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Conversation

Il pianeta in mare. Intervista con Andrea Segre

"Il documentario cinematograficamente più narrativo che abbia mai fatto. Ha una gestione dei protagonisti più simile a quella degli attori. La contaminazione tra i due generi è continua". Così Andrea Segre in un passaggio della conversazione a proposito del suo nuovo lavoro (Fuori concorso a Venezia 76), dedicato a Marghera e al suo polo industriale

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Il pianeta in mare continua a fare ciò che hai sempre fatto, e cioè a far vedere (e dare voce a) spazi e persone dimenticate. Una condizione che in questo caso non riguarda solo i migranti ma anche noi italiani.

Racconto di un mondo ormai indissolubilmente composto da italiani e non italiani. È un territorio ricco di tante vite, tanti luoghi e tante diversità che fanno parte di uno spazio che mi è sembrato essere stato in qualche modo rimosso. Questi luoghi hanno prodotto ferite ed errori e a un certo punto abbiamo deciso di smettere di parlarne, come se improvvisamente non esistessero più. Quando io ho detto “Voglio fare un film su Marghera”  tutti mi hanno detto “Ma perché, esiste ancora?” e ho risposto che, sì, non solo esiste ancora, ma produce economia, benzina, plastica, navi, ferro per tutto il nord est italiano e per tutta l’Europa. Si tratta di una potenza economica enorme in cui  lavorano 20.000 persone provenienti da 67 paesi del mondo. È incredibile che non sappiamo cosa siano questi luoghi. Dentro a questo mondo dimenticato ma ancora pieno troviamo il pianeta mondo, non solo il pianeta Marghera. D’altronde questa è la realtà del nostro tempo.

Infatti, mentre vedevo il film ho pensato a Sinecdoche, New York, in riferimento al fatto che Marghera è una particolarità del tutto. I termini con cui parli del rimosso sono gli stessi che sperimentiamo nelle nostre città, in cui molte esistenze vengono cancellate pur continuando a esserci. Il Pianeta in mare diventa una metafora del nostro modo di vivere.

È lo strano dialogo tra la superficie virtuale e quella reale. Ora io ti ho chiamato volentieri ma ero stanco, era da un’ora e mezza che avrei voluto smettere di avere il cellulare in mano per continuare il libro che non riesco a finire. Sappiamo bene che la dimensione virtuale occupa uno spazio molto importante della nostra vita. Questa viene guidata da meccanismi di attenzione pubblica che fanno scomparire i parametri reali. Nel mondo virtuale, per esempio, all’improvviso non esistono più i saldatori. Me ne sono reso conto quando mi è capitato di entrare nel ventre delle navi in costruzione e ho realizzato che dentro di me, nella mia esperienza, immaginavo che quel mondo fosse finito, pensavo non ci fossero più saldatori in quanto sostituiti dai robot o da programmatori digitali, e che tutto funzionasse per miracolo. Non ci avevo mai pensato. L’impatto di come funzionano le attenzioni pubbliche mediatiche nella vita reale ci porta a far scomparire alcune cose, che invece sono essenziali per la nostra vita e pure nelle vite delle persone che vi sono collegate. Le città non sono più piene di lavoratori, di gente che fa un lavoro materiale ma, al contrario, di individui e delle loro immagini. Nei fatti, invece, sono strapiene di lavoratori che conducono questo tipo di esistenza. Per cui ho detto “Beh, fatemi entrare dentro questa realtà perché io possa vederla, toccarla, incontrarla e respirarla, sentire come la pensa”. D’altronde, il cinema fa questo.

Mi ricollego alla tua domanda per parlare del piano visivo del Pianeta in mare. Guardando il film ci si stupisce della contiguità tra passato e presente che si riscontra sul terreno e che tu riproduci nel montaggio delle immagini.

Si, ho tentato di usare l’archivio in maniera subliminale. Non c’è un archivio che ti spiega la storia di quel posto, e se  pure ci fosse non fornirebbe informazioni sul passato ma, al contrario, creerebbe un link con qualcosa che pensavamo non esserci mai stato. Invece, poi, scopriamo che esiste ancora, magari con un’altra faccia, altre forme o dimensioni, ma che è densissimo di valore esistenziale e cinematografico. Ho voluto lavorare con questi pezzi di memoria. L’ho fatto anche in altri film. È bello lavorare con gli archivi perché ti aiuta a creare dei ponti non tanto con l’immagine in sé ma con la memoria di quell’immagine. Quando vediamo gli operai che entrano nella fabbrica o che manifestano con la maschera antigas, ecco, queste immagini attivano le sinapsi della nostra memoria che ci fanno dire: “Ah sì, questa cosa me la ricordavo, lo sapevo, ma dove l’avevo messa?”. Si tratta di interazioni che si incontrano con la realtà e che mi piacciono. È un bel materiale su cui lavorare a livello estetico, ovviamente, ma anche a livello semantico.

