Approda al Sentiero Film Factory il pluripremiato cortometraggio filippino della giovane regista Sam Manacsa, ma l’avevamo già visto all”80 Mostra del Cinema di venezia nel 2023. Cross My Heart and Hope To Die ha infatti al suo attivo la partecipazione a numerosissimi festival e stupisce per la varietà di generi capace di attraversare.
Il breve film è uno spaccato della vita delle donne filippine nel loro paese: vita impiegatizia, povertà, mancanza di tutele, sfruttamento del lavoro. Vite ai margini vissute in luoghi lontani più che nello spazio, nello standard abitativo ed estetico dell’Occidente con il quale, bene o male, siamo obbligati a paragonare ogni realtà che vediamo, specialmente attraverso il cinema. Eppure una nota romantica risuona nella disperata vita di Mila..
Linguaggio audiovisivo
Cross My Heart and Hope To Die mostra senza dubbio una estetica autoriale già consolidata da parte della pur giovane regista Sam Manacsa che in questo lavoro ricopre anche il ruolo di sceneggiatrice.
L’incidente scatenante si manifesta in un anonimo locale, probabilmente il piano superiore del luogo insalubre dove Mila lavora.
Un ripiano fissato male al soffitto di compensato raccoglie pacchi trasparenti d’ogni misura. Tra buste e pacchi risuona il traffico cittadino dietro l’esile parete di un edificio costruito con materiali scadenti. Il personaggio di Mila sembra a disagio, non sa bene cosa fare, finché svuota una busta, si siede, e ci infila dentro la testa. Il manifesto del film riprende in modo significativo questo breve frammento, aggiungendo il braccio che stringe la cornetta del telefono analogico.
L’insano gesto viene però subito sventato da un inatteso avventore. Mila è imbarazzata, forse non sarebbe andata fino in fondo, ma qualcuno ha visto il suo maldestro tentativo fallito… cosa succederà?
La narrazione in Cross My Heart and Hope To Die ha un forte impatto naturalistico, pur nella semplice e squallida vita abitata dalla protagonista. Le inquadrature fisse, grandangolari, lunghe, mostrano una prospettiva quasi documentaria in cui l’azione sembra av-venire per caso di fronte agli occhi dello spettatore che resta invitato a indagare il quadro a suo piacimento. D’altro canto il ritmo lento fa emergere dettagli curiosi che trascinano via ogni aspettativa d’azione, quella che in un noir classico sembra sempre sul punto di accadere e che qui avviene senza preparazione narrativa, in modo del tutto tranchant. Non c’è suspence dunque, quanto piuttosto l’ineluttabile destino di chi non ha spazio per scegliere, né di stupirsi.
Il fuori campo ha un ruolo decisivo, sia nella presenza-assenza del Boss con cui Mila non riesce mai a parlare per chiedere il saldo dello stipendio, sia attraverso la voce off dell’interlocutore telefonico che vedremo solo sotto finale, di spalle.
Infine la location. Gli unici due spazi in cui si svolge la vicenda sono il luogo di lavoro di Mila, questo logoro ufficio dove sembra passare la maggior parte della vita, e un ristorante poco lontano, dove aspetterà invano il misterioso uomo del telefono. Spazi angusti, claustrofobici, asfittici, quasi teatrali, capaci di rendere mostruosi i gesti umani, anche quelli più semplici, snaturandoli. Lo spazio scenico è rappresentazione filmica dello stato d’animo della protagonista che esprime paura, desolazione e una silenziosa, inerme, disperazione.
Lo squallore come cifra stilistica
Interessante osservare il cambio di passo di una rappresentazione del reale che spesso, quando giunge dal cinema asiatico, non edulcora nulla, non lascia spazio all’immaginazione ma propone la desolazione come chiave di lettura della realtà.
La realtà che appare davanti agli occhi di questi giovani cineasti e che intendono rappresentare, è lo specchio di un vissuto, di un comune sentire, ma anche della volontà di imprimere un chiaro segno distintivo a un cinema dal forte segno identitario.
Lo sguardo di Cross My Heart and Hope To Die l’abbiamo visto in alcuni film dell’Asian Film Festival 2024 al Cinema Farnese di Roma, come nel malesiano Oasis Of Now, di Chia Chee Sum. Drammi individuali svuotati di dettagli psicologi e snodi narrativi (come siamo abituati dal cinema mainstream), drammi che potremmo definire paradossalmente “impersonali”. Mancano qui legami chiari tra cause ed effetti. La tragedia singola, individuale, si fa dunque subito metafora di una angoscia collettiva. Senso di crisi, di angoscia, di solitudine, di morte: dalla quotidianità di Mila affiora la condizione di una civiltà al tramonto. E cos’è questa se non un’estetica decadente?
Un senso di desolante abbandono e tristezza. Un ufficio contabile sordido, scrivanie disseminate di sudiciume, due impiegate che si ritagliano la pausa pranzo sedute per terra in uno sgabuzzino. E poi d’un tratto una chiamata al telefono. Un uomo che vuole insistentemente parlare con il boss. Ma il boss non c’è. Il boss non può. E così la telefonata si ripete ed è sempre Mila a rispondere, la relazione si intesse goccia a goccia, a monosillabi, ma lei cerca di sfuggire alla tentazione di voler conoscere chi si trova dall’altra parte del filo. La circostanza si crea, ma non si realizza. E così l’aridità d’affetti, di rapporti umani, si consuma nel non visto, un interlocutore invisibile anche allo spettatore cui resta il tempo di constatarne le cattive intenzioni.
Sembra davvero che la bellezza e la felicità non abitino più a Manila.
Note sulla giovane regista Sam Manacsa
Sam Manacsa ha lavorato come Art Director in altri film, come ad esempio in Whether the Weather Is Fine del giovane e prolifico autore filippino Carlo Francisco Manatad. Il suo cortometraggio, If People Such as We Cease to Exist (2016), è stato selezionato al Clermont-Ferrand Short Film Competition. Il suo primo lungometraggio, The Void Is Immense on Idle Hours, è attualmente in fase di sviluppo.