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8 mm

« Con “8 mm”, il primo cortometraggio ufficiale di Pasquale D’Aiello, in concorso all’ultima edizione del R.I.F.F., assistiamo al tentativo di rievocare lo spettro dello scontro politico che, alla fine degli anni settanta, incendiò il nostro paese; un film coraggioso che cerca di sottrarre all’oblio della rimozione collettiva un periodo storico le cui verità giacciono, da ormai troppo tempo, sotto il peso di un imbarazzo non più sostenibile».

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8mm

La verità. La questione del rapporto intercorrente tra verità e immagine non cessa di ripresentarsi quale condizione imprescindibile per l’elaborazione di un’estetica che, liberatasi dal giogo opprimente dello spettacolo postmoderno, sappia rinnovarsi, intraprendendo l’unico itinerario possibile: la ricerca della verità medesima. È chiaro che l’eccesso del fine renderà sempre insufficienti i mezzi per conseguirlo, ma è proprio l’ostinazione nel mantenersi nella traccia di ciò che sfugge a costituire, più che mai, l’elemento decisivo per indicare il valore di un’opera.

Non si tratta più di oscurare lo schermo come fece Guy Debord, o di organizzare una serie di contro-spettacoli per replicare alla violenza di quelli diffusi, concentrati o integrati del teatro politico contemporaneo, ma di emanciparsi realmente dalle false questioni, predisponendo un linguaggio nuovo che non sia, per l’appunto, reattivo.

In questo senso, non si può non apprezzare il primo cortometraggio ufficiale di Pasquale D’Aiello, 8 mm, in concorso all’ultima edizione del R.I.F.F., in cui la volontà di rievocare lo spettro dello scontro politico, che alla fine degli anni settanta incendiò il nostro paese, risponde all’esigenza di sottrarre all’oblio della rimozione collettiva un periodo storico le cui verità giacciono, da ormai troppo tempo, sotto il peso di un imbarazzo non più sostenibile.

8 mm – afferma il regista – è un tentativo di confronto tra il ricordo di alcuni eventi accaduti tra il 2 febbraio e il 12 maggio del 1977 e i giorni attuali”. In quei giorni convulsi persero la vita lo studente Francesco Lo Russo, il poliziotto Settimio Passamonti e, infine, la studentessa Giorgiana Masi. “Questi fatti – continua D’Aiello – comporteranno lo stravolgimento delle vite dei protagonisti, diventando l’emblema della sovrapponibilità del personale al politico”.

I temi sollevati sono cruciali: cominciando dal linguaggio. La conversazione tra i due protagonisti, oramai divenuti adulti (Giorgina Cantalini e Leonardo Castellani), è proprio incentrata sul significato della parola “terrorista”. Lo slittamento semantico operato per individuare coloro che, in nome di un ideale di giustizia e uguaglianza, giunsero al gesto estremo di colpire alcuni personaggi chiave della classe dirigente di quegli anni, rivela una volontà politica precisa. Pasquale D’Aiello non emette sentenze, ma pone delle domande: “Chi è terrorista, chi uccide la persona sbagliata?”. Certo, non esistono persone giuste o sbagliate da colpire. Ma possiamo considerare meno terroristiche “le guerre intraprese da Stati Uniti e Israele, o le misere guerrette condotte dall’Italia?”. Sono domande queste che non trovano risposta; è un domandare che si rimette all’eccesso di ciò che chiede, che mostra e non di-mostra. E’ un retrocedere dal gusto della rappresentazione, che riduce e fissa, alla crudezza della presentazione, che esibisce e apre.

I flashback e le immagini di repertorio restituiscono l’atmosfera plumbea e pesante degli anni settanta, la tensione, le incertezze e le paure degli individui coinvolti, le strategie elaborate, di volta in volta, per condurre uno scontro che ha ferito a morte il nostro paese.

I giovani di allora (interpretati da Simone Càstano, Valentina D’Andrea e Marco Barone Lumaga) porteranno per tutta la vita addosso i segni di quel tempo: ecco la sovrapposizione del personale al politico. Come poter dimenticare?

La lettera che Francesco Cossiga, allora ministro degli interni, inviò nel 2008 al capo della polizia Vincenzo Manganelli, invitando le forze dell’ordine a massacrare i manifestanti, per poi far ricadere la colpa su questi ultimi, irrompe sullo schermo a fine film, tagliando la tela. Assistiamo, direbbero gioendo gli psicanalisti lacaniani, all’emersione del “reale” traumatico, alla presentazione oscena dell’”oggetto a”. Ma la verità non è nulla di trascendente, né qualcosa che piova dal cielo, frastornandoci. La verità richiede una ricerca, uno sforzo, un’ostinazione. Soggiornare all’interno di una rottura immanente: questo è il gesto necessario per innescare una procedura di verità, l’unica che possa fornirci ancora dignità.

Luca Biscontini

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