tecnologico a quello arcaico.
Sì, è vero, questo è una cosa che non mi piace mai dimenticare. Einstein a un certo punto dice che non esiste passato, né futuro, si tratta di nozioni legate al semplice fatto di misurare il tempo con un orologio, sono costruzioni intellettuali, il tempo è “uno”. Lo vediamo nella nostra società, attraverso la compresenza di tanti elementi temporali ai quali affibbiamo l’etichetta di passato, presente o futuro mentre in realtà sono termini che giocano assieme la partita della storia. Poi, però, c’è qualcuno che ritiene che chi non agisce in un certo modo è “fuori dalla storia”. Ecco, questo lo considero un grave errore perché vuol dire che pensiamo l’uomo contemporaneo come una entità priva di radici. Questo pensiero è alla base della debâcle filosofica della “mia” parte politica, la sinistra, che ha lasciato la riflessione sulle radici e sull’identità ai pensatori della destra. Un errore esiziale.
Le radici
I tuoi film raccontano di come l’uomo contemporaneo debba fare i conti con le proprie radici. Orlando lo fa ragionando sulla compresenza dei diversi tempi dell’esistenza. Lo vediamo quando il protagonista una volta arrivato a Bruxelles l’attraversa con un passo che nulla ha che vedere con la frenesia circostante. Da questo punto di vista il tuo film mi ha ricordato Nebraska di Alexander Payne. Anche lì, a un certo punto, il regista mostra la compresenza di una doppia velocità, quella del protagonista che risale a fatica la superstrada e quella delle macchine che gli sfrecciano accanto. Entrambi vi rivolgete a quell’umanità che il mondo tecnologico si è lasciata indietro.
Nebraska è un film bellissimo. Alexander Payne ha trovato un equilibrio che è di una rarità assoluta nella cinematografia americana e non solo, equilibrio che forse solo lui e Lynch hanno raggiunto. In Nebraska e in Una storia vera ci si pone il problema del rapporto con lo spazio e il tempo, con la vecchiezza e la morte. Considera come tutti i discorsi del cinema e della letteratura classica americana sulla frontiera sono andati a scemare nel momento in cui gli Stati Uniti sono diventati un impero globale. È difficile raccontare come gli esseri umani dopo essere stati completamente abbandonati a se stessi vogliono in qualche modo soltanto essere dimenticati. Nei film di cui stiamo parlando le persone sono trascurate dalla politica e dal potere e dentro quella dimensione dello spazio e del tempo “sospeso” trovano comunque il proprio modus vivendi, vanno persino a riprendersi i loro affetti nel dopo-storia. Chi vive nei grandi spazi extraurbani, fuori dalla metropoli, è immerso in una condizione legata a gesti ancestrali, primari, come piantare un palo o accendere un fuoco. Rispetto a racconti come quello di Payne noi europei avremmo in più la chance di una vera e propria tradizione, antica, che in qualche modo continuiamo però a negare e a negarci, e non consideriamo che ci sono persone che portano addosso quella storia. Ecco che Orlando, quando va in Belgio, sa di non avere bisogno di nulla da parte di quella civiltà urbana. Anzi, lui deve difendersi da quella, infatti va lì e dice: “vi siete presi mio figlio, è venuto qua a morire di fame, ma voi che volete da me?!”.
Da questo punto di vista nel mio lungometraggio pongo un problema in più rispetto a quello di Payne, film straordinario che hai fatto benissimo a citare, perché è una delle opere che negli ultimi vent’anni mi ha colpito profondamente. Il problema ulteriore è che non è vero che noi siamo sradicati: è una menzogna ideologica. Fa parte di un lavaggio del cervello che subiamo tutti i giorni, è una costruzione filosofica, ideologica, che vuole consegnarci a un perenne stato di fragilità e disequilibrio, e noi come automi passiamo l’esistenza a farci i conti. Ecco perché Orlando è così caparbio: lui, per esempio, non ha bisogno minimamente di emigrare. Ciò di cui necessita Orlando l’ottiene rimanendo fermo dov’è, così la domanda che pone allo spettatore contemporaneo è: “perché mi state facendo questo, che cosa vi ho fatto? Lasciatemi vivere”.
La fotografia di Orlando di Daniele Vicari
In questo passaggio dall’antico al moderno, dal paese alla città, dall’Italia all’Europa il cambiamento di prospettiva è sottolineato da una fotografia che sembra proiettare Orlando in una realtà da fantascienza. Quando la polizia lo sveglia all’interno dello scompartimento del treno la soggettiva sul soffitto del vagone lo fa sembrare a bordo di una specie di astronave. Così capita anche con i riflessi del vetro sulla sua faccia rispetto all’impressione di un salto nell’interspazio, ovvero a tutta una serie di stilemi del cinema di genere da te utilizzati come metafora del cambiamento.
