Non mentiamoci: parlare di stop-motion è cosina complicata. Non tanto quanto realizzarla, certo (neanche lontanamente), ma è comunque impresa non da poco. Da qualunque punto di vista la si guardi, la stop-motion non può che sembrare un gran, gran macello: d’altronde, come parlare di una tecnica universale che, ben più anche delle sue altre colleghe animate, necessita di un livello tanto subatomico di cura, di sforzo, di precisione? Di un’estetica fra le più rinomate, ammirate e degustate nei banchetti di critica e festival, ma anche una delle più povere al botteghino? Di un effetto nato mano nella mano col cinema stesso, ma ripudiato da tutti per i suoi abissali costi produttivi?
Come avrete capito, se ne può parlare moltissimo. O anche pochissimo. Oggi decidiamo di parlarne abbastanza: cercheremo, cioè, di premere, schiacciare e rimodellare insieme quell’impresa epica che è la storia e la tecnica della stop-motion, fino a ottenerne qualcosa di pratico e veloce. Una storia di eroi e lavoratori, di dinosauri e insetti, di pinguini e scheletri. Modelliamola, un passo-uno alla volta.
In principio era il taglio
Come dicevamo, la tecnica della stop-motion (anche detta “a passo uno”) è praticamente compagna di culla del cinema: una vera e propria antica arte della cinematografia, già utilizzata per quel primissimo senso di meraviglia scaturito dagli schermi nel primo ‘900.
Ma andiamo con ordine, e torniamo al principio: a quei primi, velocissimi anni della storia del cinema, che sono anche gli ultimi, ribollenti anni del XIX secolo. In quel frenetico big-bang della settima arte nasce ogni giorno una nuova invenzione, e fra queste non può che sorgere il trucco con arresto e sostituzione. La più banale delle illusioni: prima fermare la ripresa, poi cambiare i soggetti in scena, infine ricominciare. Bastava questo, e immediatamente poteva cadere una testa, o scomparire una persona… ma soprattutto, cosa per noi ben più importante, poteva anche spostarsi un mobile.
Eccolo qua, dunque, il seme della stop-motion: la straordinaria intuizione che, potendo riprendere un oggetto reale in diverse posizioni, e potendo montare queste posizioni in maniera sempre più rapida e ravvicinata, si poteva anche rendere ciò che era immobile e inanimato vivo. La più banale delle illusioni, resa la più grande delle magie.
Il trucco ebbe ovviamente rapida diffusione fra i grandi geni dell’epoca, da Georges Méliès a Segundo de Chomòn: e come per tutto, soprattutto nel cinema, ridurre il tutto a una sola, prima opera sarebbe non solo riduttivo, ma anche pressoché impossibile. Se però dobbiamo nominare un titolo, in questa preistoria della stop-motion, sarebbe sicuramente The Haunted Hotel (1907) di J. Stuart Blackton, pioniere dell’animazione americana: opera notevole non tanto per l’anticipo sui tempi, quanto per forza d’impatto sull’ambiente dell’epoca. Non si era mai visto, infatti, un film capace di utilizzare lo spostamento degli oggetti con tale precisione e fluidità: caratteristiche ovviamente necessarie per la stop-motion come la conosciamo oggi.
Un cortometraggio quindi meraviglioso, misterioso, ai limiti dell’impossibile per l’epoca, e così capace non solo di dominare il mercato americano ed europeo, ma anche di impressionare e ispirare gli stessi grandi geni qui sopra. E non parliamo solo di Méliès, o di Chomòn (che arrivò a imitare l’opera con un suo progetto, Hôtel électrique), ma anche ad esempio del caricaturista Émile Cohl: lo stesso che, un anno dopo, avrebbe prodotto Fantasmagorie, oggi considerato il primo vero cortometraggio (interamente) animato della storia del cinema. Un corto però disegnato a mano, cioè realizzato con quella tecnica che, pur arrivata quindi seconda, è oggi ironicamente detta “tecnica tradizionale”. Il primo di una lunga serie di colpi bassi, per la stop-motion.
