Il Buco è l’opera terza di Michelangelo Frammartino, dopo i successi de Il Dono e Le Quattro Volte (premiato con il Ciak D’Oro, nominato al David di Donatello e acclamato a Cannes), in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.
Il buco La trama
Durante il boom economico degli anni Sessanta, l’edificio più alto d’Europa viene costruito nel prospero Nord Italia. All’altra estremità del paese, un gruppo di giovani speleologi esplora la grotta più profonda d’Europa nell’incontaminato entroterra calabrese. Si raggiunge, per la prima volta, il fondo dell’abisso del Bifurto, a 700 metri di profondità. L’avventura degli intrusi passa inosservata agli abitanti di un piccolo paese vicino, ma non al vecchio pastore dell’altopiano del Pollino, la cui vita solitaria comincia ad intrecciarsi con il viaggio del gruppo.
Il buco La recensione
Dice Michelangelo: “Mi ha sempre colpito la coincidenza che speleologia, cinema e psicoanalisi nascano nella stessa data, il 1895 “. Può partire da qui una lettura del suo terzo film, a distanza di undici anni dal secondo Le Quattro Volte, con questa riflessione che dà una profondità e una dimensione forse inaspettata alla storia, semplice e diretta, dell’esplorazione di alcune grotte scoperte in Calabria alla fine degli anni ’60.
La chiave vincente del suo film precedente era, senza dubbio, il non cadere nell’ingenuità di mettere gli elementi della storia sullo stesso piano, con l’uomo che incorniciava il disegno strutturale, lo apriva e lo chiudeva, e con la ricorrenza di alcuni punti di vista sui luoghi ripresi in modo identico ma in momenti diversi.
La natura fortemente naturalistica dell’autore calabro rimaneva sullo sfondo, favorendo la declinazione di una storia di reincarnazione con l’unione tra la purezza dell’osservazione e i rigori della geometria che favorivano un racconto inusuale, appassionante e appassionato.
Un cinema che sembrava venire da lontano (e da Ermanno Olmi e Franco Piavoli soprattutto) eppure modernissimo, anzi coraggiosissimo in un’epoca dove il formalismo levigato di ogni forma espressiva sembra omologare tutti i generi.
E’ vero, come dice il regista in una delle note del film, che oggi più che mai bisogna riportare l’attenzione degli spettatori sul ruolo (primario) dell’immagine, e che a volte la musica e i dialoghi possono distrarre da questo: ma è anche vero che il cinema è nato come impasto fra immagini e sonoro (testo scritto o recitato), e che allora Il buco diventa un’opera interessante ma più vicina, sul punto di vista teorico e quindi anche critico, alla video-arte e non al Cinema propriamente detto.
Poi certo, l’assonanza tra la roccia e il linguaggio spoglio, le due storie che si intrecciano impercettibilmente, l’osservazione ostinata della natura e della vita; sono tutti elementi che Frammartino padroneggia e interseca in maniera sottile e impercettibile quanto attraente.
Ma di tutta questa ricchezza, Il Buco è fortemente debitore, rimanendo poi in qualche modo un’opera che si accoda in maniera troppo facile a quella che l’ha preceduta: svanita la sorpresa di un cineasta che ha l’intelligenza, la caparbietà e (meglio ripeterlo) il coraggio di essere profondamente fuori dal coro, resta una leziosità di base, nascosta sotto uno sguardo sempre potente, ma questa volta meno sorprendente.
Una storia che si racconta da sé e tira dritta senza pensare alla formulazione canonica della narrazione, ma che si scontra con un eccesso di inevitabile consapevolezza che in qualche modo rende meno immediata la fascinazione.
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