Quando si parla di Avatar i discorsi che vengono fatti sono sempre gli stessi: grandi effetti visivi, CGI perfetta, 3D rivoluzionario, trama troppo semplice e grandissimo incasso. Anzi, il più grande incasso della storia del cinema.
Ma ridurre l’universo di Avatar a una serie di etichette sarebbe come osservare Pandora da lontano, senza mai metterci piede.
A pochi mesi dall’arrivo del terzo capitolo, vale la pena tornare indietro e capire come James Cameron sia riuscito a trasformare un esperimento tecnologico in un vero e proprio fenomeno culturale, capace di ridefinire — due volte — il concetto stesso di “cinema spettacolare”. Ma Avatar fu questo e altro. Non basta snocciolare una serie di parole e definizioni per comprendere davvero l’opera di James Cameron. Il regista più prolifico della storia che, dopo essere diventato il “Re del mondo” con gli 11 oscar di Titanic, ha deciso di aspettare ben dodici anni – dodici! – prima di tornare al cinema con un nuovo film. E allora che cos’è e cosa è stato Avatar?
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Il primo viaggio: l’impatto di Avatar
Avatar racconta la storia del marines Jake Sully (Sam Worthington) che, arrivato sul pianeta Pandora, si ritrova a pilotare un avatar. Un corpo biologico creato a immagine e somiglianza dei nativi del pianeta: i Na’vi. Lo scopo di Jake è quello di imparare a conoscere il popolo di indigeni per poterli convincere a spostarsi, e permettere a una grossa corporazione americana di estrarre un preziosissimo minerale dal sottosuolo. Le cose però si complicano quando Jake si innamora di Neytiri (Zoe Saldana), la figlia del capo tribù dei Na’vi.
Questa è la trama su cui si sviluppa Avatar, un film che ha avuto il suo punto di forza nell’aspetto visivo e nella tecnologia con cui è stato prodotto. La prima cosa che saltò all’occhio nel 2009 fu il 3D: una tecnologia che all’epoca era quasi morta, e che lo è altrettanto oggi. Praticamente Avatar (così come il seguito Avatar – La via dell’acqua) rappresentò un unicum per l’utilizzo del 3D, sia per la qualità che per il modo in cui Cameron lo mise al servizio della storia. La potenzialità della terza dimensione è stata sfruttata per far immergere gli spettatori in Pandora, un mondo creato completamente da zero. E qui entrò in gioco la CGI che permise lo sviluppo di questo mondo rendendolo ultra credibile all’epoca, così come lo è ancora oggi. A differenza del 3D che è praticamente scomparso, l’evoluzione tecnica della CGI c’è stata. Avatar, anche in questo caso – a distanza di ormai 16 anni – è uno dei picchi massimi raggiunti da questa tecnologia, superato solo dal suo successore. Tutto ciò fu fatto per favorire l’immersività più totale in un mondo creato con così tanta minuzia e precisione da risultare vivo, pulsante, verosimile. Un modo ricco di animali e piante, di luoghi fantastici tutti da scoprire ed esplorare, così efficace da reggere addirittura in 2D.
Ma questo non può bastare in un film, altrimenti sarebbe stato il documentario su di un pianeta inventato. Quello che rende così credibile e fruibile Pandora è quello che succede tra le pieghe del 3D e della CGI, ovvero la trama.

L’universalità dell’archetipo
- Avatar non è un’opera che ha fatto della complessità narrativa il suo punto di forza, ma l’ha resa fondamentale. James Cameron utilizzò un archetipo antichissimo – i paragoni con Pocahontas, Atlantis, Balla coi lupi o Dune si sprecano – proprio per renderlo accessibile a chiunque: universale. Certo, forse tutta la narrazione, i personaggi e quello che gli accade non è così originale, ma quello che è importante è che funziona. Funziona proprio perché è una storia conosciuta, qualcosa di insito nella nostra cultura e che può arrivare a tutti. Ma questo non significa che Avatar sia privo di profondità narrativa. È un film che riflette sulla natura, sulla simbiosi dell’uomo con la terra e di come uno non possa vivere senza l’altro. Affronta il tema del colonialismo e dell’imperialismo facendo rivivere attraverso la guerra tra umani (americani) e Na’vi il genocidio dei Nativi americani, del Vietnam e – all’epoca attualissima – la situazione dell’Iraq. Descrive perfettamente la percezione che siano gli esseri umani a essere alieni su Pandora, e non viceversa. E una frase detta da Jake è esplicativa di tutto ciò:
“Non scenderanno a patti… Per cosa? La birra light e i Blue Jeans? Loro non vogliono niente di quello che abbiamo noi.”
