Pier Paolo Paolini, assassinato brutalmente la notte tra il 1 e il 2 novembre del 1975, è stato poeta, romanziere, saggista, regista e sceneggiatore ma anche critico cinematografico. Attività questa meno conosciuta, in ogni modo portata avanti con lucidità e provocazione, tipiche del pensiero pasoliniano.
La critica cinematografica è stata un’attività che Pier Paolo Pasolini ha affrontato diverse volte, nell’arco di quindici anni. Impegno non costante, però, mai superficiale, per nulla artificioso. Come il Pasolini romanziere e il Pasolini regista, anche il Pasolini critico indaga, scandaglia e provoca. Il suo intelletto è capace di individuare delle fragilità in capolavori come La dolce vita.
Pasolini e il cinema
Dopo quasi mezzo secolo dal suo omicidio, Pier Paolo Pasolini è stato oggetto di studio per appassionati di letteratura, teatro e ovviamente cinema. La bibliografia a lui dedicata è davvero sterminata e comprende opere di grande testimonianza storica, culturale e molto altro, come Pasolini: Cronaca giudiziaria, persecuzione morte… a cura di Laura Betti. Diversi, poi, i film dedicati al poeta, Nerolino (1996) di Aurelio Grimaldi e Pasolini (2014) di Abel Ferrara, sono solo due esempi.
Poco approfondita è stata la sua attività di critica cinematografica. Seppur alla settima arte Pier Paolo Pasolini dedicò la terza e ultima parte de Empirismo eretico, da più parte, erroneamente, veniva considerato profano delle tecniche e delle potenzialità del linguaggio cinematografico. Ma ciò può essere facilmente negato rileggendo le sue recensioni.
Pier Paolo Pasolini I film degli altri di Tulio Keizich
Prezioso, per conoscere questa attività meno nota del regista di Accattone, è Pier Paolo Pasolini I film degli altri, un libro a cura di Tulio Keizich. In quest’opera vengono raccolte le recensioni che Pier Paolo Pasolini scrisse fra il 1959 e il 1974. I suoi articoli vennero pubblicati su diverse riviste, Reporter, Tempo illustrato, Vie Nuove e anche Playboy.
Tulio Keizich nell’introduzione alla sua opera, intitolata Sotto la maschera cretina, non dimentica di ricordare come Pier Paolo Pasolini, anche come critico cinematografico, è stato vittima di persecuzione e strumentalizzazione politiche. È il 1994, dopo vent’anni dalla sua morte e un settimanale di destra usciva in edicola, con roboante titolo: “ Pasolini scriveva per il M.S.I.”.
La rivista Reporter
L’intento, ovviamente, era quello di gettare fango sulla memoria del poeta e mettere a disagio il mondo della sinistra. In effetti, lo scrittore de Ragazzi di vita, tra il 1959 e il 1960, pubblicò circa 11 articoli sulle pagine del settimanale Reporter, che riceveva finanziamenti dalla cerchia di Arturo Michelini. Ma Reporter non era certo una rivista estremista e sicuramente diversa da testate come Borghese e Secolo d’Italia.
Pier Paolo Pasolini era consapevole della natura destroide di Reporter e approdò alla sua redazione, per assecondare il suo gusto di affiancarsi con i miscredenti. Per tutta la vita Pier Paolo Pasolini ha sempre sorpreso l’opinione pubblica. Le sue posizioni sono sempre state scomode e mai scontate, basti pensare alla poesia Il Pci ai giovani.
L’anno del “Generale della Rovere”
È sulle pagine di Reporter che il poeta pubblica un interessante e non banale articolo intitolato L’anno del “Generale della Rovere”. Il film di Roberto Rossellini riscosse un grande successo e si aggiudicò il Leone d’oro a Venezia, ma il critico Pasolini ebbe qualche remora.
Pur considerando Roberto Rossellini un grande regista, Pier Paolo Pasolini reputava la sua arte frammentaria. Roma città aperta, Paisà e Francesco, giullare di Dio, film molto amati dallo scrittore di Casarsa, rivelano la natura frammentaria del loro autore.
Lo stile e la sua forza espressiva sono dettati da un talento quasi magico, ma ciò non basta per costruire un’opera. Pier Paolo Pasolini accusa Rossellini di non possedere una struttura solidamente culturale, la sua anima individuale ne è, per natura, priva. E Il generale della Rovere, pur avendo dei meriti, secondo Pasolini era stata un’operazione convenzionale, nel suo antifascismo era percepibile qualcosa di vecchio.
La dolce vita è un film cattolico
La dolce vita (1960) di Federico Fellini, oggi, è considerato un capolavoro indiscusso. Il film ebbe un grande successo in Italia e all’estero. Nel nostro paese suscitò un ricco dibattito non sempre favorevole. L’Osservatore Romano attaccò ferocemente l’opera di Federico Fellini e anche alcuni intellettuali di sinistra non furono generosi.
Pier Paolo Pasolini dedica al film un lunghissimo articolo, che assomiglia molto ad un vero saggio. Dopo aver descritto le funzioni e le caratteristiche della critica cinematografica, Pier Paolo Pasolini si cimenta in un azzardato paragone tra Federico Fellini e Carlo Emilio Gadda. Lo stile dei due autori, con le dovute differenze, viene associato al decadentismo europeo.
