Venezia 76: Fellini Fine Mai. Intervista al regista Eugenio Cappuccio
Regista de Il caricatore, Volevo solo dormirle addosso, Uno su due e Se sei così ti dico sì, Eugenio Cappuccio ha iniziato la propria carriera sotto la felice guida di Federico Fellini, di cui fu assistente alla regia in Ginger e Fred, e con cui condivise una preziosa amicizia. Il suo film, Fellini Fine Mai, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, è un prezioso e necessario omaggio al grande regista riminese. Lo abbiamo intervistato
All’inizio del film, affermi che Fellini Fine Mai ti è stato commissionato. Si potrebbe partire da qui per raccontare la genesi e la gestazione di questo affascinante lavoro.
Rai Teche, che è uno degli artefici principali del progetto, si è messa in movimento per produrlo. Sotto la guida di Maria Pia Ammirati, Rai Teche ha fatto un grande salto di qualità, laddove da mero archivio è diventata una vera e propria factory produttiva, riuscendo felicemente a rendere risorsa un nostro importante giacimento culturale. Anche Rai Cinema ha dato un importante contributo nella produzione del film. D’altronde, un quattordicenne di oggi non ha idea di chi sia Federico Fellini (e tanti altri personaggi significativi della vita culturale e artistica del nostro paese): è un quadro davvero angosciante, contro cui si deve intervenire cercando i tutti i modi di conservare la memoria attraverso il dovere della testimonianza.
All’ideazione e al soggetto di Fellini Fine Mai ha partecipato anche Mario Sesti (di cui ricordiamo il bel L’ultima sequenza, in cui veniva mostrato il meraviglioso finale alternativo di 8½), che tra l’altro fornisce anche una propria testimonianza diretta, apparendo nel film. Potresti dire qualcosa sulla vostra collaborazione?
Mario, oltre a essere un grande amico, è un bravissimo regista e un ottimo documentarista, è un visionario. Ci conosciamo da quando feci il mio primo film, Il caricatore. Mario lo finanziò e Gianluca Arcopinto fu il produttore esecutivo. Abbiamo una grande affinità da sempre.
Sergio Rubini (protagonista di Intervista, 1987) e lo stesso Sesti, durante i loro interventi nel tuo film, sottolineano l’importanza della circostanza che Fellini fosse “un poeta di provincia”, non per sminuirlo, chiaramente, ma per meglio mettere a fuoco la sua cifra stilistica, la sua tendenza a produrre immagini fantasmagoriche, come se queste fossero il frutto dell’incontro tra il piccolo mondo di provenienza del regista (Rimini) e l’imponenza della città eterna.
La dimensione provinciale era ancora operativa ai tempi di Fellini, senz’altro; oggi il nuovo, il meraviglioso, lo straniante sono concetti che sono purtroppo evaporati. Prima della fine della guerra, l’incontro che Fellini ebbe con Roma fu un detonare psichico notevole, ma la stessa cosa si verificò anche con altri grandi, se pensi a Michelangelo Antonioni o a Bernardo Bertolucci, ma anche lo stesso Pier Paolo Pasolini, che proveniva dalla piccola realtà friulana di Casarsa. Roma fu un universo da raccontare, un mondo all’interno e sullo sfondo del quale dare corpo a nuovi immaginari cinematografici. Per Fellini, poi, andare a Roma costituì la fuga da una condizione, che, tra l’altro, descrisse piuttosto fedelmente ne I vitelloni con il personaggio di Moraldo interpretato da Franco Interlenghi.
Di Fellini Fine Mai piace in particolare il fatto che tu abbia messo in relazione Fellini e il “mistero” – mi riferisco all’approfondimento bello e inedito che hai offerto su Viaggio a Tulum, l’altro grande film mancato, dopo Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet – laddove, probabilmente, era proprio in esso che era contenuto l’imponente arsenale visivo cui diede corpo.