Per me il racconto della velocità e il racconto del viaggio diventano automaticamente la metafora di qualcosa nel cinema. È così sempre, anche quando il regista non se ne rende conto. Quando poi la velocità e il movimento hanno a che fare con lo sviluppo psicologico del personaggio, vanno oltre la metafora, diventano allegorici.
Orlando fa uno sforzo immenso per lasciare il luogo in cui è nato e cresciuto, non vorrebbe, ma lo fa apparentemente per “dovere”. Scopriremo però più tardi che non ha mai perdonato al figlio di aver abbandonato il posto in cui, secondo lui, sarebbe dovuto crescere. Scopriremo anche che Orlando non è stato un granché come padre, perché altrimenti non avrebbe perso il figlio in quel modo. Lui non è la persona migliore del mondo, è un tipo duro, autocentrato, autoritario, però, proprio perché ha delle radici, è in grado di mettersi in discussione anche da vecchio. E non è una contraddizione, è parte di una possibile evoluzione che nella vita lui stesso non si è concesso, è stata una scelta. Tutto questo avviene attraverso uno spostamento che, ripeto, solo all’apparenza è un viaggio nel tempo. E quell’immagine in sovrimpressione della ferrovia sul primo piano di Orlando che viaggia in treno, evoca una storia, quella della nostra emigrazione nazionale mai conclusa, attraverso un falso movimento (per dirla con Wenders), presente su presente. Dopo pochi minuti, dopo l’arrivo a Bruxelles che lo fa “galleggiare” nella metropoli, capiamo che Orlando sta esplorando quella parte del presente che non conosce, e anche il proprio dolore, con il destino del figlio lo riporta immediatamente con i piedi per terra. Così lo spettatore spero si chieda: ma in che film sono capitato? In che tempo e in che spazio mi sta portando? Per questo, come dici tu, quelle immagini sono un po’ fantascientifiche, perché rievocano forse tanto cinema novecentesco incentrato sul viaggio “nello spazio”.
Lo spazio
Subito dopo, quando i protagonisti si ritrovano a camminare nella parte più moderna della città, enfatizzi la profondità di spazio restituendo lo spaesamento del protagonista. Nei campi lunghi lui sembra quasi sparire, sovrastato dalla vastità di strade e palazzi. Per come le riprendi le architetture metropolitane sembrano ancora più grandi di quello che in realtà sono.
Sì, lui viene inghiottito dalla città nel momento esatto del suo arrivo e questa sensazione, con il direttore della fotografia Gherardo Gossi, abbiamo pensato di crearla attraverso un cambio netto di registro visivo nel momento in cui Orlando giunge alla stazione di Bruxelles. Da lì in poi utilizziamo grandangoli che hanno una caratteristica importantissima, mantengono una ampiezza e una profondità di campo per cui anche se si fa un primo piano, non si perde mai l’ambiente circostante: il personaggio resta avvolto nell’ambiente. Quindi, quello che normalmente possiamo considerare un difetto o una banalizzazione fotografica propria delle immagini prodotte nel nostro contemporaneo – in special modo dai cellulari – lo abbiamo messo alla prova in un racconto che ha una valenza psicologica, emotiva, cercando un equilibrio forse impossibile nel rapporto tra la dimensione del personaggio e quella dell’ambiente. L’obiettivo è stato quello di non sbilanciarci mai a sfavore di nessuno dei due. Banalmente, nel momento in cui faccio un primo piano a Orlando, non dimentico dove sono, soprattutto non dimentico mai di essere “dentro di lui”.
Il profilo estetico di Orlando di Daniele Vicari
Quello che dici viene ribadito anche sotto il profilo estetico attraverso la mise di Orlando che arriva in città con valigia démodé e busta in mano, il cappello e il vestito d’ordinanza tali e uguali a quelli indossati nel paese. Nonostante venga inghiottito dalla metropoli, vestiti e accessori diventano un altro segno del suo non venire meno al radicamento di cui parlavi.