È tutto lì: la convinzione di essere i salvatori dell’universo che portano pace e civilizzazione, quando alla fine ciò che viene lasciato è guerra e distruzione.
Ascoltare e tramandare storie è nel nostro DNA, e Cameron questo lo sa, sa come fare emozionare e lo fa rivoluzionando il modo di fare cinema ma rimanendogli fedele.
L’eredità di Avatar
Avatarè il più classico dei kolossal hollywoodiani. Portò al cinema un pubblico mai visto e lo fece non con una storia incredibile o rivoluzionaria, ma con le immagini e con la voglia di stupire e fare emozionare.
Il cinema è l’arte popolare per eccellenza, e James Cameron questo lo ha capito, creando un’opera per tutti che seppe affascinare proprio come il cinema degli albori.
Oggettivamente Avatar fu un evento che durò un certo periodo e poi praticamente venne dimenticato dalla cultura popolare, ma quando Cameron richiamò il pubblico per una nuova avventura su Pandora, la risposta fu immediata e di massa. Perché? Perché le persone vogliono vivere avventure, emozioni e stupirsi e tutto ciò glielo può dare solo la magia della Settima Arte.
Tredici anni dopo – II ritorno con la via dell’acqua
Tredici anni dopo – nel 2022 – James Cameron ci riporta su Pandora per vivere nuove avventure, su quella che potrebbe essere definita una luna lontana lontana. Cameron, come il suo Jake Sully, torna sul pianeta per riconnettersi a qualcosa di perduto: la capacità del cinema di farci credere in un mondo nuovo. Ma nel farlo, ci ricorda anche che la meraviglia è un’arma a doppio taglio: può incantarci, ma anche distrarci.
Su Pandora sono passati altrettanti anni e, Jake Sully– ormai capo tribù degli Omatikaya – e Neytiri hanno messo su famiglia. Hanno tre figli biologici: il più grande Neteyam (Jamie Flatters)), quello di mezzo Lo’ak (Britain Dalton) e la piccola Tuk (Trinity Jo-Li Bliss); e due figli adottati, Kiri – nata spontaneamente dal corpo della dottoressa Grace (Sigourney Weaver) – e Spider (Jack Champion), un ragazzo umano rimasto su Pandora. Vivono in tranquillità fino a quando non torna “la gente del cielo” e una vecchia conoscenza torna a dare la caccia alla famiglia Sully: il capitano Quaritch (Stephen Lang) in un nuovo corpo da Avatar. Così Jake sarà costretto a fuggire e a chiedere rifugio ad un’altra tribù di Na’vi: i Metakaina.
La meraviglia di Pandora
Avatar – La via dell’acqua è un film maestoso. Come nel primo, e più del primo, è un’esperienza visiva che fa diventare lo schermo della sala una finestra su un mondo fantastico. James Cameron ha usato ogni mezzo a sua disposizione per rendere Pandora ancora più reale e credibile. Ogni elemento dialoga perfettamente con tutto ciò che lo circonda creando un senso di sinuosità e funzionalità mai visto; la percezione è che quello che vediamo sia reale ed esista. Tutto ciò funziona, ovviamente, grazie alla tecnologia 3D. È impossibile non nominarla; la terza dimensione e l’aggiornata tecnologia della motion capture esprimono il loro meglio, e giocano un ruolo fondamentale. I Na’vi funzionano così bene da sembrare attori altri tre metri e truccati di blu. I loro movimenti, le interazioni tra loro e l’ambiente rasenta la perfezione, quasi da far dubitare che sia stato girato su un set completamente spoglio e grigio. Cameron sa perfettamente come usare queste tecnologie per renderle funzionali alla regia. Si nota maggiormente nelle scene che passano da fuori a dentro l’acqua, che sembra avvolgere lo spettatore tanto da far trattenere il fiato.
La fatidica trama
Ma non bisogna farsi abbagliare da questo miracolo tecnologico.
