Era il 10 agosto 1975, erano gli anni di piombo, delle brigate rosse, delle proteste, dei cortei di piazza, il clima era, per così dire, teso, la politica viveva attimi tumultuosi, c’era l’inflazione, la svalutazione della lira, regnava la confusione, da lì a poco, a distanza di un paio mesi, vi furono anche il massacro del Circeo e il delitto, in parte ancora avvolto nel mistero, di Pier Paolo Pasolini sul litorale di Ostia. Insomma, nella (im)perfetta metà degli anni settanta la società non versava di certo in acque calme o rosee, ma fra sassaiole e attentati, malcontento e paura, c’era anche molta, moltissima arte, c’erano cultura, vivacità, voglia di scoprire e sperimentare, c’era speranza, voglia di osare, c’era tanta musica, italiana e straniera, le sale cinematografiche erano vissute, i film erano molti e di tutti i generi, ma in quell’anno di (non) grazia 1975, nel mese di agosto ne usciva uno, di un alfiere della commedia (all’) italiana, che andava a distaccarsi in modo netto, deciso, dal clima feroce nel quale nasceva un film destinato a divenire campione d’incassi della stagione e a trasformarsi, in breve tempo, in un manifesto del genere e in un supercult per generazioni e generazioni a venire. Il film in questione è Amici Miei e il regista altri non è che il grande Mario Monicelli, il quale ereditava la paternità del progetto dall’altrettanto grande Pietro Germi, scomparso in prossimità della realizzazione, scritto ad otto mani dagli sceneggiatori Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli e dallo stesso Germi ed egregiamente musicato da Carlo Rustichelli, autore di una azzeccatissima ballata melodica. Già, Amici Miei, uno di quei film indispensabili per la vasta filmografia del maestro Monicelli, indispensabili per la storia del cinema italiano, europeo, ma diciamo pure mondiale, indispensabili perfino per la cineteca di ognuno di noi, uno di quei film che almeno una volta nella vita sarebbe giusto, doveroso vedere ed amare, gioiosamente e amaramente. Un’opera colossale che (ri)vista oggi risulta sempre attualissima, universale, veloce nelle sue due ore e più di durata e che rende disumano il dislivello con le tante e a volte esili e spuntate commedie nostrane dei nostri giorni.
Chi non riconduce immediatamente a questo film le ormai leggendarie e legittimate zingarate, le supercazzole, gli scherzi, i cori, il genio, gli amici, si, gli amici, quelli del titolo, quei cinque mattacchioni di mezza età, così meravigliosamente interpretati da Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Philippe Noiret, Adolfo Celi e Duilio Del Prete, che con quel gusto difficile di non prendersi mai sul serio rendevano le loro vite un’autentica ed infinita burla, sarcastica, grottesca, mordace e sfrontata sullo sfondo di una Firenze bellissima e malinconica, plumbea ed avvolgente, la città dell’arte mai come in questo caso patria anche dell’arte dell’ilarità. Si, perché in Amici Miei il gioco, la burla diventano davvero arte, felice esorcismo di una vecchiaia tanto lontana eppure sempre percepita, una condizione futura che, presi come erano dalle loro avventure, non spaventava affatto i nostri eroi, guasconi e, chi più chi meno, stimati professionisti di una medio/alta borghesia, qui presa solennemente per i fondelli, e che già cominciava a mostrare i primi cenni di cedimento ma che infondo infondo, a conti fatti, non è neanche mai esistita. Tutto viene messo alla berlina, tutto è anarchico e contento di esserlo, dai rapporti umani agli affetti, dalla bontà alla cattiveria, dalla religione alla morte ed ogni gag vive dello stato di grazia di tutti, attori, regista e sceneggiatori, come sospinti da un invisibile vento in poppa.
L’amicizia dei nostri protagonisti, così spensierata, ma al tempo stesso venata di una sottile amarezza, il che la rendeva maledettamente agrodolce, rappresentava, e rappresenta tuttora, il punto forte di un’opera che, senza ombra di dubbio, affondava le sue radici nella più matura commedia dei grandi maestri del nostro cinema e che al tempo stesso strizzava l’occhio, come di consueto, alla miseria e, se possibile, anche al fallimento dell’esistenza in sè, quel fallimento che il Mascetti, conte decaduto e puntualmente oberato dai debiti, il Melandri, architetto scapolo e donnaiolo sfortunato, il Perozzi, giornalista separato dalla moglie e in perenne conflitto con il figlio, il Sassaroli, illustre clinico prigioniero della sua lussuosa villa in collina e il Necchi, sposato ma sopravvissuto alla morte del figlio, attraverso le loro zingarate e goliardie varie, tentavano di allontanare, quanto necessario, da loro stessi, soffocandolo in una gaiezza reiterata e così tanto coinvolgente da sublimare anche le più profonde e, ad occhio nudo, meno vistose ferite esistenziali, mai veramente approfondite eppure palesemente incastonate in alcuni momenti di poetica e meravigliosa tragicommedia perfino sadica; un umorismo dai tratti somatici smaccatamente pirandelliani, colto, cattivo, umiliante ma anche, e verrebbe da dire soprattutto, maledettamente umano.