Sì, perché l’emigrante è un topos del cinema e della letteratura novecentesca. Questi è un essere umano che va altrove per cambiare la propria condizione. Anche da questo punto di vista Orlando non è emigrante, anche se ne conserva le sembianze. Lui vuole essere quello che è tanto in paese quanto in città. Questo atteggiamento lo caratterizza anche sul piano sentimentale. Il problema, l’imprevisto, per lui è avere a che fare con una bambina, cosa che lo costringe a porsi il problema del cambiamento. Se fosse solo potrebbe anche evitare di farlo: ma deve tenere in considerazione il punto di vista della nipote, anche perché lei è determinata ad affermarlo. Per questo io, come narratore, devo considerare il fatto che Orlando e Lyse hanno lo stesso problema. E spero lo faccia a sua volta lo spettatore. Anche lei non vuole rinunciare a quello che è. Lyse non vuole andare via da Bruxelles per non rinunciare a ciò che le piace, al suo mondo, al suo ambiente, alle sue amicizie, ai suoi desideri, alle sue attitudini. Per lei vale la stessa cosa di Orlando: il loro è un incontro per certi versi tra pari, quindi lo scontro è inevitabile. Come dicevo prima, anche se sono molto distanti da un punto di vista generazionale, Orlando e Lyse fanno parte dello stesso tempo, della stessa temporalità. Hanno persino lo stesso destino, lo stesso problema da risolvere: non sanno quale sarà il loro futuro.
Generazioni a confronto
In questo senso Orlando è un film di antipodi perché parte da una situazione estrema, con il genitore che sopravvive al proprio figlio, per poi ricomporsi attraverso opposti generazionali. Anche riguardo a questo concetto metti in scena la compresenza di epoche – e dunque di tempi diversi – attraverso l’incontro tra un uomo e la propria nipote.
Certo, il motivo per cui ho tolto dal racconto la generazione di mezzo, cioè quella di Valerio, è perché di fatto noi “in età produttiva” siamo un intralcio all’incontro tra le generazioni dei nonni e quelle dei loro nipoti. I nostri figli non vedono i loro nonni, tranne salutarli quando oramai sono già morti perché questo è il modo in cui abbiamo organizzato la nostra società. Non ci stiamo rendendo conto di quanto si perde da un punto di vista sentimentale e di solidità della società impedendo ai nipoti di vivere la vita quotidiana dei nonni, compresa la loro morte. Poterli vedere solo quando non ci sono più significa derealizzare la loro stessa vita. Spesso non portiamo nemmeno più i bambini ai funerali. È successo qualcosa di grave di cui ci dobbiamo assumere la responsabilità. Come generazione di mezzo abbiamo introiettato quella che secondo me è una sconfitta e cioè lasciarci alle spalle un passato che non ci piace semplicemente perché non lo abbiamo compreso. Togliendo la generazione di mezzo dal mio racconto faccio sì che Orlando e sua nipote si incontrino sino in fondo. A Orlando la bambina chiede una forma di genitorialità che lui non ha mai nemmeno contemplato. A sua volta a Lyse si chiede di misurarsi con un carattere alieno che è quello di un uomo che ha già vissuto gran parte della sua vita da solo, che ha lasciato rinsecchire dentro di sé i sentimenti. In questo percorso, quindi, nonno e nipote cambiano entrambi. Anche a Orlando, nella parte conclusiva della sua esistenza, si spalanca un futuro possibile.
A proposito di poesia la scena finale con i due protagonisti in campo lungo che si allontanano tenendosi per mano, con l’orizzonte che si staglia davanti alle loro figure, mi ha ricordato i finali dei film di Charlie Chaplin.
Come sai non amo molto le citazioni cinematografiche, però sono uno spettatore che ama il cinema per cui non escludo che, raccontando attraverso immagini, possa sembrare che io alluda a film importanti. In realtà nel finale sentivo la necessità che a un certo punto i due personaggi si abbracciassero, perché in tutto il racconto non si erano mai davvero toccati. Avevo bisogno che lo facessero davanti a quella città che ho raccontato in maniera così fredda, così nel decoupage ho tenuto dentro il racconto gli sguardi delle persone chiuse nelle loro auto e di quelli dei passanti intenti a guardare tutti quella scena “melodrammatica”. Mi interessava che quella di Lyse e Orlando divenisse una solitudine pubblica, per cui, nonostante il film sarebbe anche potuto finire prima con Orlando che suona l’organetto alla nipote, ho voluto tenere questa scena e darle tutto il tempo e lo spazio necessari. Poi è vero, riconosco che i protagonisti che si allontanano dalla macchina da presa, costituiscono un topos narrativo ricorrente nella storia del cinema, al quale Chaplin ha dato una forza mai più raggiunta. Ma che possono farci noi, se siamo pulci sulle spalle di giganti?
