Lahi, Hayop di Lav Diaz, la bestialità umana secondo il regista filippino #Venezia77
Nella sezione Orizzonti ecco Lahi, Hayop di Lav Diaz, dove il navigato regista filippino spinge i protagonisti allo stadio bestiale, in una terra ostile e segnata dalla maledizione
Arriva alla Mostra del Cinema di Venezia Lahi, Hayop di Lav Diaz, l’ultima produzione sine olivia pilipinas, del famoso regista filippino, che con la Biennale ha un rapporto longevo e proficuo. Lahi, Hayop ha tempi più “popolari” di altri suoi film presentati in passato, specialmente dei tre che hanno avuto fortuna nelle precedenti edizioni della Mostra del Cinema: Death in the Land of Encantos(2007), menzione speciale a Orizzonti; Melancholia(2008), vincitore di Orizzonti; The Woman Who Left(2016), sentito Leone d’Oro ed importantissimo premio per il regista asiatico. Lahi, Hayop continua la riflessione sui risvolti più ferini della natura umana, che perde la sua caratteristica posizione evolutiva sull’animale, e si barbarizza fino al ripudio.
Lahi, Hayop di Lav Diaz, la trama
I vecchi amici Sir Paolo e Sir Baldo accompagnano Andres, di ritorno al proprio villaggio nel lungo tragitto attraverso la pericolosissima Hugaw Island. In quest’isola non c’è legge né giustizia, un Sergente e un Capitano decidono chi deve sopravvivere e chi morire. Le condizioni di lavoro sono spietate, e il popolo sopravvive nella sofferenza. Andres vuole scappare dalla miniera e rientrare dalla sorella che necessita di cure straordinarie. Nel viaggio di ritorno, si racconta di questa isola maledetta che unisce un dramma storico (le comfort ladies ovunque sfruttate dall’esercito giapponese in conquista), allo scandalo moderno (le miniere, le condizioni dei lavoratori, la corruzione), ad una atmosfera sospesa che richiama un mistero senza tempo.
Quando il viaggio finisce, solo Andres è sopravvissuto: il dramma diventa sempre più fitto e il regista maneggia magistralmente le elissi nel tempo per svelare a poco a poco dolorosi segreti. Omicidi taciuti e omertà si ripetono, fino a quando la maledizione del cavallo nero tocca tutti e annienta tutti i personaggi conosciuti.
Stile inconfondibile e linguaggio lento e riflessivo
Per guardare un film di Lav Diaz è necessario, oltre ad una disponibilità di tempo adeguata, spogliarsi delle strutture occidentali. Le sue storie si allargano, impastando nella trama particolari che in una sceneggiatura commerciale, sarebbero ben più che insignificanti, addirittura fuorvianti. I suoi mondi si destrutturano e si ricompongono attorno a divagazioni millimetriche, per poi rientrare a contatto con le tragedie dei protagonisti. Si riavverte quella sofferenza che aveva colpito nel precedente The Woman Who Left, quella impossibilità di risolvere i torti, di ricucire le ferite, di avere giustizia da un mondo impietoso fino al midollo. C’è una pesante dolenza nelle storie, che pur vengono raccontate con una elevata narrazione, e il rispetto dell’orribile che si mostra all’obiettivo.
Lahi, Hayop di Lav Diaz sistema le persone dentro quadri ben strutturati, dai confini netti, che raccolgono la natura paradisiaca filippina, sebbene il luogo sia qui più un non-luogo che la sua terra natia. Un ambiente che puntualmente, come da suo stile, Diaz decide di “oscurare” preferendo il bianco e nero al rigoglio verdeggiante.
Lì dentro, lui piazza i suoi personaggi, come elementi di una still life, narratori in figura intera di cui si arriva a desiderare un primo piano, mai concesso.
La teatralità quasi immobile delle scene costruite da Diaz
Il confine tra teatro e cinema è molto sottile. Le figure si spostano orizzontalmente senza favorire dei vantaggi della lente cinematografica, con una fissità del punto di vista che ricorda unicamente il palcoscenico teatrale. Diaz fa suo questo linguaggio, ma lo scontro con la libertà della natura e dei confini indotti non è sempre facile da sostenere. Il momento drammatico, lo scambio esilarante, la suspense, la rivelazione, avviene tutto alla stessa distanza focale. Il pubblico sembra piuttosto stare dietro ad un vetro, ad osservare degli animali allo zoo. E in un certo senso, in un lungo filo conduttore che unisce tutti gli indizi disseminati, questo è: un esperimento sociale, dove l’essere umano perde la sua umanità (l’essere caritatevole, magnanimo, altruista, gentile, scompare) ed è spinto allo stadio dell’individualismo bestiale. Come uno scimpanzé.
“Ho sempre desiderato realizzare un film sugli animali. In realtà sull’uomo come animale, l’uomo che si comporta autenticamente come un animale, così come ha fatto, comunque, per tutta la sua vita.”
Dopo un’ora finalmente abbiamo il primo plot point narrativo. E tutta questa base solida di back story, con miti leggende dicerie vicende, che interessano i tre protagonisti e descrivono la disperata fuga di ognuno, potrebbe anche non esistere. O appartenere ad un altro film. Se non ci fosse stata raccontata, avremmo comunque provato pietà per Andres o timore del cavallo nero, segno di una maledizione.
Mentre ad un’ora e quaranta, il primo film avrebbe già potuto congedarsi. Invece prosegue. Fino ad una sfacciatissima macchina a mano, sul finale, come se l’instabilità appartenesse alla verità.
L’esperimento sociale ha il suo incontrovertibile risultato: il cervello da scimpanzé è contagioso e anche chi sa pensare, smette di farlo quando l’ambiente lo costringe alla brutalità. Nessuno si salva, solo i despoti e i mecenati che impugnano il coltello.
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