Tutto ebbe inizio con uno scarabeo

Raccontiamo la storia e il funzionamento della stop-motion: dal 1907 ad oggi, passando per Star Wars, Pingu e Nightmare Before Christmas
Se pensate che i film in stop-motion di oggi siano un po’ inquietanti, probabilmente non avete mai visto i famosi insetti morti di Ladislas Starevich. Starevich, esponente della piccola nobiltà polacca e grande appassionato di arte e scienze naturali, fu responsabile di un enorme passo in avanti per questa meravigliosa tecnica, spinto in realtà da un semplicissimo desiderio: poter filmare le grandi lotte fra scarabei. Cosa purtroppo impossibile, in quanto i piccoletti si rifiutavano di combattere sotto le luci accecanti necessarie per le riprese. Fu così che Starevich, nel lontano 1910, ebbe la straordinaria quanto macabra idea di sostituire i filmati di scarabei vivi con l’animazione di scarabei morti.
Bastò incollare del fil di ferro al posto degli arti, e il gioco era fatto: si ottennero così dei perfetti insetti-marionette, che, mossi e filmati poco alla volta, simularono efficacemente i combattimenti osservati da Starevich. Il corto ottenuto, Lucanus Cervus (1910), è purtroppo andato perduto, ma è rimasto nella memoria storica come un punto di svolta per il mondo dell’animazione: non solo il primo passo dell’animazione russa, ma anche il primo esempio di animazione stop-motion che non utilizzasse oggetti, ma vere e proprie marionette.
Il risultato fu quindi una prima sfumatura, una primissima diversificazione all’interno della tecnica. Da quella che era una sola categoria, la stop-motion, ne sorsero due: quella che animava veri e propri oggetti, oggi detta object animation, e quella che animava invece marionette e simili, chiamata puppet animation. Come vedremo, fu quest’ultima in particolare a dominare su tutte le altre sue varianti: tanto che oggi, nella cultura generale, è spesso questa nello specifico a essere indicata genericamente come “stop-motion”.
Per quanto riguarda Starevich, egli per fortuna non si fermò al suo primo esperimento, e anzi portò avanti la sua invenzione in una continua rielaborazione tecnica e narrativa: negli anni successivi, i suoi piccoli cadaveri furono coinvolti in scandalose commedie erotiche (La vendetta del cineoperatore, 1912), favole esopiche (La cicala e la formica, 1913) e dolci fiabe natalizie (Il Natale degli insetti, 1913). Pochi anni più tardi, dall’altro lato del pianeta, un californiano di nome Willis O’Brien, grande fan della paleontologia, avrebbe costruito da sé le proprie, personali marionette americane: ovviamente si trattava di scimmie, dinosauri e altre creature preistoriche, utilizzate prima per il corto The Dinosaur and the Missing Link: A Prehistoric Tragedy (1915) e poi per il film The Ghost of Slumber Mountain (1918). Gli antenati, cioè, di quello che dieci anni più tardi sarebbe stato il celeberrimo Il mondo perduto (1925), la grande avventura di fantascienza hollywoodiana che rese immortali gli effetti speciali in stop-motion. Finalmente, la tecnica aveva raggiunto nuove frontiere.
Percorrere lungometraggi a passo uno
Per i successivi decenni, la stop-motion continuò instancabilmente a crescere, non solo in tecnica e in qualità, ma anche in varietà e sperimentazione: diffusa capillarmente nei diversi angoli del globo, essa fu strumento di infiniti e immensi autori, atti a migliorarne costantemente la precisione, l’estetica, lo stile.
Novità dirompente di quegli anni fu, ad esempio, la cut-out animation: un particolarissimo nuovo metodo, in cui gli enti fisici mossi per animare non erano più oggetti o marionette, ma invece sagome di carta di varia forma e dimensione, tali da produrre personaggi, sfondi ecc. Una strategia, quindi, capace di combinare facilmente grande gusto estetico ed estrema economia di mezzi, e che non a caso diede luce ai primissimi lungometraggi d’animazione della storia del cinema: fra questi, le opere satiriche dell’autore argentino Quirino Cristiani, purtroppo andate perdute in un incendio del 1926; o anche Le avventure del principe Achmed (1926), affascinante racconto esotico interamente realizzato in silhouette, uscito più di dieci anni prima del ben più celebre Biancaneve e i sette nani (1937).