Il personaggio di Orlando di Daniele Vicari
Quello che ho apprezzato del personaggio di Orlando e che riesce a essere fino all’ultimo autonomo rispetto a una volontà esterna al racconto. È come se lui continuasse a fare quello che ritiene utile indipendentemente che ci sia tu che lo riprendi attraverso la mdp e noi spettatori che lo guardiamo attraverso lo schermo cinematografico. Così facendo abbiamo a che fare con una persona viva e reale.
Orlando è talmente determinato da non contemplare un cambiamento rispetto alle proprie idee sul mondo ed è per questo che non è scontato che lui e la nipote alla fine si possano abbracciare. Anche con gli affetti Orlando ha un rapporto spiccio, funzionale. All’inizio del film tenta di portarsi in Italia la bambina come se fosse un bagaglio. Non considera affatto che questo si possa rivelare un problema perché Lyse deve fare come dice lui, punto e basta. D’altronde quella è la caratteristica di una generazione che ha vissuto la vita in quel modo.
Tutti i conflitti tra padri e figli raccontati dal nostro cinema, per esempio, ma anche dalla letteratura, negli anni ’50, ’60 e ’70, ruotano attorno a questa inamovibilità del genitore, che è tale perché venuta fuori da una situazione estrema come la guerra. Però è accaduto l’inaspettato: Lyse sorprendentemente vive la condizione della generazione del nonno che aveva la guerra alle spalle. Lyse ce l’ha davanti la guerra; il nonno doveva ricostruire un paese e dare a se stesso una chance di vita: Lyse ha lo stesso problema. Nessuno avrebbe mai immaginato che saremmo tornati a quel punto, perché ci siamo illusi che la società avesse uno sviluppo senza increspature. Al contrario siamo ancora qui a discutere di guerra in Europa, e di guerra atomica. Negli anni è già successo che ragionassimo della guerra, con l’Iraq, la Jugoslavia, l’Afganistan, la Siria, ma mai presupponendo che questa arrivasse dentro casa nostra. Da questo punto di vista la guerra in Jugoslavia, per esempio, non ha spaventato nessuno perché è stata percepita come un conflitto locale non espansibile, anche se vicino, mentre quella in Ucraina ci sta facendo cambiare opinione, diciamo e scriviamo ogni giorno: “siamo in guerra”.
Gli interpreti
L’interpretazione di Michele Placido è straordinaria perché, corrispondendo al carattere del personaggio, riesce a parlarci attraverso il corpo. In assenza delle parole sono le rughe del suo viso, le espressioni del suo volto, la mano tremolante a parlarci di lui. Orlando ci restituisce Michele Placido ai massimi livelli. Era da tempo che non succedeva.
Michele ha dichiarato che la sceneggiatura di Orlando è tra le migliori che gli siano mai state proposte e che se a un attore viene data una bella sceneggiatura lui riesce a interpretare al meglio il personaggio. Con questo vuole dire che se la scrittura è compiuta e matura, un bravo attore è in grado di sfruttarla al meglio. È poi vero che, con me, Michele si è lasciato andare, si è affidato e, così facendo, ha dimostrato innanzitutto un’enorme fiducia e talento. Non è facile a 75 anni “lasciarsi andare”, dopo essere stato interprete per grandissimi maestri e aver diretto come regista film che ci hanno fatto discutere. Michele invece ha capito fino in fondo che cosa stavamo raccontando mettendosi in gioco senza paure. Il tremolio delle mani non è una cosa studiata. È il suo, lo stesso che tu vedi all’inizio del film, quando si accende la prima sigaretta al bar. Michele è un attore che non ha avuto paura di sembrare troppo vecchio, per esempio.
Pensa che è la prima volta che interpreta il ruolo di un nonno in un film.
Anche Angelica Kazankova nella parte di Lyse non è stata da meno.
Queste stesse caratteristiche di totale trasparenza e disponibilità le ho cercate anche in Angelica. Lei non aveva un compito facile perché chiamata a confrontarsi con un mostro della recitazione italiana, ma anche con un personaggio fortissimo. Per questo non ho cercato una bambina istintiva, cosa che normalmente si fa, ma un’attrice di dodici anni, con attitudini attoriali e con una certa freddezza e razionalità. Dal provino in poi la restituzione del personaggio di Lyse è passata attraverso un lavoro di costruzione molto lungo: lei ha studiato per due mesi pattinaggio e poi abbiamo letto e riletto la sceneggiatura.
Da subito Angelica si è confrontata con Michele stabilendo un contatto molto stretto con lui. Angelica è poi entrata nel film senza rimanervi mai fuori. Era con noi sul set anche durante le riprese di Michele. La stessa cosa è successa a Michele e questo secondo me è stato uno dei punti di forza della loro performance.