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Conversation

Io sono Sofia: conversazione con la regista del film Silvia Luzi

Presentato su Rai3 e al Biografilm Festival di Bologna in occasione dei 50 anni dai Moti di Stonewall e dei 25 anni dal primo Pride di Roma, Io sono Sofia racconta la storia vera di Sofia, 28 anni, una donna nata maschio. Del film abbiamo parlato con la regista Silvia Luzi

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Di Io sono Sofia firmi la regia senza Luca Bellino con cui avevi realizzato Il cratere.

Io sono Sofia nasce come prodotto televisivo destinato all’Italia, così come  al mercato internazionale, perché la casa di produzione e di distribuzione (GA&A Productions, ndr) lavora anche fuori dai nostri confini. Sono stata chiamata da Gioia (Avantaggiato, ndr), dunque si trattava di un lavoro su commissione, estraneo alle mie ricerche e peraltro arrivatomi mentre stavo preparando il mio secondo film. Quando mi è stato raccontato di cosa trattava e la storia che c’era dietro, ho sentito il dovere di farlo. Gioia voleva una regia femminile, nel senso che riteneva fosse più adatta al tema in questione e, siccome si trattava di un prodotto che andava in una direzione diversa rispetto ai miei precedenti lavori, dirigerlo da sola mi è sembrata una conseguenza naturale. Altro è il secondo film che sto preparando, fatto insieme a Luca (Bellino, ndr), peraltro presente anche qui come direttore della fotografia.

Nella sequenza introduttiva lo stile onirico delle immagini e la voce fuori campo precedono la presentazione del personaggio quasi a dirci che a contare non è l’aspetto di Sofia ma l’equilibrio interiore, l’essenza e il  suo modo di sentire.

Certo, è tutto giocato un po’ su questo doppio registro: quello intimo, basato sul dialogo interiore di Sofia e l’altro, rivolto a chi la guarda ma soprattutto a chi l’ascolta e cioè la famiglia, le persone, la società. Quindi si, la sequenza è ovviamente importante perché ci dice fin dall’inizio che non siamo di fronte all’esotico o al trans da talk show televisivo. Questa roba qui va cancellata e sostituita da un’intimità, un’interiorità e un pensiero che talvolta si fa anche incubo perché dietro una transizione c’è sempre estrema sofferenza. Che sia accettata o meno, che sia ostacolata o meno, c’è sempre molto travaglio, se non altro fino alla presa di coscienza, e spesso anche dopo. Era dunque chiaro che il momento interiore era fondamentale e doveva figurare a guisa di incipit.

Tu parli di incubo e giustamente poiché la voce della coscienza di Sofia ha un timbro meno dolce di quanto lo sia il suo. In certi passaggi diventa finanche aggressivo.

Sicuro. C’è tutta la prima parte dell’incubo in cui a un certo punto una voce con tono più basso del normale chiama Edoardo. Con esso volevo rappresentare la classica fase in cui ogni persona in fase di transizione vuole cancellare il passato, compreso il proprio nome di battesimo.

Come se fosse un avversario o un vero e proprio antagonista.

O, se non altro una cosa passata di cui non bisogna più parlare. Tra l’altro, si tratta della cosa più difficile da fare accettare in società ma soprattutto alle famiglie.

In generale, i primi piani di Sofia prevalgono in maniera netta rispetto ai totali che la riguardano. A parte la valenza psicologica, questo va in direzione di quello che stavi appena dicendo, e cioè toglie alla questione di Sofia la dimensione voyeuristica che il più delle volte inquina il nocciolo della questione.

Assolutamente. Per noi cancellare tutta la curiosità morbosa che c’è sempre quando si parla di transizioni è stata una scelta prioritaria. Considera che a un certo punto lei racconta di come la domanda più frequente che le viene rivolta sia quella di sapere cos’ha tra le gambe, e non è un caso. L’insistere sul volto e sul mezzo busto, lo stare molto vicini a lei è stato fatto di proposito. Protagonista del film è una testa pensante, con la propria interiorità e con una storia da raccontare: la morbosità voyeuristica non interessava a noi ne al nostro pubblico.

