Dispiace dirlo ma appare piatto, fiacco, l’ultimo sforzo di Kim Ki-duk, presentato all’inaugurazione della sezione Cinema del Giardino di questa 73esima Mostra di Venezia, privo del vigore, della grazia e dell’estro che hanno sempre contraddistinto un regista che purtroppo negli ultimi anni sembra essersi adagiato su un livello molto inferiore rispetto alle vette cui ci ha abituato. Ci si trova ben lontani dal coraggio e dall’ispirazione con i quali Kim Ki-duk si è espresso in opere meravigliose come Crocodile, Bad guy, Ferro 3 o La samaritana.
Pur essendo sempre stato un autore piuttosto schematico, in questo caso si assiste a una narrazione davvero essenziale, scolastica, al mero racconto dei fatti che però non hanno un’anima, non posseggono la componente emotiva che invece paradossalmente il film sembra voler trasmettere, ma senza riuscirci. La sensazione è che il regista coreano inserisca una serie di elementi indirizzati precisamente a determinare una reazione emotiva, ma che siano troppo palesemente rivolti all’effetto che avranno sullo spettatore, che siano funzionali al raggiungimento di un obiettivo, non in maniera furba, ruffiana o manipolatrice, ma semmai compiacente, che egli sia intento ad accontentarlo, così da perdere la propria essenza.
Nella rappresentazione di eventi anche molto drammatici, manca la scintilla, manca il calore proprio, quello viscerale di chi scrive e mette in scena, che poi è quello che fa dell’arte, e in questo caso del cinema, la più bella e preziosa forma di comunicazione che esista. Qui è come se l’autore fosse troppo occupato a pianificare anche accuratamente un risultato, decentrandosi e perdendo di vista la sua spontaneità, cosicché, con un baricentro così sbilanciato verso l’esterno, qualsiasi cosa voglia comunicare perde di forza e di intensità, diventa più debole.
Il tema trattato è potenzialmente ricco di spunti e universalmente di grande interesse ed è chiaramente riconoscibile un pensiero abbastanza distinto dell’autore, il quale non è che sia assente, che non abbia qualcosa da dire, è che lo dice senza metterci il cuore, sembrerebbe più pensando al cuore di chi lo guarda che aderendo al proprio.
Così, sono chiari la denuncia e il dissenso nei confronti degli estremi opposti di entrambe le politiche coreane, la frustrazione relativa alle distorsioni prodotte da ognuna delle due.
Nonostante la frontiera che le separa e la linea di demarcazione che rappresenta il confine tra le due nazioni, intorno al quale è ambientata la narrazione, esse arrivano a costituire un unica rete, tra le cui maglie il protagonista, un povero pescatore indigente nato e cresciuto nella dittatoriale Corea del Nord, resta impigliato, proprio come uno dei pesci che sono la sua unica fonte di sostentamento, senza che in fin dei conti cambi granché ai fini dell’interesse per la sua persona, che si trovi da una parte o dall’altra. Non importa tanto quale sia la sua patria, dove sia cresciuto, non quali siano i suoi principi, non le persone cui tiene, non la sua fedeltà, non la teorica maggiore civiltà di una delle due parti. Nessuno di questi elementi è abbastanza importante da prevalere su un sistema che, anche se diviso in due, alla fine funziona alimentato e spinto dallo stesso combustibile, la solita sete di potere, il compiacimento e arricchimento personale, il desiderio di prevaricazione, a discapito di qualsiasi empatia o rispetto per l’individuo.
Essendo questo il nucleo concettuale dell’opera, presentato attraverso il racconto della storia di un uomo disperato e della sua dignità, è lecito pensare, o quantomeno possiamo sperare, che la carenza di slancio e di linfa vitale propria che si riscontra possa risiedere almeno in parte nel fatto che rifletta in qualche modo il disincanto e la sterilità del sistema che descrive, della realtà che rappresenta, e che quindi non sia del tutto ascrivibile a una perdita di smalto dell’autore. Elementi introdotti ad hoc, troppo ad hoc se ci si può permettere, come la fame del povero disgraziato, un orsacchiotto di peluche (sia in versione Sud che in versione Nord), o la costrizione violenta di un uomo sottomesso, non sono toccanti, non sconvolgono, risultano sterili, asciutti, e, anzi, in alcuni momenti tanto ricercati da diventare poco credibili, arrivando addirittura ad essere irritanti; ci si riferisce per esempio a scene come quella in cui il protagonista, dopo essere stato torturato, fa la morale al suo carnefice senza lasciarsi andare in alcun modo, o a quelle affettive tra la vittima e il “poliziotto buono” incaricato di sorvegliarlo, che appaiono quasi artificiose, troppo cariche, posticce.
Non c’è più traccia di poesia, della profondità, dell’astrazione e del respiro che permeavano nelle opere più riuscite del regista. Kim Ki-duk vola molto più basso, si accontenta di un cinema impostato, che probabilmente negli intenti è addirittura più curato, ma che, e lo si dice con il rammarico di chi lo ha amato e ha gioito di tante sue perle, perde enormemente in termini di personalità, che coinvolge e turba molto meno, non arriva mai a sorprendere, si fa guardare ma non è sufficiente, data la portata del cineasta che è stato e che si spera possa ancora essere.
Roberta Girau