Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria, della Queer Palm e del Premio FIPRESCI al Festival di Cannes, 120 battiti al minuto di Robin Campillo è stato selezionato per rappresentare la Francia ai premi Oscar 2018 nella categoria miglior film in lingua straniera
120 battiti al minuto, un film del 2017 scritto e diretto da Robin Campillo. Il titolo fa riferimento ai 120 battiti al minuto della musica pop dei primi anni novanta, periodo storico in cui gli attivisti di Act Up-Paris, collettivo parigino, vogliono richiamare l’attenzione sui malati di AIDS contrastando una società convinta che ad ammalarsi potessero essere solo omosessuali e drogati. Il regista Robin Campillo ha co-sceneggiato il film e ha dichiarato di essere stato un «militante dell’ACT UP negli anni novanta». Inoltre, una scena del film in particolare è basata su una sua esperienza, avendo Campillo affermato di aver «vestito un fidanzato sul letto di morte». Anche il co-sceneggiatore Philippe Mangeot era coinvolto nell’ACT UP. In merito alla scelta di dirigere questo film, Campillo ha affermato: «Ho voluto raccontare questa storia perché sentivo che non era stato ancora fatto e occorreva farlo in un modo che ottenesse la massima visibilità, andando al di là della nostalgia. […] Nel film è implicita la tristezza della perdita di persone che ammiravamo, che amavamo e con cui abbiamo passato tanti bei momenti. Ma io penso anche di più a quelli di noi che sono sopravvissuti e a quelli che ancora oggi combattono con la malattia.». Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria, della Queer Palm e del Premio FIPRESCI al Festival di Cannes, 120 battiti al minuto è stato selezionato per rappresentare la Francia ai premi Oscar 2018 nella categoria miglior film in lingua straniera. Con Adèle Haenel, Nahuel Pérez Biscayart, Yves Heck, François Rabette, Arnaud Valois.
Sinossi Agli inizi degli anni Novanta nasce Act Up, un’organizzazione di attivisti che hanno come scopo quello di richiamare l’attenzione sull’Aids e sulle conseguenze che l’Hiv ha sui malati. A fondarla è un gruppo di militanti, qualche tempo prima dell’inizio dell’applicazione della triterapia. Tra le fila di Act Up, il giovane Nathan vedrà la sua vita cambiare grazie all’incontro con il radicale Sean.
La recensione di Taxi Drivers (Luca Biscontini)
Prima ancora di riferire l’elenco dei prestigiosi premi ricevuti, giustamente, da 120 battiti al minuto, è necessario segnalare lo sguardo sul mondo omossessuale del regista, Robin Campillo, il quale, avendo vissuto dal di dentro l’esperienza del collettivo Act Up-Paris, movimento sorto nei primi anni novanta in Francia per richiamare l’attenzione pubblica sul dilagante problema dell’Aids, riesce a restituire allo spettatore non a conoscenza dei fatti una preziosa e, soprattutto, veritiera testimonianza. Non è presente – per fortuna – quella drammatizzazione provinciale, tipica delle prospettive etero-borghesi, della narrazione delle gesta di chi ha vissuto (e vive) un orientamento sessuale libero; il lato tragico, e non poteva essere altrimenti, emerge solo, e potentemente, in riferimento alla iattura di un’epidemia maledetta che ha funestato, per una casualità imprevedibile e non gestibile – una sciagurata fatalità – il destino di tanti giovani che volevano solo amarsi e celebrare la festa della vita. Si trattava di informare il più possibile, rompendo una cortina di patetico pudore, premendo sulle istituzioni e sull’opinione pubblica affinché si venisse sempre più a conoscenza del problema, e innescare, in tal modo, un’accelerazione della ricerca di possibili soluzioni. Nella fattispecie era necessario incalzare le case farmaceutiche per diminuire sensibilmente i tempi canonici della sperimentazione dei nuovi farmaci, laddove i pesantissimi effetti collaterali delle cure classiche a base di AZT e DDI provocavano tali e devastanti effetti collaterali da indurre molti a sospendere le terapie.
Amore e morte. Ma prima della morte l’amore, anzi il desiderio, che è sessuale e politico, una zampillante riserva di energia cui molti coraggiosi giovani non esitarono ad attingere fino all’ultimo momento, all’ultimo respiro, non potendo sottrarsi all’impulso irrefrenabile di partecipare all’evento dello stare insieme, a partire dalle improvvise irruzioni negli spazi rituali del decrepito ordine simbolico imperante, per tentare in ogni modo di riformarne la topologia, incitando le masse a mutare l’usuale angolo di visione. Non è un cinema di retroguardia quello di Robin Campillo, perché mentre rende noto un momento difficilissimo delle recente storia contemporanea, al tempo stesso convoca, riuscendoci, lo spettatore a sprofondare all’interno delle dinamiche dei rapporti dei protagonisti. Non solo, quindi, il pubblico eterosessuale non avverte alcuna distanza dai personaggi messi in scena, ma, finalmente, s’immedesima completamente, togliendosi di dosso quell’insopportabile puzza di normalità che tanto lo rassicura. Verrebbe quasi voglia di dire, di gridare, dopo aver visto 120 battiti al minuto: “Io sono omosessuale!”. Cioè, si rinuncia gioiosamente a sentirsi parte della ‘maggioranza’, statica, arida, apatica, per abbracciare il movimento vorticoso di una ‘minoranza’ creativa, mobile, che si è liberata da quei pesanti e ingombranti ceppi che impediscono il volo. E allora, l’unico paradosso che rimane e infastidisce, meglio sarebbe dire turba profondamente, consiste nel dover prendere atto che proprio questa parte vitale, separata dal potere ma dotata di infinita potenza, di un’umanità spesso esecrabile, abbia dovuto scontare, più degli altri, un destino crudelissimo che davvero non gli spettava. Eppure, nonostante il fantasma della malattia mortale incomba costantemente, fino a prendere corpo in alcune pregnanti, realistiche sequenze, in cui assistiamo al trapasso silenzioso del protagonista (l’eccellente e commovente Nahuel Pérez Biscayart), contrassegnato solo da qualche, sparuto, intenso sospiro, la lotta non cessa, il desiderio non muore, le sacrosante rivendicazioni di un gruppo di uomini e donne determinato a far valere i propri diritti rimangono un obiettivo che dev’essere a tutti i costi perseguito per impedire che il contagio si diffonda ulteriormente, condannando senza ragioni una generazione che di sofferenze ne aveva già patite non poche.
Non c’è retorica in 120 battiti al minuto, è un film assai sincero, laddove l’intento principale degli autori (la sceneggiatura è stata scritta da Campillo insieme a Philippe Mangeot) era quello di far conoscere un momento difficilissimo per il mondo occidentale e per i giovani che ebbero la sfortuna di viverlo. Il sesso è gioia, è un passaggio importante all’interno dell’economia della nostra esistenza, ma non viene scioccamente sopravvalutato. Esso non ha il potere di sospendere (non è estatico) la scialba causalità che lega il manifestarsi dei fenomeni. Anche per tale stigmatizzazione della tipica apologia dell’Eros contemporanea, sventolata fin troppo e a sproposito, il film di Campillo merita un plauso ulteriore: la lucidità che viene eroicamente mantenuta nell’approcciarsi alle più diverse e delicate situazioni è davvero esemplare e induce chi scrive a consigliare vivamente la visione del film.
Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria, della Queer Palm e del Premio FIPRESCI al Festival di Cannes, 120 battiti al minuto è stato selezionato per rappresentare la Francia ai premi Oscar 2018 nella categoria miglior film in lingua straniera.
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