Dal canto suo, lo stesso Starevich, trasferitosi in Francia dopo la Rivoluzione d’Ottobre, continuò a curare quel suo personalissimo stile d’animazione con una lunga carriera cinematografica, culminata negli anni ’30 con la produzione e distribuzione di Una volpe a corte (1937): fiaba d’immenso valore artistico e grande atmosfera, è oggi soprattutto conosciuto come il primo lungometraggio interamente realizzato in puppet animation (preceduto solo di pochi anni da Il nuovo Gulliver, film sovietico che faceva già grande utilizzo della tecnica, ma come parte di una più ampia tecnica mista).
Come dicevamo, però, la maggior spinta nella grande industria cinematografica venne data alla stop-motion grazie al suo massiccio utilizzo come effetti speciali. Ben prima dell’avvento della moderna computer-generated imagery (CGI), infatti, essa costituiva la strategia più efficace per inserire elementi di fantasia all’interno dei lungometraggi in live-action, ben più diffusi e proficui dei costosi esperimenti animati. Torniamo ad esempio a O’Brien, il californiano: anche lui continuò sul sentiero della sua grande passione animata, tanto da farsi strada nella grande macchina di Hollywood e, nel 1933, essere così autore degli effetti speciali di King Kong. Esattamente: quel primissimo King Kong, capace di impressionare il mondo intero dal tetto dell’Empire State Building, fu forte non solo della potenza del suo grande regista, ma anche del talento animato di un vero e proprio padre del cinema.
La Hollywood dei modellini
Al seguito di O’Brien e delle sue pirotecniche creature comparve un altro celeberrimo animatore americano: Ray Harryhausen, che potremmo definire come la chiave di volta dei grandi kolossal americani del secondo ‘900. Fra gli anni ’50 e ’80, infatti, egli fu capace di continuare e perfezionare le tecniche immense del suo maestro, fino a diventare una delle colonne portanti del fantastico hollywoodiano. L’isola misteriosa (1961), Gli argonauti (1963), Scontro di titani (1981): qualunque fosse il film, la maestria e le fantasie mitologiche di Harryhausen riuscivano sempre a portare un po’ di magia nelle sale di tutto il mondo, e finirono per lasciare un segno indelebile non solo nella storia del cinema, ma anche nell’immaginario collettivo.
L’utilizzo dell’animazione a passo uno nel grande cinema americano continuò comunque almeno fino agli anni ’80, prima che gli effetti speciali in digitale portassero la loro enorme, particolarissima rivoluzione. Fra gli altri grandi talenti del periodo, non si può non nominare Phil Tippett. Oggi leggenda vivente dell’animazione, fabbro ed eremita di un mondo tutto suo, Tippett cominciò la propria carriera negli anni ’70, quando, ispirato proprio dai lavori di Harryhausen, iniziò anche lui a lavorare per la frontiera degli effetti speciali: ma non per un’azienda qualsiasi, ma per quella macchina rivoluzionaria che fu la Industrial Light & Magic di George Lucas. Assoldato già dal primo Guerre Stellari (1977), continuò a collaborare per tutta la saga, realizzando ad esempio gli iconici Camminatori de L’Impero Colpisce Ancora (1980) e vincendo addirittura un Oscar per Il ritorno dello jedi (1983).

Per l’occasione, Tippett arrivò a innovare per sempre i VFX (Visual Effects) in stop-motion: introdusse infatti la go motion, tecnica che, con vari espedienti di puro genio, aggiungeva un effetto di motion blur (cioè di sfocatura dovuta al movimento) alle azioni in stop-motion, rendendoli così molto più fluidi, realistici e integrati nel contesto live-action del film. Tippett continuò a lavorare per l’industria degli effetti speciali (Howard e il destino del mondo, Robocop), arrivando infine a rinnovarsi quando la CGI arrivò anche alla Industrial Light & Magic: sulla scia dei suoi maestri, Tippett continuò a occuparsi di bestie feroci e creature mostruose, venendo accreditato ad esempio col curioso titolo di “Dinosaur Supervisor” in Jurassic Park (1993).
Potete ben capire, quindi, come la stop-motion, ben prima dei grandi lungometraggi dedicati, occupasse già un ruolo sostanziale nell’industria e cultura cinematografica, americana e non. Ma non finisce qui: perché se abbiamo ben spulciato il cinema del periodo, non abbiamo ancora nemmeno sfiorato l’intricato labirinto del piccolo schermo.
