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Quel che resta del cinema di James Ivory

La Festa del cinema di Roma omaggia il regista americano che in oltre sessant’anni di carriera, con il suo stile impeccabile, ha segnato un immaginario cinematografico

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Il cinema di James Ivory è subito  associato a sofisticati e sontuosi adattamenti di grandi romanzi inglesi come Camera con vista, Casa Howard o Quel che resta del giorno, tanto che i suoi film, tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90, sono diventati una specie di genere a sé, con grandi attori, successo di pubblico, innumerevoli candidature Oscar e premi ovunque.

«I miei film nascono soprattutto dalle emozioni. Se prendo spunto dalla letteratura è perché la letteratura offre storie interessanti e complesse, mai banali»

Gli scrittori più frequentati dal cinema di Ivory sono stati, non a caso, Henry James e Edward M. Forster (tre adattamenti a testa): il primo un americano trasferito in Inghilterra, il secondo un inglese con la passione per l’Italia e, soprattutto, l’India. Due artisti divisi tra due continenti e versati nella sottile analisi psicologica di sensibilità, soprattutto femminili, atrofizzate, prigioniere, e della loro possibilità di liberazione a contatto con esperienze e ambienti radicalmente nuovi. La stessa vita di Ivory è stata così: nasce a Berkeley in California nel 1928, studia all’università prima storia dell’arte e poi cinema, presentando come tesi un documentario su Venezia (1957). Il suo secondo lavoro è ancora un documentario, dedicato alla sua passione per l’India: The Sword and the Flute (1959).

Ivory, sull’onda della nascente controcultura dell’epoca, nel 1960 parte per l’India e sarà per lui la svolta personale e professionale. Nel 1961 incontra Ismail Merchant: è amore a prima vista, una relazione che durerà fino al 2005, anno della morte del suo compagno, produttore di tutti i suoi film. In India incontra anche la scrittrice Ruth Prawer Jhabvala, sceneggiatrice di quasi tutte le opere del regista. Proprio da un romanzo di quest’ultima nasce il primo lungometraggio di Ivory: Il capofamiglia  (1964), cui seguirà Shakespeare Wallah (1965), Soltanto se tu vuoi (1969), Il racconto di Bombay (1970), tutte pellicole incentrate sull’incontro e lo scontro tra la cultura anglosassone (nella sua declinante potenza coloniale, anche culturale) e le permanenti tradizioni indiane.

All’inizio degli anni ’70 si trasferisce a New York insieme a Merchant e Jhabvala e si susseguono le regie di Selvaggi (1972), Autobiografia di una principessa (1975, con James Mason), Party selvaggio (1975, con Raquel Welch) e Roseland (1977), ma è con Gli Europei (1979), dall’omonimo romanzo di H. James, che Ivory trova la sua vena più autentica e di successo, inaugurando una serie di grandi produzioni.

Maurice

Seguono, infatti, Jane Austen a Manhattan (1980, con Anne Baxter, dai romanzi e la vita di J. Austen), Quartet (1981, con Isabelle Adjani e Maggie Smith, dall’omonimo romanzo di Jean Rhys), Calore e polvere (1983, con Julie Christie e Greta Scacchi, dall’omonimo romanzo di R. Jhabvala), I bostoniani (1984, con Vanessa Redgrave e Christopher Reeve, dall’omonimo romanzo di H. James), Camera con vista (1985, con M. Smith e Helena Bonham Carter, dall’omonimo romanzo di E. Forster), Maurice (1987, con Hugh Grant e Ben Kingsley, dall’omonimo romanzo di E. Forster), Schiavi di New York (1989, dall’omonimo romanzo di Tama Janowitz), Mr. & Mrs. Bridge (1990, con Paul Newman e Joanne Woodward, dai romanzi dedicati ognuno a un coniuge di Evan S. Connell), Casa Howard (1992, con V. Redgrave e Anthony Hopkins, dall’omonimo romanzo di E. Forster), Quel che resta del giorno (1993, con A. Hopkins ed Emma Thompson, dall’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro), Jefferson in Paris (1995, con Nick Nolte e G. Scacchi), Survivig Picasso (1996, con A. Hopkins e Julienne Moore, dalla biografia di Arianna Stassinopulos), La figlia di un soldato non piange mai (1998, con Barbara Hershey e Jane Birkin, dall’autobiografia di Kaylie Jones), The Golden Bowl (2001, con Uma Thurman e N. Nolte, dall’omonimo romanzo di H. James), Le Divorce (2003, con Kate Hudson e Naomi Watts, dall’omonimo romanzo di Diane Johnson), La contessa bianca (2005, con Natasha Richardson e Ralph Fiennes, sceneggiatura di K. Ishiguro a partire dal romanzo Diario di un vecchio pazzo di Junichiro Tanizaki), Quella sera dorata (2009, con Charlotte Gainsbourg e Laura Linney, dall’omonimo romanzo di Peter Cameron).

Oggi tutti applaudono l’inconfutabile maestria di un regista novantaquattrenne, ma è facile dimenticare quanto controverse e divisive siano state le sue opere, sia per contenuti (Ivory è sempre stato apertamente omosessuale) sia, paradossalmente ancora di più, per lo stile.