Infatti nelle immagini la dialettica tra passato e presente in realtà riguarda anche i contenuti. Spesso, parlando, i personaggi dicono: “Un tempo si faceva così, oggi si fa in questa maniera”. D’altro canto sempre questa dialettica, come per magia, riesce anche a essere manifestazione del futuro.

Sì, ecco, sono contento se lo scrivi e soprattutto che tu l’abbia detto, perché è quello che penso anche io. Ripeto, è per me è molto bello che tu abbia formulato questo pensiero.

È quello che mi ha provocato il film.

È un film girato nel presente, montato con il passato, ma che parla solo del futuro.

Lo trovo straordinario. Ti volevo chiedere di parlarmene.

Credo che il grande protagonista di questa rimozione coincida – come spesso per i grandi protagonisti delle narrazioni –  con gli assenti, perché in realtà sono quelli che non ci sono ad attirare l’attenzione. L’elemento centrale di questa narrazione, fatta di un presente rimosso e di un passato dimenticato, è l’assenza di una riflessione sul futuro. Che cosa possiamo pensare di fare di un luogo che non sapevamo esistesse? Nulla. Che cosa vogliamo fare di un porto globale che si trova a Venezia ma che oramai è in mano quasi interamente a gruppi economici orientali? Che cosa vogliamo fare di un cantiere navale dove ci sono 5000 persone di 67 paesi diversi, che ci lavorano tutti i giorni? Vogliamo costruire un dialogo con questa realtà, con queste persone o continuare a pensare che sia inevitabile che ci sia uno scontro etnico tra di loro? Che cosa vogliamo fare di ettari e ettari di petrolchimico svuotati, smontati e dove da vent’anni è in corso la bonifica e la demolizione? E poi, che cosa ne faremo? Che cosa vogliamo fare della vita del giovane Mattia, operaio che lavora in un impianto di fracking senza sapere se questo andrà avanti o meno? Come possiamo porci delle domande del genere se continuiamo a rimuovere questo presente? Eppure si tratta di problematiche gigantesche, e dunque di interrogativi da sistema paese, da sistema mondo, insomma, globali e relativi alla vita e al valore che gli assegniamo. Per questo nel trailer abbiamo voluto chiudere con una delle canzoni cantate nel karaoke e che avrebbe potuto essere un altro titolo del film; parlo di “Se bruciasse la città”. Se ci ponessimo una domanda del genere ci sarebbe molto da riflettere. Se bruciasse la città  come faremmo? Sta di fatto che, non accorgendoci di tutto ciò, non ci si pone alcuna domanda e si rimane a vivere nella città. Ecco, la canzone in questione, insieme al gruppo di persone di una certa età dentro la trattoria e, per contro, all’esterno, il pianeta che si estende intorno a loro, è uno dei momenti chiave del film.

A proposito di karaoke e di canzoni importati, nel film c’è anche “E dimmi che non vuoi morire” di Patty Pravo, un altro brano da te utilizzato nella scena conclusiva. Oltre a essere bellissimo, mi sembra aggiunga senso a ciò che abbiamo visto.

Devo dire che alcune scene sono completamente improvvisate. Nella scena in questione non è Viola a cantare e nemmeno Patty Pravo. In realtà, chi lo sta facendo è una terza donna che rimane fuori campo. Intanto, queste sono situazioni che la realtà di rado ti riesce a dare. E poi la canzone che dice “Sono da sola ormai…” sottolinea il momento di malinconia di una donna che vorrebbe poter continuare a essere un perno di vita per tutte quelle altre persone. Perché a lei piace tantissimo lavorare nella trattoria, però fa fatica ed è stanca di stare dietro a quel mondo che va disgregandosi. E quindi lei dice: “Eravamo, però io continuo a stare qua, la vita se vuoi te la do io, se tu hai voglia”. La canzone di Patty Pravo è meravigliosa con quel mix di nostalgia ed energia. Anche questa è tutta incentrata sul passato e sul presente, parlando al contempo del futuro.

Parliamo dell’immagine bellissima con cui apri il film. Si tratta di un campo lungo in cui la sagoma di una gondola che procede lungo il canale permette di apprezzare sullo sfondo l’architettura del petrolchimico. Anche qui, il rapporto tra passato e presente è evidente e secondo me l’insieme di poesia e malinconia che da essa si ricava stabilisce il tono dell’intero film.