L’infanzia d’argilla
Dagli anni ’50 fino ad oggi, la stop-motion ha continuato immobile a occupare la linfa di un mezzo ramificato come la televisione: nel suo lungo viaggio, è partita dai grandi talenti degli show per i più piccoli, arrivando infine a diventare mezzo autoriale della miglior TV per adulti.
Snodo fondamentale di questo percorso fu Gumby (1955-1989), lunghissima e tenerissima serie per famiglie incentrata sull’omonimo protagonista, e creata da un nome esemplificativo come Art Clokey. La serie e il suo creatore, infatti, furono fondamentali per la popolarizzazione della cosiddetta claymation: tecnica nata già agli albori del cinema, utilizzava come strumenti della stop-motion figure malleabili in argilla, plastilina ecc., così quindi capaci di combinare la normale puppet animation con una libertà visiva ed elastica simile a quella dei disegni tradizionali.

La claymation ebbe ampio successo nella televisione di tutto il mondo, sia ad altissimi livelli internazionali con prodotti come Pingu (1990-2006) sia a quelli locali, con ad esempio i prodotti italiani di Francesco Misseri (Mio Mao). A perfezionare la tecnica furono però principalmente due possenti colonne d’Ercole, due grandi case d’animazione ancora oggi in attività.
Da una parte la Aardman Animations: cominciando a lavorare negli anni ’70 per la televisione inglese, la Aardman scalò velocemente la competizione nazionale, arrivando nel 1989 a raggiungere una prima base del successo futuro con i prodotti di grande comicità e intelligenza di Nick Park, come Creature Comforts e il primissimo Wallace & Gromit.
Dall’altra, invece, troviamo l’attività di Will Vinton: un simpatico, baffuto, paffuto ometto dell’Oregon, la cui passione per la claymation ricoprì un ruolo fondamentale per la sua diffusione nel mondo. Vinton, forte della vittoria di un premio Oscar già col suo cortometraggio d’esordio (Closed Mondays, 1974), fondò negli anni ’70 la Will Vinton Productions, che si affermò presto come grandissima esperta e sperimentatrice di claymation negli Stati Uniti. Non a caso, in realtà, il termine “claymation” lo inventò lo stesso Vinton.
La felice produzione della compagnia continuò, fra alti e bassi, per decenni, specializzandosi con successo in una serie infinita di prodotti: cortometraggi, video musicali, spot (dalle sue pubblicità nacquero delle vere e proprie icone del mondo pop americano, come le M&M’s antropomorfe o i California Raisins); la Vinton arrivò anche a lavorare agli effetti speciali per la Disney (Nel fantastico mondo di Oz, 1985) e per Michael Jackson (Moonwalker, 1988), così come addirittura a lavorare a un film tutto loro, Le avventure di Mark Twain (1985), film cult interamente realizzato in claymation.
Guerra fredda: una cultura in stop-motion
La pandemia di stop-motion non risparmiò neanche il blocco orientale, che anzi risultò ben predisposto alla tecnica in quanto già radicata nel territorio da decenni. Nell’affermazione del passo uno all’interno della cultura sovietica, svolse sicuramente un ruolo fondamentale l’autore cecoslovacco Jiří Trnka, detto “il Walt Disney dell’est europa”: nato come illustratore e burattinaio, Trnka cominciò a lavorare nell’animazione alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e continuò fino alla sua precoce morte nel 1969. I suoi lavori percorrono soprattutto il solco di una passione per fiabe e leggende, variando da classici della letteratura (L’usignolo dell’imperatore, 1949; Sogno di una notte di mezza estate, 1959) a racconti della tradizione locale (Vecchie leggende ceche, 1953); ma, al contrario di Walt Disney, non disdegnò anche contenuti ben più audaci, surreali e atipici: si pensi alla satira antibellica de Il buon soldato Svejk (1955), la distopia tecnologica di Nonna cibernetica (1962) o l’amara metafora sulla condizione dell’artista ne La mano (1965).
