L’anno del dragone, un film del 1985 diretto da Michael Cimino e interpretato da Mickey Rourke, John Lone e Ariane Koizumi. È ispirato all’omonimo romanzo di Robert Daley, adattato dal regista con Oliver Stone. Il film, prodotto da Dino De Laurentiis, segna il ritorno al cinema di Cimino, a cinque anni dal clamoroso fiasco de I cancelli del cielo che fece fallire la United Artists, ed è un’esplorazione delle bande di strada, dello spaccio di droga illegale, del razzismo e degli stereotipi.
Sinossi
C’è un patto di non aggressione tra la polizia e gli “anziani” della comunità cinese di Chinatown. Quando però arriva il poliziotto Stanley White le cose cambiano. Dalla parte avversa milita il giovane e ambizioso Joey Tai, che sta tentando la scalata al potere della Triade, la spietata mafia cinese. White cerca di convincere la giornalista televisiva Tracy Tzu ad aiutarlo nella sua guerra.
Chinatown come non l’avete mai vista. L’anno del dragone è un noir ad ampio spettro, che spazia dal polar al sentimentale, servendo, al contempo, una saporita macedonia di costume asiatico, abbracciando passato e presente e mescolando tradizione orientale e innovazione occidentale. Come spesso accade nelle opere di Michael Cimino, l’eroismo si coniuga alla solitudine come premessa e come condanna, e porta in sé i lividi segni di oscuri trascorsi, uniti all’incapacità di tornare indietro per rimediare ai propri errori. Il talento di Mickey Rourke risplende, e fa di Stanley White un personaggio epico, incarnazione della coerenza che richiede l’insensibilità mentre semina dolore. Roboante e fracassone sin dalla prima sequenza (carnascialesca e pirotecnica nonostante trattasi di un funerale) è un film gradevolmente sopra le righe, sanguigno e assolutamente schierato (le battute e i monologhi del protagonista arrabbiato col sistema e incaponito a sacrificarsi per l’annientamento del marcio portano sullo schermo la voce stessa del regista). Cimino, all’epoca autore in buono stato di salute, prende di petto e denuncia le gang, la mala, i rapporti tra le etnie, i traffici illeciti, il mondo della droga ad alto livello, lo scontro tra culture e generazioni, il pesante ruolo dei media, la corruzione delle forze dell’ordine, il capitalismo sfrenato, la crisi della famiglia. In buona sostanza il suo ritratto dell’America. Michael Cimino, con L’anno del dragone, torna alla regia dopo un silenzio durato cinque anni. Era il 1980 quando, con I cancelli del cielo, poneva fine ad un’intera epoca cinematografica: la New Hollywood. Ma è nel noir – genere che con l’Oriente ha instaurato una sorta di fascino misterioso: si pensi a proto-noir come Ombre malesi o I misteri di Shanghai, oppure, a opere più tarde come Il kimono scarlatto – che il regista americano riesce a rinnovarsi, per imporsi, nuovamente, come uno dei più incisivi autori cinematografici dei suoi tempi. Con l’apporto di Oliver Stone alla sceneggiatura, realizza un film denso, pulsante, e ben poco confortante. La sua regia è spesso nervosa, mutevole. Stacchi improvvisi, finti raccordi, corrispondono a esplosioni inaspettate di incontrollabile violenza. Steady-cam seguono i personaggi in luoghi opprimenti, stretti, soffocanti. L’inquadratura è sempre sovraccarica, piena. La profondità di campo “getta” i personaggi nei contesti, senza mediazioni: li imprigiona in ambienti gremiti di dettagli. L’uso dei colori è fondamentale (soprattutto, dei rossi) per descrivere questo «inferno sulla Terra» che è Chinatown, babele e labirinto inestricabile (sia che si tratti di una discoteca che di un ristorante). L’anno del dragone è, infine, un film profondamente mortuario. Per ben tre volte assistiamo ad un funerale: all’inizio del film (il vecchio boss ucciso da Tai), a metà (Connie, la moglie di White), e alla fine (i funerali di Joey Tai). Perché l’impossibilità di cambiare le cose – e ce lo dice bene Cimino – è la morte stessa.