Sul tono sono d’accordo con te. La gondola è un retaggio del passato, ma anche del presente, è uno dei tre oggetti che attirano il mondo a Venezia, insieme a San Marco e Rialto. Per cui le persone che remano si stanno allenando a gestire un oggetto del passato in un presente in cui è importante averlo, e dietro hai quel pezzo che è anche passato e presente. Allora la domanda vera che sta in mezzo a loro è: “Che cosa facciamo insieme domani?”. E come sottofondo c’è una canzone popolare bellissima del Seicento che parla di questo vagabondare nella laguna, e di quest’uomo che da Chioggia passa per Marghera e arriva fino a Venezia. Anche il suo vagare è alla ricerca di un domani; lui si muove lentamente nei luoghi della laguna cercando di capire cosa succederà, ma non smette di muoversi. Insieme, tutti loro danno vita a un dialogo per me importante e che ovviamente è quello per cui adoro il documentario. È che sono cose che ti accadono realmente. Io non ho messo lì quella gondola, ma è arrivata casualmente e ha fatto quella danza stranissima. Forse fare un documentario significa proprio questo. Stare in un luogo finché esso non ti restituisce dei significati che non avevi capito prima. Ma ci devi stare tanto.

Su quale base avviene la scelta di girare un documentario invece che un film di finzione?

Quando giro film di finzione mi manca da morire il documentario e quando mi trovo a fare quest’ultimo mi manca da morire il primo (ride, ndr): ci sono delle cose di entrambi che mi mancano quando faccio l’uno o l’altro. La scrittura, la sceneggiatura e il lavoro con l’attore sono cose che ho scoperto piacermi molto. Il poter chiedere a una persona, sai quelle frasi che dicono sempre i registi: “Fai così, però mettici un po’ più di calore”, è un gioco che mi piace tanto. Così come scrivere e studiare. Queste sono due cose che nel documentario non fai perché scrivi dopo e, per esempio, non chiedi a un saldatore di metterci più calore nel fare il suo mestiere (ride, ndr). Però quando faccio un documentario mi manca non poterlo fare, mentre nel cinema di finzione a mancarmi è la spontaneità. Credo che siano due esperienze complementari che interagiscono una contro l’altra. Il pianeta in mare per me è il documentario cinematograficamente più narrativo che abbia mai fatto. Ha una gestione dei protagonisti più simile a quella degli attori. Dunque, la contaminazione tra i due generi è continua. In realtà per me è soprattutto una questione esistenziale. Finisco di stare in un set ingombrante come quello de L’ordine delle cose con duecento comparse, una troupe da sessanta elementi e varie ricostruzioni di ambienti, e mi ritrovo con una voglia matta di starmene cinque mesi da solo, io, il mio tecnico e il fonico, in uno spazio reale. E poi dopo mi viene voglia di ripartire con una cosa più complessa. Una genera la voglia dell’altra.

Conosco ZaLab perché avevo già fatto una lunga intervista a Daniele Gaglianone sul suo ultimo film. Anche questo documentario ha lo stesso produttore. Mi sembra che sia un interlocutore in grado di abbracciare e condividere il tuo modo di essere.

ZaLab è una sfida culturale. È un laboratorio che contiene tante direzioni di sperimentazione del rapporto tra cinema e realtà. Facciamo laboratori, produciamo documentari, distribuiamo cinema indipendente e, soprattutto, anche lì stiamo nei territori di mezzo, quelli che si contaminano uno con l’altro. Perché facciamo sia i produttori che i distributori? Perché in questo modo comprendiamo entrambi i mondi. Perché si fanno sia i laboratori di formazione che di produzione? Perché questi sono mondi che si contaminano e producono poi una forza e un’energia maggiori, spesso capaci di non replicare dei format. Noi siamo convinti che ZaLab possa continuare a crescere. Il mondo di oggi ti chiede invece di aderire a un format. Se fai le cose per bene e produci un format per la televisione o per un circuito commerciale questo funziona. Infatti, ci sono persone che sanno fare queste cose davvero molto bene. Noi, invece, siamo sempre alla ricerca di modi per contaminare i format. Questo è un laboratorio che ci piace e che funziona. Sai perché va bene? Perché alla fine c’è tanta gente che vuol vedere film, e che vuole partecipare ai laboratori. Il film di Daniele ha avuto una cosa come 400 proiezioni.

Per concludere ti volevo anche chiedere qual è il cinema che ti piace, ma anche anche quello che ti ispira.

L’autore che amo di più in assoluto, perché stressa questo mio rapporto con la realtà, che continuo ad avere perché, comunque, il mio è un cinema legato al dialogo con realtà, è Aki  Kaurismaki, che parla delle realtà prendendola in giro. Se mi voglio veramente divertire, guardo un suo film. Di lui mi piace la capacità di essere implausibile, di parlare di mondi che non esistono, che di per sé è una vera e propria arte. Il suo è un cinema che mi rilassa rispetto alla responsabilità che abbiamo nei confronti della realtà quando facciamo il nostro cinema. Poi, ovviamente, mi piace anche il cinema del reale, da Rosi a Daniele Pini. Ma se devo farmi davvero stupire dal cinema preferisco andare nella direzione di cui parlavo.

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  • Anno: 2019
  • Durata: 92'
  • Distribuzione: ZaLab
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Andrea Segre