Sin dalle origini, il paesaggio filmico ha oscillato tra due funzioni: da un lato, rappresentare la realtà in tutta la sua concretezza; dall’altro riflettere visivamente lo stato d’animo dei personaggi.
Ma nel contesto del cinema giapponese contemporaneo, questa complessità si intensifica.
Qui il paesaggio non coincide semplicemente con ciò che viene visto. È un’entità viva, una forza capace di modellare l’emotività e la spiritualità dei personaggi.
Vi è una sensibilità specificamente nipponica nel modo di rappresentare spazi aperti, case, boschi, città. Una percezione che affonda le radici in secoli di poesia, filosofia estetica e tradizioni animistiche. Termini come ma (il “vuoto”), mono no aware (la malinconia dell’effimero), fūkei (paesaggio) sono diventati linfa narrativa per generazioni di cineasti.
L’eco di Kurosawa

Gli anni Ottanta diventano un punto di partenza rivelatore. È un decennio di transizione, in cui la tradizione visiva dei grandi maestri incontra le trasformazioni culturali e urbane del Giappone post-boom economico.
Ed è in questa soglia che si colloca Kagemusha di Akira Kurosawa. Il film non solo chiude un ventennio complesso della carriera del regista, ma riafferma, con forza quasi pittorica, l’idea che il paesaggio sia parte integrante della drammaturgia.
Kurosawa amava ricordare quanto per lui la natura fosse una forza narrativa attiva:
“Mi piacciono le estati torride, gli inverni rigidi, le piogge e le nevicate intense, e credo che molti dei miei film lo mostrino. Mi piacciono gli estremi perché li trovo più vivi.”
Questa dichiarazione rivela con chiarezza la sua concezione del paesaggio. Non un elemento neutro, ma un corpo vivo che vibra con la storia.
In Kagemusha questa visione raggiunge uno dei suoi esiti più compiuti. Pianure desolate, nebbia che avvolge i soldati, il vento che trascina polvere e tensione, non sono semplici linee dell’orizzonte, ma partecipano al dramma, lo amplificano e lo modellano.
La natura osserva e allo stesso tempo interviene, riflettendo la crisi identitaria del protagonista e trasformando l’ambiente in una sorta di specchio emotivo della narrazione. Il paesaggio, così, diventa un personaggio invisibile ma essenziale.
Cieli in primo piano

Love Letter.
Il periodo successivo spalanca un nuovo modo di guardare allo spazio filmico. L’ambiente non è più solo un riflesso interiore, ma un interlocutore vivo, capace di insinuarsi tra i gesti dei personaggi e spostarne il baricentro emotivo.
In Maborosi di Hirokazu Kore-eda questo movimento è immediato. Le periferie di Osaka non si limitano a ospitare la storia di Yumiko: ne diventano l’eco.
La nebbia taglia i contorni, la luce si ritira, i binari del treno segnano una distanza che non è geografica, ma affettiva. Ogni inquadratura sembra dilatare il tempo, come se il mondo rallentasse per permettere al lutto di trovare una forma. Il paesaggio è visto come un complice silenzioso, che assorbe il dolore e lo restituisce trasformato in attesa.
A sua volta, Shunji iwai, con Love Letter (1995), mette in scena un Hokkaido innevata che capovolge la percezione dello spazio.
Le strade imbiancate diventano luoghi in cui il passato affiora con delicatezza, simile a un volto che si rivela dietro un vetro appannato. È l’ambiente stesso a farsi voce.
In quei vuoti, in quelle distese bianche risuona l’eco della lettera gridata verso le montagne:
“Ogenki desu ka?”
Ed è lì, in questo dialogo muto tra l’uomo e ciò che lo circonda, che il film trova la sua emozione più pura: un’intimità che non chiede di essere spiegata, solo riconosciuta.
Così, film dopo film, lo spazio si rivela non come un semplice contenitore, ma come un personaggio a pieno titolo.
L’era delle città che osservano

Eureka
Nel decennio dei Duemila, segnati da una crescente frammentazione sociale e da un’espansione metropolitana senza precedenti, registi e autori scelgono città, periferie o interstizi moderni dove i personaggi si perdono o si cercano.
In Eureka (2000), lo spazio sembra respirare insieme ai protagonisti. Dai percorsi abbandonati alle terre aride sotto il sole, il tutto in un silenzio che pesa. È come se il paesaggio sapesse qualcosa che loro ancora non sanno. La fotocamera di Shinji Aoyama, oltre a usare un tono cromatico color seppia, si sofferma sugli spazi, dai supermercati vuoti ai parchi abbandonati. Si crea un ritmo lento, quasi un “respiro” del film.
Al contrario, la foresta di Naomi Kawase in The Mourning Forest svela la fragilità e la solitudine dei personaggi.
Kawase lo dice chiaramente: la foresta conserva una “potenza” propria, quasi terapeutica. Ma la sua non è una terapia dolce. È una verità che si manifesta in forma di natura, che avvolge i protagonisti fino a confondere il confine tra il loro dolore e quello più grande del mondo stesso.
Il respiro nascosto di una metropoli in trasformazione

