Camilleri senza Montalbano, come Simenon senza Maigret
La concessione del telefono di Roan Johson è il terzo film tratto dai libri di Camilleri che non seguono il filone del commissario, forse i suoi più belli. Un po’ come accadeva a Simenon, le cui storie senza Maigret, che lui chiamava romanzi-romanzi, sono sicuramente più coinvolgenti dal punto di vista letterario. Trame che non inseguono intrecci particolari, ma svolte dell’anima: “Mi fa male vedere la vita di un uomo prendere all’improvviso una svolta pericolosa, come se un sasso lo facesse inciampare quando meno se lo aspetta!”. Il personaggio è l’uomo nudo, verso il quale provare compassione, identica a quella che sente lo stesso Maigret. Però, quando si sospendono i meccanismi narrativi del giallo, l’attenzione si fa puramente psicologica e i romanzi ne guadagnano in spessore.
Anche per Camilleri è un po’ così, con in più la critica sociale feroce resa tra sarcasmo e paradosso, gag, fraintendimenti, equivoci, ripicche e paranoie. Un quadro umano sconfortante, soprattutto ne La concessione del telefono (1998), romanzo lieve, solo in superficie.
Il protagonista, un uomo senza qualità, vittima e colpevole nello stesso tempo
Al centro della vicenda, come per Simenon, un uomo nudo; ma qui proprio un uomo del tutto privo di qualità. Pippo Genuardi (Alessio Vassallo) è un piccolo commerciante di legname che vive alle spalle del suocero, Nenè Schilirò (Antonio Alveario). Fimminaro, per usare un termine cui la serie di Montalbano ci ha abituati con Mimì Augello, ruolo che Vassallo ha fatto suo quando era, ne Il giovane Montalbano, il giovane Augello. E che, con quella faccia un po’ così, tra l’altro, gli è venuto davvero bene.
Film e romanzo iniziano con le tre lettere che Genuardi invia al prefetto, Marascianno (Corrado Guzzanti, al meglio delle sue divertite interpretazioni), chiedendo appunto la concessione del telefono. Su questa richiesta s’intestardisce oltre misura (anche noi, lettori e spettatori, solo alla fine capiremo il perché). Per la moglie Taninè trattasi di diavoleria, tanto più che mal gliene incolse, al povero marito, il quale tanto innocente non è. Gioca sempre un doppio ruolo nei confronti del potere: furbastro e sprovveduto nello stesso tempo, vittima e delatore. Svenevole verso il mafioso locale, Don Lollò (Fabrizio Bentivoglio, già visto nella sua perfetta versione siciliana, in un episodio di Montalbano), a cui svende senza ritegno il suo migliore amico, Sasà (Corrado Fortuna). E insieme, oppresso dalla burocrazia, che lo trasforma addirittura in un sovversivo. Proprio lui, che idee politiche zero, impegno sociale men che meno.
C’era una volta Vigata nasce da fatti realmente accaduti
“Quale onesto cittadino potrebbe mai volere una linea telefonica!”, sostiene il prefetto, completamente fuori di testa già di suo. Da questa incontrovertibile certezza, inizia la persecuzione di Pippo Genuardi. L’unico personaggio pacato è il questore venuto dal Nord, Monterchi (Tomas Trabacchi), estraneo e incredulo davanti agli assurdi maneggi locali; quasi un testimone, ma interno alla storia, a dirci che l’incubo rappresentato non è pura immaginazione. D’altra parte le storie di C’era una volta Vigata, che insieme a questa comprendono anche La mossa del cavallo (di Gianluca Tavarelli, 2018) e La stagione della caccia (di Roan Johnson, 2019), nascono sempre da fatti realmente accaduti, e poi amplificati dalla fantasia e dall’umorismo di Camilleri.
Toni e ritmo brillanti, location affascinanti
Il film per la tv La concessione del telefono ha ritmo e toni brillanti, impegnativi all’inizio, perché dobbiamo orientarci in un esordio che vuole, in una lingua siciliana rétro, essere fedele al libro, mentre le missive si susseguono e i personaggi ci si presentano. Ma quando li conosciamo meglio, via via che la trama si dipana, il coinvolgimento è assicurato.
Affascina fin da subito il contesto delle scene, quella bellissima piazza di Ispica, con il loggiato del Sinatra, già ampiamente sfruttata tra i luoghi di Montalbano. Ispica è la location che Pietro Germi scelse per il suo Divorzio all’italiana (1961), ma vide anche una scena di De Sica nel suo film Il viaggio (1974) e anche dei fratelli Taviani per Kaos (1984). La luminosa piazza di Santa Maria Maggiore, con il suo loggiato, diventa luogo della vivace vita cittadina ottocentesca. Dal passeggio, ai pettegolezzi, agli incontri tra uno spaventato Pippo Genuardi e l’imperturbabile Don Lollò.
Personaggi privi di riscatto
Gli interni sono invece sempre un po’ bui, soprattutto quelli degli uffici, in cui si consumano le tresche ai danni del malcapitato Genuardi, la tragedia ridicola di un uomo ridicolo, senza riscatto, né suo né degli altri personaggi. Tanto che mentre sorridiamo, non possiamo non avvertire che tutti sono, chi più, chi meno, colpevoli. I drammi sono alleggeriti dalla farsa, e pensiamo che Camilleri si sia divertito durante l’adattamento del suo libro, insieme al regista Johnson e a Francesco Bruni.
Bruni è lo sceneggiatore degli episodi di Montalbano, de Il Giovane Montalbano e di C’era una volta a Vigata. Come regista, ha esordito con Scialla e ora, insieme ad altri autori, aspettava l’uscita a marzo del suo ultimo film. Ironia del destino è intitolato proprio Andrà tutto bene. Niente a che vedere con il virus: una storia comunque di speranza, alla quale facciamo i nostri auguri, che seguiremo volentieri quando uscirà il film e quando noi usciremo da questo brutto, bruttissimo sogno.