Sebbene non all’altezza di Charlie Chaplin, di Sergej Eisenstein, o di Kenji Mizoguchi, Federico Fellini era molto apprezzato da Pier Paolo Pasolini. Al regista riminese veniva attribuita la totale paternità artistica de La dolce vita. In quest’opera era percepibile solo lui come autore.
Ma il critico Pasolini non si limita a riconoscere la forza autoriale di Federico Fellini e definisce anche la sua posizione politica. Con una certa cautela, si può avanzare l’ipotesi che Pasolini consideri il regista de La dolce vita una sorta di conservatore. Di fatti egli sembra accettare le istituzioni, lo Stato e la Chiesa non vengono mai, o quasi, messe in discussione.
Pier Paolo Pasolini giunge alla conclusione, che La dolce vita è un film cattolico. Ciò è talmente lampante, che solo i clerico-fascisti e i moralisti capitalisti, possono essere così ciechi da non vederlo. Il film, secondo Pasolini, è il più alto e il più assoluto prodotto del cattolicesimo. Il mondo e la società si presentano come dati eterni e immodificabili.
Con questo Pier Paolo Pasolini non condanna il film, bensì ammette di aver provato una profonda emozione. Loda Federico Fellini per essere riuscito a vedere purezza e vitalismo anche nella massa piccolo-borghese in una Roma arrivista e fascista.
Lo stile di Pietro Germi
Il Pasolini critico è molto severo nei confronti di un buon regista nostrano come Pietro Germi. Per l’autore de Divorzio all’italiana (1961), Pier Paolo Pasolini scomoda addirittura Freud, definendolo sostanzialmente un maschilista. Per buona parte nei film di Pietro Germi si respira un’aria da doccia di palestra, di caserma, o per intenderci da bottega di barbiere. Le donne in questi luoghi non entrano, sono escluse.
Questo sodalizio maschile si attua in un clima popolaresco, o piccolo borghese e sano. Nel cinema di Pietro Germi tutto ciò che non è sano viene eliminato. Pier Paolo Pasolini individua la spia di tutto questo nella sequenza girata nell’osteria in Un maledetto imbroglio (1959) dove uno “strano” commendatore non beve. Tanto che l’Ingravallo-Germi, quando gli dà la mano, ha l’impressione di ritirarla sporca. Quel commendatore è il simbolo di tutto ciò che non è sano, normale, morale.
Un’altra caratteristica del cinema di Pietro Germi, individuata da Pier Paolo Pasolini è la tendenza di affidare tutto al sentimento. Ma ovviamente si tratta di un sentimento edificato su la morale normale e corrente. La morale di Pietro Germi, però, non è tanto normale. In lui è visibile una profonda ferita, una esaltazione non arginata della propria personalità.
Pier Paolo Pasolini continua ad essere severo nei confronti del regista ligure, definendo un film come Il ferroviere (1956) un’opera grossolana, retorica e conformista. Con L’uomo di paglia (1958) va un po’ meglio, ma comunque viene considerato un film che poggia sul mito della salute, del sentimentalismo e della moralità puritana.
Effetto notte
L’attività di critica cinematografica di Pier Paolo Pasolini non si esaurisce con il cinema italiano. Risale all’autunno del 1974 un’acuta riflessione su Effetto notte (1973) di Francois Truffaut. Il critico Pasolini ritiene che il film sia stato pensato, scritto e girato per il montaggio. È questa una caratteristica delle pellicole commerciali, soprattutto americane.
Il regista in questi casi era un semplice esecutore e una volta terminato il suo lavoro, lasciava campo libero al montatore. È ciò che avviene a Francois Truffaut in Effetto notte. Secondo Pier Paolo Pasolini, in questo modo, il regista francese subisce una specie di degradazione e la sua opera diviene oggettiva.
Nello sceneggiare la storia, o meglio la doppia storia, il regista è stato costretto a calcolare le regole del ritmo, la vera essenza di Effetto notte. È il ritmo che determina la psicologia dei personaggi e la loro storia. Ciò rende il film molto elegante.
Pier Paolo Pasolini, semplificando e generalizzando forse un po’, giunge alla conclusione che la pellicola rappresenta il bekground della grande cultura francese. Francois Truffaut se ne fa ancora una volta campione.
La grande abbuffata, Amarcord e A qualcuno piace caldo
Nel corso della sua vita, Pier Paolo Pasolini ha firmato tante altre recensioni molto interessante e sarebbe davvero arduo menzionarle tutte. In ogni modo merita di essere accennato il suo giudizio su La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri. Di questo film il Pasolini critico apprezzava, sopra ogni cosa, i quattro brevi prologhi. Considerati come brevi ritratti eseguiti da un pittore,molto simili alla pittura di Masaccio, Caravaggio e ai disegni di Courbet.
Amarcord (1973) di Federico Fellini è un altro film recensito da Pier Paolo Pasolini. In questo caso viene sottolinea l’apporto creativo dello sceneggiatore Tonino Guerra, tanto da sostenere che il titolo più esatto sarebbe stato Asarcurdem (Noi ci ricordiamo).
Pier Paolo Pasolini rivolge una severa stroncatura nei confronti di A qualcuno piace caldo (1959) di Billy Wilder. Sebbene venga apprezzata Marilyn Monroe, Pasolini giudica il film approssimativo e deprimente.