“Roberto Nanni, o di una pratica ostinata, quella di chi non sceglie a-prioristicamente dove o cosa guardare, quella di chi resiste, insofferente allo sviluppo di una trama, sulla soglia – dialetticamente mai completamente risolta – tra suono e immagine.”
Roberto Nanni, o di una pratica ostinata, quella di chi non sceglie a-prioristicamente dove o cosa guardare, quella di chi resiste, insofferente allo sviluppo di una trama, sulla soglia – dialetticamente mai completamente risolta – tra suono e immagine.
Formatosi nel fermento iconoclasta della Bologna ’76-’77, vicino a Gaznevada e Skiantos, al centro cioè di quella cultura punk e surreale rovesciatasi in seguito nella lotta (armata), e poi coltivando per anni un forte legame con le sonorità e lo stile di vita dell’Inghilterra più indipendente e debordante, Nanni è autore quanto mai difficile da collocare in categorie o generi definiti.
La sua filmografia spazia, volontariamente priva di linearità, tra cortometraggi in cui la pellicola, in tutta la sua matericità, si fa veicolo di forme e costruzioni astratte (“Fluxus”; “Lontano, ancora”; “E lei si scordò”), e lavori in cui l’immagine è scomposta e ricomposta in pixel che trasformano il reale in un paesaggio digitale (“Dolce vagare in sacri luoghi selvaggi”; “L’amore vincitore. Conversazione con Derek Jarman”; “Corviale”); dal “quasi” convenzionale documentario sull’anarchico Antonio Ruju (“Antonio Ruju. Vita di un anarchico sardo”, prodotto dalla Sacher) ai lavori con Steven Brown e Tuxedomoon (“Greenhouse Effect. Steven Brown reads John Keats”) sino alle ultime prove, provocatoriamente sporche, a bassa risoluzione e sfuggenti agli standard normali di visione (“Attraverso un vetro sporco”, “Una Fredda giornata”).
Provocatore e polemico con i “giochi di ruolo” che la società impone (indicando ad esempio i registi come soggetti patologici alla ricerca di un ruolo che li legittimi e li qualifichi), Nanni sembra oggi sempre più vicino al Derek Jarman terminale e più radicale, quello da lui stesso intervistato e “video-scomposto” nel ’93. Il Jarman di Blue, l’ultimo film del regista inglese (80 minuti di schermo blu-Klein invasi da suggestioni sonore di diverso genere) e il Jarman che in punto di morte aveva scelto di abbandonare il cinema e iniziare a dipingere, poiché, come lui per primo ammetteva, nella pittura è possibile una regressione che l’industria del cinema nega come altro da sé.
Ricordando come il suo metodo compositivo lasci sempre la precedenza alla partitura sonora e al ritmo che questa sa generare, l’assente eccellente del suo stile di montaggio è l’espediente della dissolvenza, poiché in definitiva non c’è niente da mettere “d’accordo”: un fotogramma si scontra con un altro, e così ogni suono: tra le barricate della percezione s’avanza per alterazioni successive e non consequenziali, nella materia e nella percezione.
Cercando un tratto che unisca le spinte centrifughe dei sui lavori, Nanni stesso parla di realismo soggettivo, citando quanto Francis Bacon disse, a proposito della sua pittura, in un’intervista con David Sylvester: non illustrare, ma interpretare, attraverso una visione soggettiva, la presunta realtà con la quale ci confrontiamo.
Circa 25 anni di ricerca resistente, senza il feticcio della tecnica (molti suoi lavori sono in super8 e il 16mm, ma non mancano prove in video e ora in digitale), e con una galassia eterogenea di punti di riferimento (Frederick Wiseman, i già citati Jarman e Bacon, ma anche John Cage) sono adesso antologizzati in un cofanetto che la Kiwido di Federico Carra ha pubblicato da poco, rivendicando e ribadendo, dopo il dvd dedicato a Rezza/Mastrella, la legittimità (e anche forse la necessità) di un cinema che, al pari della pittura, possa farsi anche non narrativo ma astratto, non figurativo, più attento alle suggestioni della forma e all’impressione della luce sulla pellicola piuttosto che allo srotolamento di una storia.
Salvatore Insana
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