Amici Miei di Pietro Germi e Mario Monicelli, si, li citiamo doverosamente entrambi perché entrambi autori del film, tanto che il primo avrebbe desiderato ambientarlo nella non meno bella Bologna, poi sostituita dalla felice scelta fiorentina con l’avvento del toscanissimo Monicelli, il quale, già dai titoli di testa in apertura, ci tiene a farci sapere, attraverso un giusto, doveroso omaggio, che quel che ci accingiamo a vedere è un film, in primis, di Pietro Germi; ma dicevamo, Amici Miei altro non è se non un, accuratamente calibrato, inno alla gioia verso l’amicizia più ghignante e mascalzona, quella degli sfottò che non finiscono mai, quella dei colpi di genio che raddrizzano serate altrimenti storte, quella delle lacrime mascherate da risate perché lo scherzo deve protrarsi a tutti i costi e senza possibilità di appello, quella cinica ma appassionata, egoista ma generosa, insomma, l’amicizia, il più genuino e complesso dei rapporti. Amici Miei, a ben quarant’anni di distanza dalla sua fortunata uscita nelle sale, resiste ancora nei contenuti e riesce ancora a suscitare quelle risate che precedono un fugace morsetto sul labbro, rendendo interminabile codesta, solenne zingarata, quell’evasione da tutto e da tutti che può durare un giorno o due, una settimana o perfino un mese, tanto che sembra ancora di vederli in macchina tutti e cinque, senza meta, sbandati, alla ricerca di un domani che non c’è perché esiste solo il momento, l’attimo infinito del divertimento che ritarda, ancora e ancora quello, forse più serio, del conto. L’armonia e la bramosia del vivere ridendo, prendendo tutto come un gioco, porterà addirittura il Perozzi, interpretato da Noiret, a morire così come aveva vissuto, sfottendo, burlandosi del prete durante un’estrema unzione resa epica da una supercazzola agonizzante; la morte schernita, vista, per l’appunto, come condizione tanto lontana quanto definitiva, seppur aleggiante, da costringere il Mascetti di Tognazzi, sull’uscio della porta nella camera dell’amico morente, a domandare incredulo agli altri: Ma che è morto sul serio? Ecco, tutto ciò diviene emblematico per la poetica di un film che strizza, si, l’occhio alla vita, ma è pure, silenziosamente, presago di morte, ma raggirandole entrambe con la sagacia menefreghista del più lascivo buontempone. Amici Miei, se possibile, rappresenta, dunque, anche una sorta di elogio funebre sia della carriera di Pietro Germi, anch’egli forse presago della sua scomparsa, che di quei cinque amiconi, eterni signori nessuno e privi di quell’ormai tanto inflazionata ambizione dell’essere, a tutti i costi, qualcuno, ma pregni solo di una romantica, diciamo pure estinta, ilarità e di quella voglia irrefrenabile dell’affrettarsi a ridere di tutto per la paura di doverne presto piangere.
Amici Miei non è un film comico, non nasce con l’ambizione di voler far ridere a tutti i costi, quantomeno non solo, è una commedia brillante, certo, ma dai toni tristi, malinconici, dove è ovvio che le risate non possano mancare, ad onor del vero non è neanche il vero canto del cigno della commedia (all’) italiana, onere che spetta probabilmente più a La Terrazza (1980) di Ettore Scola, ma è senza dubbio uno degli ultimissimi exploit del genere, in grado di inventare un linguaggio nuovo e di coniare termini divenuti poi di uso comune nella società, quali zingarata o supercazzola. E’ il film della compagnia e della solitudine, del riso e del pianto, due estremi opposti che però non mancano occasione di attrarsi reciprocamente, due facce della stessa medaglia, ebbene si, dove a volte capita che si pianga dal ridere e altre si rida dal piangere.
Manuele Bisturi Berardi