
La camera a mano gira – brevi riprese confuse – mani che cercano, un volto terrorizzato dagli occhi che pian piano si spengono. Un fazzoletto in bocca, una bottiglia di anice che continua a essere passata di mano in mano tra ragazzi dalle facce sporche di vita. Questa è la scena di apertura de I ragazzi del massacro, film noir del 1969, oggi considerato un cult del regista pugliese Fernando di Leo, poco conosciuto ai molti e dalla carriera altalenante, che narra le indagini del commissario Duca Lamberti dopo l’omicidio di una maestra avvenuto in un’anonima scuola serale della periferia milanese. Un film artigianale, fatto con quei pochi mezzi di cui si servivano le produzioni degli anni Sessanta e Settanta, cinematografia non sempre eccellente, spesso mediocre, che cercava con originalità e inventiva di emulare i b-movies di genere, di quella Hollywood che di lì a poco sarebbe tornata nuovamente in auge grazie ai blockbuster.
I ragazzi del massacro inaugura il filone del giallo-poliziesco di Fernando di Leo, regista non dalle eccelse potenzialità, ma con buone idee e ottime intuizioni. La tipicità e il valore della pellicola non possono essere appieno apprezzate se non si cerca di contestualizzarli nel momento della produzione. Ispirato all’omonimo romanzo di grande successo dello scrittore italo-russo Giorgio Scerbanenco, il film non rispetta quelle che sono le peculiarità della narrazione cartacea che tendeva a concentrarsi eccessivamente sull’intreccio, puntando ad attirare più superficialmente l’attenzione del lettore, avendo pietà dei ragazzi e concentrandosi sulla sgradevole figura del travestito, mandante dell’omicidio, che invece il regista tende invece a relegare in secondo piano. Di Leo, nelle sue intenzioni, cerca di costruire un’indagine sociologica sulla gioventù di strada milanese di fine anni Sessanta. La sua narrazione è il più possibile cruda ed essenziale, scarna di artifici ma con tagli espressionistici tali che sembrano infondere all’atmosfera del film i tratti tipici del fumetto. Un autore, quindi, dalla forte personalità e dalle idee molto chiare.
Di Leo era convinto che “il bubbone”, che la società italiana del post-boom economico portava dentro di sé, non doveva essere lasciato ad ingrandirsi, ma andava spremuto. E con la sua interessante pellicola tenta proprio questa operazione: prova a dar voce a tutte quelle emergenze sociali che dalla cronaca dell’epoca venivano circostanziate e pressoché ignorate. I ragazzi del titolo non sono attori professionisti, ma giovani scelti per le loro eloquenti facce (memorabili i controlli che la polizia esegue durante le riprese del film), minorenni costretti a prostituirsi per vivere, abbandonati ancora adolescenti alle durezze della vita da genitori consumati dai loro problemi e incapaci di dare loro abbastanza attenzioni. Purtroppo la pellicola perde di tanto in tanto le sue ambizioni sociologiche, indugiando troppo su particolari dell’intreccio e lasciandosi trascinare da colpi di scena poco convincenti. Memorabile, però, l’interpretazione del protagonista, il commissario Duca Lamberti (Pier Paolo Capponi), attore che con la sua carica belmondiana dà il volto ad un personaggio stretto tra l’indignazione per l’omicidio su cui indaga e la voglia di aiutare i ragazzi coinvolti. Insomma, un personaggio forte e debole allo stesso tempo, che alla fine risulterà né vincitore né vinto. Fatto nuovo nel cinema di genere, oltre all’interpretazione pionieristica del commissario di Capponi, è anche il ruolo dell’assistente sociale interpretato da Susan Scott, che proprio pochi anni prima aveva iniziato la sua carriera in Italia. È un personaggio col quale di Leo cerca di controbilanciare la figura del commissario, troppo chiuso nelle sue devianze professionali, facendogli comprendere le difficoltà dei giovani disadattati.
Alessandro Zagarella