Tra l’altro, Sofia ad un certo punto afferma di essere disgustata dal proprio fisico e, dunque, anche questo rimanda alla sottrazione del corpo dalla vista degli altri. È anche questa la ragione della forza che ha la sequenza della festa di compleanno in cui per la prima volta la vediamo per intero mentre balla insieme a una sua amica. In un certo senso, è come se festeggiasse la ritrovata armonia con il proprio aspetto esteriore, oltreché la sua rinascita.

Si. È il compleanno di Sofia e non più di Edoardo. Si tratta di un momento che arriva dopo il coming out e una fase di transizione quasi totalmente compiuta, per cui i totali sono messi in coincidenza della scena di ballo in cui ci si libera un po’ dal peso che c’è stato. E fa lo stesso se quel compleanno è triste perché non è arrivato nessuno. Di fatto, esso stesso è figlio di una condizione di solitudine che caratterizza queste persone, destinate il più delle volte a rimanere sole. Spesso gli individui che gli sono più vicini disertano gli incontri, spesso non hanno una cerchia di persone che li sostiene nella loro scelta. Il ballo testimonia la volontà di continuare sulla propria strada, nonostante tutto. Ai genitori e a chi l’ascolta Sofia dice “Io continuo”. L’apertura dell’obiettivo esalta l’esplosione di gioia legata a quel preciso momento.

Se autodeterminazione significa conquista di uno spazio non solo interiore ma anche fisico mi pare che il film ne dia testimonianza proprio attraverso la dialettica tra monologo interiore e scene di vita quotidiana.

Certo, si, assolutamente. L’autodeterminazione per tutte le persone in transizione è fondamentale. Equivale a dire, “Io sono qui, mi riconosco adesso, quindi devi riconoscermi per forza anche tu, volente o nolente”. Da qui i due registri: quello più intimo, basato sul dialogo interiore di Sofia, di cui fa parte anche l’invettiva, perché il vittimismo non porta da nessuna parte, e questo le persone in transizione lo sanno perfettamente. Parliamo di una guerra combattuta per anni e ancora non completamente vinta perché siamo ben lontani dal vedere pienamente riconosciuti i diritti di queste persone; c’è poi spazio anche per il documentario più classico, volto a inquadrare questo corpo che si sta auto determinando nel contesto sociale e nella famiglia. Il suo uso mi permetteva di mostrare il modo con cui l’autodeterminazione si scontra con la realtà.

Anche le caratteristiche della fotografia rispecchiano il tono del film perché, più che celebrare la morte di Edoardo, si parla della nascita di Sofia. Da qui la scelta dei colori che – rispetto alla protagonista che sta per accedere a nuova vita – risultano accoglienti ma con tonalità meno accese del normale, come a voler dare modo agli occhi della “nascitura” di adattarvisi con gradualità. Non c’è dramma nella colorazione del film. 

È chiaro che la figura di Edoardo e soprattutto la sua “morte” appartenevano a un passato antecedente al momento in cui sono entrata a fare parte del progetto, nel senso che quando mi sono approcciata a questo tipo di lavoro Edoardo già non c’era più. Quindi di lui non ci interessava più nulla ed è per questo che non celebriamo la morte di nessuno; semplicemente non ne parliamo perché non interessa più a lei. Come a tutte le persone in transizione, a Sofia non interessa più quel nome, non a caso nel film viene sussurrato soltanto due volte, all’inizio, e poi mai più considerato. Edoardo viene mostrato solo nelle immagini d’archivio, perché quelle sono il passato che nel film torna due volte.