Avatar – La via dell’acqua è il secondo film della saga a cui seguiranno ben altri tre seguiti che sono già stati annunciati. La sensazione è che questo capitolo sia un semplice episodio di passaggio; anzi rischia quasi di snaturare l’importanza del suo predecessore. Sembra che Cameron abbia intenzione di trattare questo franchise come una grande saga famigliare – vedi la skywalker saga – o una specie di “Le cronache di Pandora”. Il fatto è che tutto quello che succede in questo secondo capitolo avrebbe potuto funzionare ugualmente in un film da 100 minuti, forse meno; invece ci troviamo di fronte ad una mastodontica opera da più di 190 minuti. Però non bisogna fraintendere, Avatar – La via dell’acqua sfrutta appieno il minutaggio, ma lo sfrutta per raccontarci Pandora e un po’ meno i personaggi. Se il primo capitolo di Avatar usava un modello classico come leva per non disperdere troppo l’attenzione, in questo secondo non c’è un vero e proprio archetipo a cui appoggiarsi. O, per meglio dire, c’è ne più di uno, ma nessuno di questi è esplorato a fondo. I protagonisti originali – Jake e Neytiri – all’inizio diventano dei semplici espedienti per dare inizio alla storia, per poi venire relegati a comprimari e venire richiamati in causa solo nel finale, quando subentra un certo tipo di azione che richiede delle figure adulte. Cameron decide di concentrarsi sullo sviluppo narrativo dei giovani; in particolare del ribelle Lo’ak, che vive praticamente lo stesso conflitto e arco di Jake nel primo film. Questo rende meno interessante il suo sviluppo e la scoperta della tribù Metakaina, che di fatto ripercorre una storia già vista e sviluppata. Inoltre c’è tutta una trama parallela che vede protagonisti il colonnello Quaritch e il ragazzo umano Spider che, allo stesso modo, risulta debole e poco sviluppata. Così come tutto lo strato narrativo ulteriore che coinvolge il personaggio di Kiri, che ha la semplice funzionalità di appiglio per il futuro. Non credo di sbagliare nell’affermare che questa quantità di trame e approssimazione sia data dalla natura di episodio che funge da passaggio di testimone tra Jake e Lo’ak, per poter avere dei personaggi solidi per i film successivi.
Con questo non voglio dire che Avatar – La via dell’acqua sia paragonabile alla natura seriale intrapresa, per esempio, dai film Marvel; ma semplicemente che fa parte di qualcosa di più grande. Il film funziona, e cosa più importante, funziona da solo, ma questa volta non è bastata l’innovazione tecnologica, i temi anticolonialisti, ambientalisti e l’amore delle persone per le storie.

I motivi del successo
Nonostante questi limiti, Avatar – La via dell’acqua ha conquistato comunque il pubblico.
Probabilmente Cameron deve il successo della pellicola anche alla situazione odierna del cinema stesso. Un cinema che probabilmente ha “abituato” male il proprio pubblico, vendendo serie Tv al cinema e rendendole fruibili tranquillamente sul divano di casa propria. Avatar – La via dell’acqua, esattamente come lo fu il primo, è un’esperienza che va vissuta al cinema, un’esperienza collettiva. Questo fatto da solo ha sicuramente contribuito all’impatto che ha avuto il film sul pubblico. Nel 2009 fu il 3D a nascondere la “trama semplice”; di fatto fu la magia del cinema stesso a elevare il film. Oggi non dovrebbe essere più così, dato che sono passati più di 13 anni e la tecnologia si è evoluta. Invece il semplice fatto che un film sia molto curato dal punto di vista visivo riesce ancora a offuscare la nostra vista sulla mancanza di contenuti. Abituati a un cinema che oggigiorno è volto semplicemente alla produzione in serie e non alla qualità, un film “semplicemente” solido come Avatar – La via dell’acqua viene percepito come rivoluzionario.
Poi ci sarebbe solo da inchinarsi davanti alla grandezza di James Cameron che, ancora una volta, ha messo un altro suo film nella top 5 dei più grandi incassi della storia.
E ora, mentre Pandora si prepara a riaprirsi con Avatar 3, la sensazione è che Cameron stia provando a fare qualcosa di ancora più grande: non solo portare avanti una saga, ma costruire un vero e proprio mito contemporaneo.
La speranza è che, nel farlo, il regista canadese non si adagi troppo nelle acque di Pandora e si ricordi di essere – oltre al produttore più prolifico di sempre – un grande regista.