«I miei film in America vengono accolti come cose atterrate da un altro mondo. Vengo spesso scambiato per un regista inglese. È un qui pro quo che non mi disturba. Ma non me lo spiego. Sono americano. Mi sento americano. Ho fatto film sull’Inghilterra,  ma con uno sguardo che voleva essere personale. Ora mi considerano la quintessenza del british».

In Italia la critica lo ha sempre generalmente accusato per «il suo lezioso formalismo e la predilezione per un cinema calligrafico» (Gianni Canova). Curiosamente, però, è stato proprio in Inghilterra, dove Ivory ha ambientato i suoi più grandi successi, tra anni ’80 e inizio ’90, che le critiche sono state più feroci. Il suo era considerato un cinema che sfruttava un’eredità letteraria del recente passato, un’intima forma di nostalgia escapista che indorava tempi trascorsi, ignorando i problemi sociali e la realtà politica del tempo: in quell’era Thatcher, mentre l’Inghilterra bruciava e i minatori erano in sciopero, Ivory presentava Camera con vista, con personaggi dell’alta società in giri vacanzieri per Firenze. Anche la critica accademica si accanì contro uno stile visivo che «presentava cartoline di una Gran Bretagna fatta per attirare turisti americani» (Geoffrey Macnab).

Camera con vista – Film (1985)

In realtà, quelli di Ivory erano anch’essi film a suo modo realisti nel descrivere un sistema di classe, fatto d’ingiustizie e sfruttamenti. Oltre al fatto che non si può identificare tutta l’opera del regista con un pugno di film sulle vite di azzimati e nullafacenti aristocratici dell’era edoardiana, considerando la sua vasta filmografia. È come se la perfezione formale delle sue opere gli si fosse rivoltata contro, mentre, per lui, «questo è ciò che chiamo valore di produzione. Non è assolutamente una preoccupazione morbosa per il dettaglio per il bene del dettaglio», ma perché per Ivory sono i dettagli a fare la differenza, perché solo stringendo al massimo il campo, al microscopio, riesce a cogliere l’essenza di quello che sta raccontando e, senza quel meticoloso approccio formale, i suoi film avrebbero avuto solo una frazione della loro forza.

Perché dietro la quiete e apparentemente immobile perfezione della forma cinematografica (i costumi, le scenografie, la recitazione degli attori) erano brucianti passioni a divampare, non consumate, ma tradotte in sussurri del cuore che maceravano i personaggi dal di dentro, in una dissipazione della vita rappresentata in una fredda messinscena come, supremamente, nel mirabile Quel che resta del giorno. Personaggi spesso incapaci di tuffarsi nel mondo per paura del naufragio, in una società del passato rigidamente bloccata da regole codificate in cui Ivory adombrava sempre la nostra, compreso il tema ricorrente dell’omosessualità. I suoi film, infatti, spesso mettono in discussione la costruzione della mascolinità. «Gli uomini si allenano da soli o, dovrei dire, che ci alleniamo, a non mostrare ciò che sentiamo».

Nel 2021 Ivory ha pubblicato una sorprendente autobiografia, Solid Ivory (Solido avorio, ancora inedita in Italia), curata dallo scrittore P. Cameron. Un libro sfacciatamente esplicito, anche nelle descrizioni della vita sessuale, degli anni dell’università, prima in Oregon, poi in California e del suo rapporto, non solo di lavoro, con Merchant. Ma ci sono ritratti, anche piuttosto impertinenti, di studiose come Pauline Kael e Susan Sontag, attrici come V. Redgrave, registi come Satyajit Ray, Jean Renoir e George Cukor, scrittori come J. D. Salinger (e la sua ossessione di non farsi fotografare in nessuna occasione, neanche tra amici) o Bruce Chatwin (con cui pure Ivory ebbe una breve relazione, senza che ci risparmi i dettagli intimi). Ma le frecciate più velenose sono per R. Welch e Luca Guadagnino, a proposito del quale Ivory racconta la sua versione dei fatti riguardo la lavorazione di Chiamami con il tuo nome (2017): inizialmente lo stesso regista italiano lo aveva invitato a codirigere il film, motivo per cui Ivory s’impegnò a riscrivere completamente la sceneggiatura che gli era stata presentata, tratta dall’omonimo romanzo (del 2007) di André Aciman.

Chiamami col tuo nome

Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino: un’intensa storia d’amore

«Credevo non rendesse giustizia al libro. […] Avevo già fatto un film che un po’ gli assomigliava, Maurice, che avevo anche sceneggiato».

Il nuovo trattamento piacque a tutti, ma poi Ivory fu estromesso dalla lavorazione del film senza una spiegazione, lasciandolo desolato, anche di non poter trascorrere il tempo delle riprese in Italia («un Paese che amo e in cui non sto mai abbastanza»). Pure, per quell’adattamento, Ivory ha vinto l’unico Oscar della sua carriera, dopo varie nomination, diventando, a ottantanove anni, il più anziano vincitore nella storia dell’ambito premio.

Sicuramente ci sono tante vie che conducono alla meraviglia cinematografica: quel che resta del cinema di Ivory è avercela fatta trovare attraverso la letterarietà visiva di camere, finestre, case, cuori palpitanti per amori impronunciati o socialmente impossibili, perché la parte migliore della biografia di un regista non è il catalogo dei suoi film, ma la storia del suo stile.

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