Del corpus visivo entrano a far parte i filmini amatoriali girati dai genitori quando Edoardo non era ancora Sofia. Questo da una parte permette allo spettatore di toccare con mano quanto sia forte quel ricordo nell’ambito famigliare, dall’altra ti permette di rendere al meglio la difficoltà di distaccarsene quando verrà il momento di farlo.

Certo, mostrare come era prima Sofia sarebbe stato banale e poco interessante. Diverso invece era rappresentarne l’immaginario perché ognuno ne ha uno. I suoi famigliari hanno vissuto con un corpo, una voce e un modo di essere completamente diversi da quelli di Sofia. Sono quelli entrati a far parte del loro archivio visivo, che a un certo punto deve essere cancellato. Quindi non solo i filmini ma anche le foto, non a caso messe in uno scatolone e portate in soffitta.

Nel documentario adotti alcuni espedienti del cinema di finzione. Mi pare che questo ti consenta di fare una cosa altrimenti impossibile da ottenere, che è quella di raccontare la storia dall’interno, restituendo in diretta il percorso interiore della protagonista.

È proprio così, poi, sai, sulla purezza del documentario staremmo a discutere per 150 anni,  però, di certo, la verità quando viene aiutata è più vera ancora. L’espediente narrativo ti aiuta a far arrivare meglio il messaggio, a fare empatizzare lo spettatore. È chiaro che è un documentario molto scritto, non posso nascondermi dietro un dito, tutti i mie doc lo sono: Della guerra è un documentario molto scritto, ma veramente scritto, con tanto di sceneggiatura.

Infatti, nonostante nasca come un lavoro su commissione, la tua firma è riconoscibile.

Si, poi è chiaro che ogni autore ha una propria cifra che spinge per entrare e ogni prodotto ha una destinazione. Questo ne aveva una, quindi la mia cifra si è dovuta adattare. Sia io che Luca, in camera, siamo riconoscibili.

A proposito di questa dialettica tra interno e esterno, tra interiorità e scene di vita quotidiana: in una delle sequenze clou c’è una vera e propria chiamata a raccolta dei vari elementi del film, ivi compresi i personaggi, presenti in toto al Gay Pride romano. La sequenza è costruita sostituendo al sonoro originale dell’evento una colonna sonora il cui scopo mi pare sia quello di interiorizzare l’intero contesto.

Si, lì è quello che dice prima, è il cambio di registro, era chiaro che lasciando i rumori naturali del Gay Pride si rimaneva nella realtà, invece così abbiamo voluto dare un significato altro – non più alto, perché naturalmente non abbiamo alzato quello del Gay Pride che di per se è già altissimo -; semplicemente ci sono tutti gli elementi che abbiamo visto durante il film: una donna che cammina da sola e c’è un incontro con i genitori, c’è un’invettiva politica di Lilith Primavera che avevamo già incontrato, ci sono i ragazzi che avevano partecipato alla campagna fotografica Weigh your Words e, alla fine, ci sono i genitori. La scelta di virare tutto in un momento se vogliamo intimo, è stato assolutamente naturale perché si, c’erano i tamburi, c’erano i canti, i balli ma, soprattutto, la trasformazione di un personaggio, l’incontro con tutti gli altri e la pacificazione con la famiglia.

Rispetto alla solitudine di Sofia il film riesce a farci sentire quanto sia importante l’azione svolta da quella sorta di famiglia acquisita, costituita dalle varie associazioni che compaiono nel corso della storia e a cui la ragazza si rivolge.

Quella è stata una cosa che ho voluto fortemente, perché ovviamente prima di accettare mi sono documentata su questo mondo, ho parlato con moltissime persone e quello di cui mi sono resa conto è questa famiglia, che non è quella di origine ma quella che tu ti scegli – lo dice anche Sofia -, ed è giusto perché la famiglia non è per forza quella biologica, e dunque la comunità LGBTQPA, attraverso l’incredibile lavoro svolto da questi attivisti, diventa fondamentale nella vita delle persone in transizione. Da qui la volontà di mostrarli nella scena del karaoke, nel servizio fotografico e nel Gay Pride, tutti momenti in cui la famiglia si stringe intorno e ti protegge, rendendo un po’ meno difficile una vita molto complicata. Se non ci fossero attivisti come Porpora Marcasciano, storica presidente del MIT (Movimento Identità Transessuale), che interviene a una trasmissione radiofonica, se non esistessero attivisti come Lilith Primavera e associazioni come la GEDO che fanno tutto questo, le persone come Sofia rimarrebbero sole e senza alcun appoggio. Durante le mie ricerche ho incontrato persone sole e disperate.