La città di Tokyo, in Tokyo Sonata (2008), che non è la solita metropoli scintillante di cartolina ma un organismo complesso. Pulsa e si contrae incastrando i personaggi nelle sue maglie invisibili.
“Tokyo ha sempre rappresentato la cornice delle mie storie, tanto da raffigurare un elemento cardine da cui spesso sono partito per formulare le narrazioni e i temi che le attraversano. Però c’è da considerare anche il fatto che è davvero complesso girare un film lì, perché dal punto di vista puramente burocratico bisogna ottenere numerose licenze per poter effettuare le riprese nei vari spazi della città. Inoltre, almeno fino al 2008, Tokyo era sì caotica, ma era contraddistinta ancora da una commistione quasi naturale tra edifici di vecchia data e costruzioni di stampo avveniristico, un fattore che mi ha sempre affascinato”.
Queste le parole di Kurosawa, che rivelano non soltanto il legame quasi viscerale che il regista intrattiene con la capitale nipponica, ma anche la consapevolezza di un cambiamento in atto.
La città che per decenni aveva alimentato le sue storie non è più la stessa.
È come se il paesaggio urbano, dopo il 2008, avesse progressivamente smarrito quella tensione interna che permetteva ai personaggi di specchiarsi tra le sue cicatrici.
Devastazione a fuoco lento

Himizu
Il sisma del 2011 segna un punto di svolta per il cinema giapponese. Nel post-Fukushima, infatti, l’immagine del territorio si carica di una nuova gravità: diventa il luogo in cui si manifestano la vulnerabilità del presente, la crisi ecologica, il senso di perdita e, allo stesso tempo, il tentativo di ricostruzione.
In questo contesto, molti autori tornano al paesaggio per cercare tracce di un’identità smarrita, opponendosi alla progressiva uniformazione urbana e alla modernizzazione accelerata del continente nipponico.
Con Himizu (2011) di Sion Sono, girato immediatamente dopo il maremoto, si incalza perfettamente questo aspetto. Il regista ha spiegato di essersi recato in luoghi in cui lo tsunami aveva colpito, ma di non aver voluto filmare la devastazione in modo documentaristico:
“Abbiamo fatto una lunghissima inquadratura che mostrava le macerie […] ti darà un’idea di quanto sia vasto quel paesaggio. È molto drammatico […] ma mostra solo la portata della devastazione”.
In Himizu lo spazio non è più simbolo del trauma: è il trauma stesso, registrato nella sua estensione fisica e nella sua immobilità. Le rovine reali diventano così un paesaggio che non sostiene il racconto, ma lo assorbe; un luogo emotivamente svuotato, dove la storia individuale si scontra con un territorio che non offre più alcun riflesso.
A questo sguardo radicale si affianca, in una direzione diversa ma complementare, Still the Water (2014) sempre di Kawase.
Qui il paesaggio non appare come un corpo ferito, ma come una presenza ciclica e sovrapersonale, capace di interrogare i personaggi attraverso la continuità della natura. Le lunghe inquadrature dell’oceano, dell’isola di Amami e della foresta non costituiscono uno sfondo, ma un ritmo più grande, quasi rituale, entro cui la fragilità umana si ridimensiona.
Questa tendenza si ritrova anche nei film ambientati nelle città. La metropoli appare spesso come un corpo sordo, incapace di restituire complessità. Gli edifici, le infrastrutture, gli interni diventano spazi frammentati, attraversati da una sensazione di estraneità. Registi come Kurosawa, ma anche Ryūsuke Hamaguchi o Nobuhiro Suwa, mostrano una città in cui l’individuo non riesce più a riflettersi, un paesaggio urbano che ha smarrito le sue “crepe narrative” e che costringe i personaggi a cercare altrove un rapporto autentico con il mondo.
Dall’anima dei boschi al cuore dei grattacieli

