(Allerta Spoiler: chi non ha ancora visto per intero la puntata 1×08 di Watchmen sappia che l’articolo contiene accenni al suo svolgimento e al suo finale)
Parliamo di WATCHMEN la serie.
Imparare dai propri errori.
È quello che sembra aver fatto Damon Lindelof, artefice di un serial che ha cambiato la concezione stessa del termine (Lost, e quale sennò?) ma che sul finale ha stentato nell’impresa di raccogliere tutti i pezzi di un mosaico forse bigger than life -letteralmente- risultando alla fine affascinante ma non perfetto.
DAMON LINDELOF SFIDA ALAN MOORE
Ha fatto tesoro dell’insegnamento: ha allora prima sfornato quel gioiello emotivo che è stato The Leftovers, tre stagioni con una scrittura che sapeva fermarsi un attimo prima del pianto e che toccava corde talmente profonde da risultare quasi incomprensibili dalla nostra parte conscia, poi si è portato dietro quel fenomeno di Regina King e ha deciso di provare l’impossibile, ovvero ridurre in una serie tv il seguito (inesistente) del leggendario romanzo grafico Watchmen, di Alan Moore e Dave Gibbons.
Si può essere piuttosto sicuri che se Moore volesse ancora avere a che fare con le sue creazioni (il genio di Northmapton si è dissociato, da diverso tempo, da tutte le sue creature a fumetti, al punto di non comparire nei crediti della serie di Lindelof ma neanche più nelle ristampe delle sue opere, dove spesso viene nominato come Lo Scrittore Originale), approverebbe questo Watchmen: e non solo perché è indubbiamente e incontrovertibilmente una delle serie più importanti e belle del decennio che sta finendo, ma anche e soprattutto perché ha saputo -e qua il terreno era ancora più insidioso- ricreare il mood della storia originale, riprenderne i temi e aggiornarli, riprendere i personaggi e ribaltarli.
Insomma, la serie di Lindelof ha fatto quello che ogni riduzione letteraria dovrebbe fare: ridurre senza snaturare, riprodurre senza copiare, continuare nel solco senza sbracare.
WATCHMEN la serie.
GLI EPISODI di WATCHMEN
La struttura generale è praticamente perfetta: l’impianto narrativo è un arco che compie il suo percorso in maniera naturale, impercettibile eppure inesorabile. Inizia quasi in medias res, con quel primo episodio che dà l’impressione di trovarsi in un qualunque cinecomics pieno di costumi sgargianti e avvitamenti della trama su sé stessa.
Dal secondo episodio in poi (Prodezze Marziali Dei Guerrieri Comanche A Cavallo) era però evidente la voglia di andare oltre: partire dalle trame di Watchmen, anzi meglio dalle sue suggestioni e dalle sue ispirazioni, per portare tutto alle estreme conseguenze e ricreare un universo coerente con sé stesso ma ancora più ampio.
Arrivando fino al 1×07, This Extraordinary Being: probabilmente, una delle cose più belle che vedremo in tv come sul grande schermo, un discorso concettuale portato a compimento in maniera magnifica, un’operazione coraggiosa che dietro un prevedibile complesso di reverenza verso un moloch come i 12 episodi a fumetti di Moore nascondeva (ma solo per un poco) un desiderio e una volontà di destrutturazione e revisionismo.
THIS EXTRAORDINARY BEING E LE MUSICHE DI TRENT RAZNOR
(passando per un piccolo inciso sulle musiche di Trent Raznor, che non fanno che dimostrare quando il giusto accompagnamento sonoro sia fondamentale per la completezza di un’opera)
This Extraordinary Being opera una decostruzione sublime delle consuete tecniche narrative -televisive ma dell’audiovisivo in generale- utilizzando la decostruzione del mito supereroico propria di Watchmen, e insieme porta avanti quel parallelismo suggerito fin dalla prima puntata tra il superuomo tipo (Clark Kent, Superman) e Mosè, innestando un discorso mai banale sul geniale parallelismo sottinteso tra la nascita del vigilantismo e quella degli stessi Stati Uniti, senza perdere l’occasione di ricordare che il primo superessere era straniero figlio di immigrati.
Un discorso teoretico vertiginoso e incredibilmente affascinante, che va insieme all’evoluzione delle tecniche narrative che giocano con piano-sequenza e flusso di coscienza, catturando letteralmente l’attenzione dello spettatore che si ritrova completamente immerso nella storia.
A GOD WALKS INTO A BAR
La conferma che Watchmen altro non sia che un esperimento televisivo transmediale e filologico tra i più raffinati, certosini e riusciti mai visti sul piccolo (o grande) schermo, arriva poi l’episodio 1×08, A God Walks Into A Bar.
Nomen omen: già nel titolo c’è un inside joke -con il nome della protagonista, Angela Abar, e il titolo A Bar– che riecheggia un gioco di specchi labirintico: confermato dalla presenza in scena, o quasi, del Dottor Manhattan, che aveva aleggiato letteralmente sulla storia fin dall’inizio, che aveva anzi intriso la storia di lui senza che neanche noi ce ne accorgessimo, e che adesso con soluzioni della macchina da presa arzigogolate e raffinatissime continua ad esserci eppure non esserci, non mostrando mai il suo volto a fuoco o in primo piano ma sempre attraverso un filtro.
IL NUCLEO EMOTIVO DI WATCHMEN
Oltretutto, Lindelof si riallaccia e cita a sé stesso: se prima parlavamo di Lost come di una pietra angolare della narrazione non si diceva a caso.
Nell’episodio 4×05, The Constant, Desmond è un personaggio la cui coscienza viene continuamente sbalzata in avanti e indietro nel tempo, e capisce che la sua unica salvezza è un ancora, una costante, e che non può che essere l’Amore.
Un concetto poetico e altissimo ma nello stesso tempo complesso e straordinario, che Lindelof riprende mentre con il suo Watchmen gioca con l’idea, la manipola, la utilizza per giustificare logicamente eventi straordinari: e allora se This Extraordinay Being era un salto nel passato, A God Walks Into a Bar è un salto nel futuro che crea un ponte per un momento presente eterno.
Ed ecco che allora tutto il nucleo emotivo di Watchmen viene fuori con prepotenza e con un’intensità da lasciare senza parole: l’unico vincolo che lega l’uomo alla sua umanità non può che essere l’Amore, l’unica certezza che ci resta nel caos che frulla il tempo è l’Amore. Destabilizzante, immenso, simbolo di speranza e di distruzione, unico modo per dare vita all’eterno.
WATCHMEN UN SERIAL CHE FARA’ LA STORIA
Rivelazioni e allegorie metanarrative: se in Lost erano un laboratorio, in Watchmen prendono vita e lo fanno nel modo più elegante, raffinato e bello possibile. E allo stesso tempo, doloroso.
Continuando a far correre in parallelo la storia e il suo significato, Lindelof rende l’essenza di un dio (perché è questo che è Dottor Manhattan) triste e dolorosa: e insieme, grazie al’ancora di salvezza che è l’Amore, bellissima e piena di speranza.
Ma ogni storia d’amore, anzi, ogni storia, finisce in tragedia: e se la speranza è l’ultima a morire, fino all’ultimo lo spettatore si aggrappa al lieto fine a cui con cui è stato sempre viziato, ma si sapeva che sarebbe. Nonostante tutto, abbiamo sperato.
Nonostante tutto, abbiamo affrontato il viaggio. Ci siamo lasciati andare, perché c’era qualcuno o qualcosa che amavamo, quante volte lo abbiamo fatto? La grandezza di Watchmen sta tutta nella risposta.
GianLorenzo Franzì