Di questo movimentismo si sente spesso parlare per le sue istanze militanti ma tu fai arrivare in maniera altrettanto forte la sua funzione psicologica, che per Sofia costituisce una pausa dalla solitudine.

Si, esattamente una pausa. Poi, ti dico, ogni volta che uno fa un documentario deve sempre scegliere da che parte stare, è una cosa che devi fare per forza. Io l’ho fatto, quindi tutta la parte che critica questo mondo, che lo contesta e che non lo riconosce per me non ha diritto ad avere voce, quindi non l’ho messa proprio. Non interessa a me come autrice; potrà interessare altri ma io ho dato voce a coloro che la sostengono, a chi per questi diritti lotta. Il punto di vista della parte opposta rimane fuori. E commuove perché è vero che è cosi, e chi non lo vuole vedere è cieco.

Un mondo, quello di cui parliamo, di cui fanno parte due personaggi mitici: Porpora Marcasciano e Lilith Primavera. Entrambi compaiono nel film.

Lilith è un’artista, un’attivista che si mette in gioco con la sua voce, con il suo corpo, con la sua presenza, sempre e comunque, per ribadire il suo punto di vista. Decidere di girare in questo karaoke che viene fatto ogni domenica è stato un atto politico e non soltanto un momento di gioia; tra l’altro è aperto anche a membri esterni alla comunità LGBTQPA, quindi non è una cosa ghettizzante. In questo contesto, Lilith mi è sembrata la persona più adatta per far passare il messaggio in modo lieve come lei sa fare. È un’attivista molto forte, seguita e considerata. Altra persona che sono felice di aver inserito è appunto Porpora Marcasciano. Lei ha fatto la storia dei diritti delle persone transessuali, è l’attivista per antonomasia, rappresenta la storia del movimento transessuale italiano attraverso una lotta che continuata da trentanni e che nessuno è ancora riuscita a fermare.  Se non ci fosse stata lei oggi non saremmo qui a parlare di molte cose. L’intervento di Porpora, pur se in radio, è stato un messaggio personalissimo che ho voluto mandare. Nelle sue parole trova voce l’aspetto politico di un film in cui non parliamo solo di canzoni, di intimità, di famiglie. Io sono Sofia è una storia intima, ma poi il problema è politico. Trattandosi di un prodotto destinato alla televisione ho fatto emergere questo aspetto con molto garbo.

Prima di concludere, vorrei che mi dicessi qualcosa di Lilith Primavera, che come altri compare nel corso del film e in qualche modo si prende cura di Sofia. Mi pare che la sua determinazione combinata alla morbidezza dei suoi modi si addicano alla perfezione all’atmosfera del film.

Si, ma ti ripeto, l’idea fondamentale era quella di cancellare tutto l’esotico che c’è nella visione del transessuale, cancellarne la versione da talk show. Secondo me Lilith con il suo corpo, con il suo modo di agire, con il suo attivismo, rappresenta un modo per eliminare tutto questo. È una persona molto lieve che fa attivismo senza andare troppo sopra le righe quando parla di certe problematiche. Tra l’altro è molto preparata, e quindi si, rispecchia un po’ il tono di tutto il documentario, che aveva tra le sue missioni quella di non trasformare tutto in un grande carnevale.

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  • Anno: 2019
  • Durata: 83'
  • Distribuzione: GA&A Productions
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Silvia Luzi