Il regista prende a prestito l’omonimo romanzo di Ermanno Rea per raccontarci il legame che Napoli inevitabilmente, lascia: uno stato emotivo, mentale, che può distorcere, confondere la realtà. Al quale si appartiene e a cui non si può sfuggire. Nostalgia di Mario Martone è ora disponibile su Netflix.
Un film sui luoghi dell’anima.
La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede (Pier Paolo Pasolini)
Felice Lasco (Pierfrancesco Favino) torna a Napoli dopo 40 anni. Lì, nel rione Sanità, ci vive ancora la sua vecchia madre, Teresa (l’empatica Aurora Quattrocchi). Felice si è costruito una vita altrove, in Egitto: è sposato, ha una solida posizione economica, è realizzato. Ma lui appartiene a Napoli, a quel mondo che ha lasciato. Ripercorre quelle strade, quei ricordi che si animano davanti ai suoi occhi, plasticamente. “Non è cambiato niente, tutto sembra uguale a quando l’ho lasciato!”. L’uomo appare incredulo e sorpreso di fronte a questo stato di immutabilità.
Nella sua nostalgia c’è anche Oreste (Tommaso Ragno), l’amico fratello, sempre insieme a combinare guai. Le corse in motocicletta per i vicoli, i furtarelli, fino a quella maledetta sera che ha cambiato il suo destino per sempre. Aveva 15 anni. Oreste è rimasto, è ancora lì. Felice deve assolutamente rivederlo. Ben presto dovrà constatare un’amara verità: Oreste Spasiano è diventato un temutissimo boss: ‘O malomm’. Un uomo di una brutalità spaventosa, senza alcuna pietà per nessuno. Vive come un eremita in un luogo della Sanità che nemmeno si conosce. È il prete del rione sanità, Don Luigi (l’ottimo Francesco Di Leva), a rivelarglielo e a dissuaderlo immediatamente dall’incontrarlo. La chiesa è uno dei ganci che tenta di strappare con tutte le forze Napoli al precipitare completamente nell’abisso. Il rione Sanità vive di vita propria dentro il controllo dei clan, tra vedette, motorini che sfrecciano impavidi e minacciosi, sparatorie improvvise.
Una Napoli senza alibi
Nostalgia ha il merito e la necessità di togliere ogni velo. La città che Martone ci lascia è una città in perenne tensione. Cupa, sporca, fatiscente, in cui i suoi veri ed unici abitanti (quelli dei quartieri del suo cuore fisico) sono completamente assuefatti ed immersi in un esistere che accettano come un destino. La resistenza di coloro che si oppongo a questa necessità è paragonabile ad una trincea. La chiesa di Don Luigi lo è, cuore pulsante di una distrazione, di uno sfogo che impedisce ai ragazzi di restare per strada, di essere avvinghiati dentro una morsa che non dà scampo. I laboratori di musica, lo sport, la scuola si oppongono allo stato di ferinità che aleggia nei vicoli, implacabile: lo spaccio, la delinquenza, la violenza.
La regia mostra quanto Mario Martone conosca bene Napoli fin dalle viscere, il suo inferno. La macchina da presa è mimetizzata in esso, pronta a coglierne ogni anfratto, baratro, ogni sospiro. Nel ventre di un vascio, dove filtra pochissima luce, l’incontro, il ritrovarsi di Felice con la madre è uno dei momenti più toccanti, più spirituali del film. Lo sguardo diventa maggiormente didascalico invece quando emerge e cerca la luce, nel raccontarci questa sacca di coraggio e di intrepidi, capitanati da don Luigi, che va letteralmente ad acchiappare i ragazzi e a controllare le famiglie dentro le case. La sua, e quella di chi combatte, è una vera missione: da Davide contro il suo gigante, da utopia contro la crudelissima e inconfutabile realtà.
In mezzo troviamo la Nostalgia, troviamo Felice. Che non riesce a lasciare Napoli, che da “idiota dostoevskijano” firma subito la carte per l’acquisto di una casa, che compra il biglietto alla moglie egiziana, la quale esclama, entusiasta, alle colleghe di lavoro: “VADO FINALMENTE A NAPOLI!” (di fronte a questa ingenua meraviglia, chi conosce Napoli, chi sa, non può non commuoversi). Che si ostina caparbiamente, prima ad incontrare Oreste, suo fratello nel cuore e per l’eternità, poi a credere che tutto possa restare al suo posto come esattamente lo aveva lasciato 40 anni fa.
Pierfrancesco Favino, e la sua ottima, incredibile interpretazione. Abile in una immedesimazione nel linguaggio, nel corpo, nello stato emotivo. Tommaso Ragno lo eguaglia nel suo opposto incarnando O Malomm: colui che è dentro l’inferno, completamente conscio di una caduta sempre più disperata, sempre più solitaria, sempre più ineluttabile.
Pierfrancesco Favino finalista all’Oscar Europeo come miglior attore per Nostalgia
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