A tre anni dall’acclamato, ma modesto, Talk to Me i fratelli Philippou tornano in sala con Bring Her Back, un horror che proprio come il precedente lavoro del duo australiano, parte bene e pieno di spunti interessanti ma che a metà del secondo atto si sgonfia, lasciandosi cadere in una superficialità al limite del banale. Il film, prodotto da Causeway Films e distribuito da A24 arriverà in sala il 30 luglio.
Bring Her Back: Sinossi
Dopo la tragica morte del padre, Andy (Billy Barratt) e la sua sorrellastra Piper (Sara Wong) vengono affidati a Laura (Sally Hawkins), una donna che sembra sin da subito avere una predilizione quasi morbosa per Piper. Insieme a Laura abita anche il giovane Oliver (Jonah Wren Phillips), un bambino con apparenti disturbi del comportamento.
Bring Her Back: un body-ritual horror senza mordente. O quasi.
Per il loro secondo lungometraggio i fratelli Philippou scelgono di rimanere sull’horror ma di cambiare leggermente registro. Se con Talk to Me si erano affidati all’horror spiritico e di possessione, con Bring Her Back il duo australiano si affida ad un mix di body horror e horror rituale. Lo spunto si rivela molto interessante specialmente nella prima metà del film, con una presentazione dei protagonisti e dell’intreccio accattivante. Per più o meno metà film il ritmo è buono, dando spazio ad una crescente tensione che si accumula soprattutto nel crescendo della morbosità di Laura nei confronti di Piper, ma anche grazie al rapporto che la madre affidataria ha con il piccolo Oliver. Ma gran parte del merito va all’introduzione alle vicende narrate dal film, nella quale, in alcuni nastri registrati , ci vengono mostrate scene di un misterioso e terribile rituale demoniaco. È proprio questa cornice a mettere lo spettatore in allerta, e a tenere alta la tensione ci pensano gli interessanti spunti registici che disseminano indizi qua e là. Questa prima parte è sicuramente la più riuscita di Bring Her Back, che gioca con lo spettatore in maniera molto intelligente, anche grazie ad una Sally Hawkins in gran spolvero. I problemi però arrivano nella seconda parte del film, che perde completamente la via in un susseguirsi di banalità sia dal punto di vista della sceneggiatura che dal punto di vista registico.
Bring Her Back: ancora tu… ma non dovevamo vederci più?
Il Maestro Mogol e l’immenso Lucio Battisti mi perdoneranno per aver preso in prestito una frase di una delle loro canzoni più popolari, ma vedendo Bring Her Back è proprio questo il primissimo pensiero. L’opera seconda dei fratelli Philippou sembra ricalcare il loro esordio, sembra di vedere due film uguali ma in una veste diversa. Sia per ciò che riguarda la regia sia per i temi trattati. I più critici potranno obbiettare ritenendo che una regia e dei temi riconoscibili siano il marchio distintivo che permette ad un autore di fregiarsi di tale titolo. A questi rispondo che per essere considerati autori si deve essere in grado di saper sviluppare, all’interno della pellicola, un pensiero critico che i fratelli Philippou, ad oggi, non possiedono. Bring Her Back, così come Talk to Me, rimette in scena un altro film a metà tra il dramma familiare e l’horror in cui il trauma della morte non viene superato. E proprio come nell’opera precedente il duo registico rimane impigliato in questo limbo che non permette al film di risolversi in maniera spontanea. Nella seconda parte della pellicola tutto sembra stiracchiato per portare ad una conclusione scontata e da libro cuore che nulla ha a che fare con i terrificanti filmati d’apertura. Anche dal punto di vista registico si ritorna al già visto, con i movimenti di macchina in rotazione sull’asse che seguono alcuni movimenti specifici dei protagonisti o con i piani fissi su dettagli importanti per lo svolgimento della trama. Ma ciò che veramente non permette a Bring Her Back di prendere la giusta piega è l’assenza di un ritmo accettabile. Ancora una volta nella seconda parte, il film sembra sfuggire di mano ai registi tramutandosi in una rapidissima sequela di scene che non lasciano il tempo allo spettatore di coltivare alcuna emozione. Tutto diventa frenetico improvvisamente, poi si ferma, poi riparte a velocità ancora maggiore; il tutto andrebbe bene se fosse un film d’azione ma cozza inevitabilmente con il taglio drammatico e psicologico dell’opera.
In conclusione
Proprio come Talk to Me, Bring Her Back non è un brutto film. Ha degli ottimi spunti, soprattutto nel primo atto, e una buona direzione ma i fratelli Philippou non riescono a limare quelle imperfezioni che in Talk to Me erano completamente accettabili e che oggi lo sono un po’ meno. Bring Her Back rimane in un limbo senza aggiungere nulla alla miriade di film che hanno trattato gli stessi temi (il lutto e la sua elaborazione), ed è un peccato perché ai due registi australiani la stoffa non manca. Quel che manca è forse quel pizzico di coraggio in più nello scegliere la natura delle proprie opere che soffrono troppo di un dualismo che non gli permette di emergere, lasciandole in un limbo che mette a repentaglio ogni tentativo di sviluppo interno.