Complicity
Se negli anni precedenti il paesaggio costituiva un luogo vivo con cui i personaggi instauravano un rapporto quasi rituale, nel solco della sensibilità shintoista e dell’estetica del wabi-sabi, il cinema più recente rivela invece un progressivo distacco da questi riferimenti culturali.
La metropoli contemporanea, sempre più tecnologica, diventa il nuovo scenario dominante. Uno spazio che, pur essendo densamente abitato, appare privo di radici, segnato dalla frammentazione e da un ritmo frenetico che rende difficile ogni forma di appartenenza.
In Complicity (2018) di Kei Chikaura si percepisce questa tendenza. Il paesaggio urbano non è un semplice sfondo, ma un dispositivo che restituisce visivamente la condizione di sospensione del protagonista.
La Tokyo di Chikaura è un organismo complesso e impersonale, attraversato da un flusso continuo di persone, luci e rumori, ma incapace di offrire un senso di appartenenza. Questo distacco contrasta con il legame profondo che il cinema giapponese tradizionalmente instaurava con il territorio.
Persino in Living in the Sky di Shinji Aoyama, la protagonista vive sospesa in un grattacielo, e il suo rapporto con la città si riduce alla contemplazione di uno skyline omogeneo, fatto di luci indistinte e finestre ripetute. L’immagine della metropoli si costruisce come spazio verticale e rarefatto, in cui la profondità del paesaggio viene sostituita da una superficie continua, generata dal vetro e dal cemento. Non esiste più una relazione diretta con la città.
Laddove un tempo il paesaggio naturale incarnava una spiritualità sottile, ora la città offre solo una natura artificiale, luminosa ma vuota, che nasconde un senso di disconnessione profonda.
La versione alternativa, ma in filigrana

Weathering With You.
Accanto a questa progressiva rarefazione del paesaggio nel cinema live action contemporaneo, che tende sempre più a riflettere il senso di sospensione emotiva dei personaggi attraverso l’opacità della metropoli, l’animazione giapponese degli ultimi anni sembra invece recuperare la vibrazione cromatica e sensoriale del paesaggio tradizionale.
Nei film come Your Name (2016) di Makoto Shinkai e Weathering With You (2019), il paesaggio torna a essere un organismo pulsante.
Le luci atmosferiche, l’acqua, le nuvole e i cieli saturi ricostituiscono un Giappone percepito non come superficie, ma come materia viva. L’animazione, grazie alla sua natura plastica, sembra conservare una memoria affettiva del territorio che il cinema dal vero ha progressivamente smarrito, offrendo allo spettatore un’idea di paesaggio giapponese ancora carica di meraviglia.
Fragile compagnia del vuoto

In Drive My Car (2021), Hamaguchi riesce tuttavia a ritagliare qualche piccolo scorcio che funziona ancora come estensione emotiva dei personaggi.
Non si tratta di fondali pittoreschi o di panorami spettacolari: il paesaggio qui è quasi sospeso, filtrato dalla distanza dei protagonisti e dal ritmo lento delle loro giornate. Strade deserte, interni spogli, finestre che incorniciano il mondo esterno diventano punti di rifrazione dei sentimenti.
Un dolore non detto, una lontananza percepita, quasi una pausa nel flusso della vita. In questo senso, Hamaguchi mantiene vivo il ruolo del paesaggio, ma in modo misurato e critico, mostrando come anche nel vuoto urbano possa emergere una fragile, ma significativa, carica emotiva.
Un nuovo capitolo con Yuiga Danzuka

Proprio a partire da questa trasformazione dello sguardo, ormai lontano dalle coordinate paesaggistiche che avevano dominato le stagioni precedenti, si inserisce Brand New Landscape (2025) di Yuiga Danzuka, che porta alle estreme conseguenze l’idea di un territorio non più emotivamente ricettivo ma sfuggente, a volte ostile.
Nel film, il paesaggio urbano non accompagna i personaggi ma sembra procedere a una velocità diversa dalla loro capacità di elaborare il passato. La scelta di ambientare la frattura familiare attorno a Miyashita Park amplifica questa tensione: un luogo rigenerato e levigato, isolato dal flusso della città, che diventa specchio rovesciato di legami che non si sono mai davvero ricuciti.
Talvolta però la narrazione sembra indugiare, forse più del necessario. Ciò non toglie che Brand New Landscape non è un opera che offre una consolazione, bensì un tipo di risonanza più silenziosa, che richiede tempo per depositarsi.
La posizione di Danzuka si colloca inoltre dentro una fase complessa del cinema contemporaneo giapponese. Caratterizzata da uno slittamento progressivo verso la digitalizzazione, che sta ridefinendo le regole e le estetiche del settore cinematografico.
Le nuove tecnologie hanno raffinato l’immagine, sì, ma hanno anche appiattito lo sguardo e spinto molte sale indipendenti verso scelte più lisce e meno coraggiose.
Guardando a questo percorso, sembra che il paesaggio nel cinema giapponese ha smesso di essere solo un riflesso interiore dei personaggi per diventare un’entità a sé, talvolta distante, talvolta ostile. Ciò che un tempo offriva conforto oggi sfugge e mette alla prova. Questo costringe lo spettatore a confrontarsi con uno spazio che non si lascia possedere facilmente.
È un cinema che insegna a percepire la distanza e a trovare nella sospensione stessa una forma di contemplazione.