Oltre ai suoi lavori, ricordiamo anche altri grandi classici della televisione del blocco orientale: su tutti, l’icona della Germania Est Sabbiolino, riconosciuta come la più lunga serie animata della storia in quanto prodotta ininterrottamente fin dal 1959 (ben trent’anni prima de I Simpson).

E a fianco di tutto questo, comunque la stop-motion non rimase mai solo facile strumento delle produzioni commerciali, ma anche pratico pennello di autori e artisti indipendenti, sparsi in diverse nazioni ma sempre attratti dal suo innegabile fascino. Fra gli altri, ricordiamo: i cecoslovacchi Jan Švankmajer (Alice, 1988; Faust, 1994; Dimensions of Dialogue, 1983) e Jiří Barta (The Pied Piper, 1986; Toys in the attic, 2009), autori di straordinarie opere dallo spiccato gusto surreale e dark fantasy, così come Karel Zeman (La diabolica invenzione, 1958), magico artista fantascientifico sospeso fra live-action e cut-out; The Sand Castle (1977), cortometraggio finanziato dalla National Film Board of Canada (NFB), che seppe utilizzare della sabbia con tale cura da vincere un Oscar; Il pianeta selvaggio (1973), opera in cut-out capace di combinare arte surrealista e fantascienza antispecista, recentemente tornata nelle sale italiane; o anche Norman McLaren (Neighbours, 1952), regista geniale ed eclettico che, ancora sotto l’ala della NFB, sperimentò ampiamente anche con una tecnica particolarmente di nicchia, la pixilation: vale a dire, animazione in stop-motion applicata però a esseri umani in carne ed ossa, effettivamente fotografati frame per frame invece che tradizionalmente filmati.
Un miracolo targato Tim Burton
Nel 1990, Tim Burton era già da tempo asceso nel suo oscuro, personale empireo cinematografico: verso la fine degli anni ’80, una perfetta trilogia di nuovi classici del cinema (Batman, Beetlejuice – Spiritello Porcello, Edward mani di forbice) l’avevano reso immediatamente uno dei registi più richiesti, uno degli autori più acclamati, una delle figure più mitizzate di tutta Hollywood. Tim Burton, però, era già stato anche molte altre cose, e più di tutte era stato un freak: un mostro in famiglia, un mostro a scuola, persino un mostro alla Walt Disney Animation. E proprio lì, alla casa di topolino, aveva lasciato anni addietro uno dei suoi concept più cari: un piccolo poema che però aspirava a essere film, chiamato The Nightmare Before Christmas.
Un progetto strano, originalissimo, ma soprattutto un’operazione impossibile da realizzare quando ancora era un umile animatore, peraltro neanche ben visto: ma neanche lontanamente difficile da fare, per il nuovo Tim Burton. Forte della sua nuova reputazione d’acciaio, Burton riuscì a trattare con la Disney non solo per finanziare il progetto, ma anche per ottenere qualcosa di folle: poterlo girare interamente in stop-motion.
Una scelta psicotica, considerando che tutti i vari lungometraggi in stop-motion degli ultimi decenni (incluso quel Le avventure di Mark Twain di Will Vinton, risalente a pochi anni prima) si erano immediatamente trasformati prima in flop devastanti e poi in opere dimenticate dalla gran parte del mondo. Ma Burton, grande fan della tecnica fin da quando era cresciuto a suon di Ray Harryhausen, non si arrese. Raccolse una grande squadra di collaboratori: un team di esperti animatori guidati dall’amico Henry Selick, che si occupò infine dell’effettiva realizzazione e regia del film (mentre Burton girava Batman – Il ritorno); il musicista e cantante Danny Elfman, che si sarebbe occupato della composizione delle canzoni (e che, dopo l’esperienza, si sarebbe trasformato in uno dei compositori di colonne sonore più riconosciuti a Hollywood); e la sceneggiatrice Caroline Thompson, già collaboratrice di Burton per il testo di Edward mani di forbice.

Questo dream team, apparentemente destinato a una missione impossibile, riuscì infine a terminare un film davvero completo, poetico e bizzarro, che nel 1993 venne distribuito nei cinema di tutto il mondo sotto il marchio Touchstone Pictures (ovvero, quello fatto per i prodotti che la compagnia Disney non voleva associare direttamente al proprio nome). Il film, a dispetto di quanto si possa pensare, alla sua uscita non fu in realtà un grandissimo successo di box-office: ma, vuoi il passare del tempo, vuoi la stagionatura del pubblico, vuoi il mercato home video, la sua reputazione nel corso degli anni crebbe smisuratamente, fino a diventare non solo un semplice film cult, ma anche una vera e propria icona della cultura pop.
