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73 Festival di Venezia: The Bad Batch di Ana Lily Amirpour (Concorso)

Dopo A Girl Walks Home Alone at Night, quell’onirico, originale e libero debutto alla regia di Ana Lily Amirpour salutato dalla stessa come “il primo vampire-western iraniano”, erano alte le aspettative e la curiosità di capire quale direzione avrebbe imboccato il suo cinema. La risposta a tanta attesa è arrivata con The Bad Batch, film splatter e cannibal-exploitation che strizza l’occhio a Tarantino e presentato in concorso a Venezia 73

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Dopo A Girl Walks Home Alone at Night, quell’onirico, originale e libero debutto alla regia di Ana Lily Amirpour salutato dalla stessa come “il primo vampire-western iraniano”, erano alte le aspettative e la curiosità di capire quale direzione avrebbe imboccato il suo cinema. La risposta a tanta attesa è arrivata con The Bad Batch, film splatter e cannibal-exploitation che strizza l’occhio a Tarantino e presentato in concorso a Venezia 73.

A condurre il gioco è ancora una volta un’(anti)eroina: Arlen (interpretata dalla modella e attrice inglese Suki Waterhouse) viene obbligata a lasciare gli Stati Uniti perché declassata al lotto difettoso, contenitore misterioso dove finiscono gli elementi invisi al sistema che portano l’onta del disonore tatuata sul corpo. Abbandonata nel deserto messicano, Arlen è immediatamente preda della comunità Bridge, un gruppo di reietti cannibali dedicati al culto del corpo e degli steroidi. Già nelle prime sequenze, di brutale bellezza, la Armirpour chiede allo spettatore la più totale fiducia: lo sottopone a una scena-prova di gratuita violenza e senza salvezza che lascia la modella mutilata e che si deve superare con accettazione per entrare nell’immaginario metaforico e crudele, anche un po’ insensato, del film. Arlen, privata di un braccio e di una gamba, riesce a fuggire e con l’aiuto di un clochard, un Jim Carrey ben mascherato da risultare irriconoscibile, e a raggiungere la comunità di Comfort. Altro non-luogo, altra metafora. Questa zona-parcheggio di un ventaglio di umanità al margine ha un oscuro leader, Keanu Reeves, che incita le folle durante un rave a base di LSD a ‘”follow the dream”. Entrambe le comunità, così come l’idea di una zona di controllo di purezza della razza e di un angolo spazzatura dove confinare gli scarti umani, sono metafore politiche nonché rimandi all’attualità americana (vedi Trump e le sue teorie sulla costruzione di un muro entro cui proteggere la popolazione americana). La distopia di Bridge è un’allegoria di un Paese piegato al capitalismo che divora senza pietà il più debole, mentre Comfort è una zona di illusoria sicurezza dove tutti stanno bene in estrema miseria e povertà e il leader si adagia nel lusso e nella lussuria supportando lo slogan che lascia poco all’immaginazione “You can’t enter the Dream, the Dream enters you.”

Ma, ahimè, il sogno non entra dentro di noi perché gli addendi entusiasmanti – un’overture spietata e nefasta, una bellissima protagonista vagante nel deserto a mò di guerriera deturpata, la cura musicale (Tarantino docet) a base elettronica con Nicholas Jaar e il suo duo Darkside, l’allegoria distopica del deserto e delle sue sub-comunità – generano una somma sottotono e fiacca. Simboli e potenza visiva sono infatti indeboliti da una trama senza magia, che non aggancia. Dopo averne ucciso la madre, Arlen rapisce una bambina della comunità di Bridge e obbliga il padre Miami Man (Jason Momoa, Game of Thrones) a cercarla e ad allearsi con lei per ritrovarla, con flirt annesso. Questo è tutto.

Francesca Vantaggiato

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  • Anno: 2016
  • Durata: 115'
  • Genere: Horror
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Ana Lily Amirpour