Si, senz’altro. Infatti, al di là della meraviglia provata dal giovane provinciale trapiantato nella capitale, Fellini, evidentemente, possedeva già un mondo interiore ricchissimo, che cercava solo l’occasione opportuna per essere espresso. Era capace di trasfigurare la realtà, di sezionarla, di andarle dentro con una sensibilità impareggiabile, dando corpo a qualcosa che eccedeva la rappresentazione, laddove la selva di sottotesti e significanti liberata era davvero infinita. Fellini, si direbbe oggi, aveva uno sguardo in grado di produrre una “realtà aumentata”; vedeva con un occhio interiore, attraverso cui la realtà entrava in connessione con il suo magma emotivo, incontro dal quale scaturivano immagini potenti e avvolgenti. Aveva anche una grande capacità di ascolto, sapeva stare in silenzio a lungo, il che gli consentiva di mettersi profondamente in contatto con il mondo che lo circondava. Poi, è noto che la grande conoscenza della psicanalisi lo aveva senza dubbio facilitato nello scandagliare il proprio animo, anche se, in alcune fasi della sua vita, ciò gli provocò anche momenti non poco dolorosi. È un uomo che non si è risparmiato, non evitava la grande parata che è la vita, si immergeva in essa, infatti ci ha lasciati anche abbastanza presto, a settantatré anni. Come i grandi pittori dell’Espressionismo. Ma non era un eccessivo, anzi, parafrasando il cliché tipico, si potrebbe dire che era “genio e regolatezza”, ma in un’ottica da artista rinascimentale che lega il proprio modo di vivere alla sua bottega interiore. Stare intorno a lui era come essere accolti nella bottega di un grandissimo artista. La grande lezione che io ho avuto da Fellini è stata quella di relativizzare la mia visione delle cose, laddove il suo sguardo era capace di liberare mondi che io neanche avrei potuto sospettare.
Potremmo ora scendere un po’ più nel dettaglio e parlare di ciò che costituisce il cuore del tuo film, ovvero quel capitolo magico, esoterico e misterioso che fu l’avventura di Viaggio a Tulum.
Ero diventato grande amico dello scrittore Andrea De Carlo, che seguì Fellini nel suo viaggio in Messico alla ricerca dello scrittore-sciamano Carlos Castaneda. De Carlo poi scrisse Yucatan, un libro in cui veniva riferita proprio quella esperienza, mentre Fellini pubblicò sul Corriere della Sera il suo resoconto in sei puntate, con le belle illustrazioni dell’amico e disegnatore Milo Manara. Poi, il rapporto tra i due s’interruppe e Vincenzo Mollica (che appare in Fellini Fine Mai, ndr) con grande discrezione, seppur a conoscenza dei fatti, ha ritenuto opportuno evitare di fornire dettagli sulla vicenda, che considerava privata, da non dare in pasto alla smania dei curiosi. Tra l’altro, sono immensamente grato a Mollica, senza il cui supporto non avrei potuto realizzare Fellini Fine Mai. Mollica, davvero, è una fonte enorme e preziosa di tutto ciò che concerne Federico Fellini. Infatti, Federico, che lo frequentò assiduamente, volle che Manara lo inserisse nella storia animata come uno dei personaggi del viaggio. Non sapremo mai, probabilmente, se i misteriosi episodi riferiti da Fellini siano veri o frutto della sua portentosa fantasia. Nella seconda ipotesi, comunque, sarebbe una circostanza altrettanto interessante e iperbolica (ride, ndr).
Arrivati a questo punto, potremmo chiudere partendo dall’inizio: tu cominci il tuo documentario riferendo uno dei motti più noti di Federico Fellini, ovvero “l’unico realista è il visionario”.
Questa è un frase che calzava a pennello a Federico, anche se probabilmente non era sua, ma lui se ne appropriò e fece bene, perché davvero ne sintetizzava magnificamente lo spirito. D’altronde, Fellini era come un grande pittore, tant’è vero che spesso sognava Picasso, che invidiava per l’intensa attività amatoria (ride, ndr) e per la capacità di produrre disegni e bozzetti che venivano pagati a peso d’oro (ride, ndr). Fellini vedeva Picasso come il suo omologo nell’arte figurativa. Tra l’altro, lo disegnava spesso, con la maglietta a righe, vestito da marinaretto.
Un’ultima cosa: Fellini Fine Mai si conclude sul set de La voce della luna, che fu l’ultimo film di Fellini. Un film che è un po’ il suo addio, o forse il suo arrivederci.
Si, tra l’altro – ti svelo un segreto – in Fellini Fine Mai è mostrata l’ultima sequenza cinematografica (escludendo gli spot che girò successivamente) diretta da Fellini. Quella in cui si vede la luna mentre viene raggiunta da un colpo di pistola. Un’immagine poeticissima e piena di malinconia che annuncia, forse, la fine di un modo di essere nel mondo.
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