Fu questo, soprattutto, il ruolo di Nightmare Before Christmas: non tanto il primo film in stop-motion, quanto quello che più di tutti riuscì a dimostrare al mondo che quel tipo di estetica e di tecnica poteva non solo esistere, ma anche splendere sul piano del lungometraggio. Il corrispettivo in stop-motion, insomma, di ciò che Biancaneve e i sette nani (1937) era stato sessant’anni prima per l’animazione tutta.
Ciò che ne seguì
Non è un caso, quindi, che i grandi prodotti americani in stop-motion degli anni successivi cercarono di ricalcare quel suo particolare successo, legando così per sempre l’idea di stop-motion a quella di atmosfere gotiche e contenuti macabri; non è un caso che il secondo lungometraggio della Aardman, il premio Oscar Wallace & Gromit – La maledizione del coniglio mannaro (2005), fu non solo un adattamento dei suoi personaggi più celebri, ma anche una parodia del genere horror; e non fu un caso che, una decina di anni dopo Nightmare Before Christmas, la Warner Bros decise di realizzare un film in stop-motion di Tim Burton tutto per sé.

La Sposa Cadavere, Tim Burton
La sposa cadavere (2005), altra perla in pieno stile burtoniano (e questa volta effettivamente diretta da Burton), fu dal canto suo anche un altro grande passo avanti per la puppet animation. Oltre alla generale evoluzione in cura e qualità, infatti, il film si caratterizzò per un utilizzo di puppet straordinariamente sofisticati: non delle semplici marionette in metallo e silicone, che allora costituivano già un apice tecnico per le produzioni, ma vere e proprie bambole meccaniche capaci di muovere il viso attraverso piccoli ingranaggi al loro interno. Una vera rivoluzione, rispetto alle infinite teste intercambiabili fino ad allora necessarie per far cambiare espressione ai personaggi.
A realizzare l’animazione de La sposa cadavere, tra l’altro, fu la stessa Will Vinton Productions, che giusto qualche anno prima era stata sconvolta da una brutale questione legale, al termine della quale lo stesso Will Vinton fu licenziato dalla compagnia: a sostituirlo salì Travis Knight, impiegato dell’azienda e, soprattutto, figlio di Phil Knight, fondatore e presidente della Nike.
La compagnia d’animazione, prima sull’orlo del lastrico ma ora paternamente nutrita dalla ben più ricca marca di scarpe, si trasformò così nella Laika, LLC.: e ovviamente non ci volle molto perché cominciasse anche lei a salire sulla cresta dell’onda dei film in stop-motion. Nacque una combinazione chimica perfetta: il regista di Nightmare Before Christmas, Henry Selick; uno degli autori più celebri della letteratura contemporanea, Neil Gaiman; e, infine, i soldi della Nike. Il risultato, Coraline e la porta magica, il primo film in stop-motion girato anche per il 3D, uscì in sala nel 2009, e venne immediatamente acclamato come un altro grande classico del cinema d’animazione contemporaneo.
L’invisibile Golden Age
Ormai, al cinema, molti grandi registi hanno adottato il mezzo, non solo per determinate scelte stilistiche ma addirittura per interi progetti animati: ovviamente Tim Burton, che continua sporadicamente a sperimentare con la tecnica (vedasi il film Frankenweenie del 2012, o il suo spezzone in stop-motion nella nuova stagione di Mercoledì, o anche il suo nuovo e misterioso progetto), ma come e più di lui anche Wes Anderson, che ha utilizzato la stop-motion per i meravigliosi lungometraggi Fantastic Mr. Fox (2009) e L’isola dei cani (2019), nonché come effetti speciali in vari film e corti. Anche Guillermo del Toro si è aggiunto al quadro negli ultimi anni: il suo Pinocchio (2022), distribuito da Netflix, si è aggiudicato un Oscar nel 2023, e dopo il nuovo Frankenstein (2025) il regista messicano starebbe già lavorando a un nuovo progetto animato, Il gigante sepolto.

Guillermo del Toro’s Pinocchio – (L-R) Gepetto (voiced by David Bradley) and Pinocchio (voiced by Gregory Mann). Cr: Netflix © 2022
A fianco dei grandi registi, anche le solite compagnie storiche continuano a lavorare. La Laika, ad esempio, fra il 2012 e il 2019 ha prodotto ben altri quattro film in stop-motion, come Paranorman (2012) e Kubo e la spada magica (2016): se però l’apprezzamento della critica è rimasto perlopiù invariato, sempre più tiepida è stata invece la reazione del pubblico agli incassi. Indebolita da una serie di perdite progressivamente maggiori, potremmo dire che la Laika si sta attualmente prendendo una pausa di riflessione: nei sei anni che ormai ci separano dal suo ultimo film, Mister Link (2019), la Laika ha non solo messo in cantiere numerosi nuovi progetti, ma anche annunciato di voler cominciare a produrre film in live-action. Per vedere come andranno le cose, dobbiamo innanzitutto aspettare Wildwood, il loro prossimo e attesissimo progetto, rimandato per ora al 2026.
Anche la Aardman continua ancora a reggere: nonostante decenni di vita e addirittura un terribile incendio nel 2005, la compagnia prosegue una lunga produzione composta di serie di grande successo (Shaun, vita da pecora, 2007) e film di minor clamore (Pirati! Briganti da strapazzo, 2012). Dopo aver sperimentato anche lei con la CGI, oggi la Aardman mantiene ancora importanti collaborazioni, ad esempio con Star Wars, con Pokemon o con la stessa Netflix, che ha prodotto e distribuito i suoi due ultimi sequel Galline in fuga – L’alba dei nugget (2023) e Wallace e Gromit – Le piume della vendetta (2024).

Effettivamente, Netflix e la televisione in generale stanno ancora oggi giocando un ruolo fondamentale nella produzione stop-motion. Dal canto suo, abbiamo visto come il gigante dello streaming finanzi progetti sia per i giganti (vedasi anche Wendell&Wild del 2022, l’ultimo progetto di Henry Selick) sia però per autori minori, come per The House (2022). In generale, poi, la TV ospita ancora numerosi progetti, oggi destinati anche a un pubblico adulto: sotto la celebre ala di Adult Swim, ad esempio, troviamo prodotti come Robot Chicken (2005) e Moral Orel (2005), famose per premere l’acceleratore sul purissimo black humor. Basti solo pensare che lo stesso pilota della celebre serie South Park (1997), ad esempio, fu realizzato in cut-out, anche se il resto della serie è prodotta solo con una simulazione digitale della tecnica.
Fra gli altri progetti contemporanei, slegati da particolari fenomeni ma capaci comunque di distinguersi per meriti artistici e plauso della critica, troviamo: i film candidati agli Oscar La mia vita da Zucchina (2016) e Marcel the Shell (2021); Mad God (2021), opera infernale e mastodontica, ma soprattutto progetto personale proprio di Phil Tippett (quello di Star Wars, per intenderci), realizzato dopo trenta sudatissimi anni di lavoro e distribuito in Italia da Midnight Factory; Anomalisa (2015), progetto scritto e diretto da quel Charlie Kaufman celebre per Essere John Malkovich (1999) ed Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004); o anche i lavori di Adam Elliott (Mary and Max, 2009; Memoir of a snail, 2024), autore ancora oggi inedito in Italia, caratterizzato da toni divertenti, minimalisti e amarissimi.
Insomma, l’eredità di Jack Skeletron non ha ancora smesso di farsi sentire. Per quanto probabilmente non ancora amata dal pubblico come l’animazione tradizionale, e tantomeno amata dal box office quanto la CGI, la stop-motion oggi continua più che mai a essere utilizzata: un livello tale di diffusione e diversificazione del mezzo non si era mai visto prima, fra lungometraggi nei cinema di tutto il mondo, prodotti nello streaming e opere varie nei festival; complice anche la benevolenza della critica, e una lunghissima schiera di appassionati contemporanei. La stop-motion continuerà a vivere, e noi continueremo ad amarla.