‘Antropophagus: Le origini ‘- Il sangue non mente mai
Dario Germani firma un prequel e speen-off ambizioso che rilegge il cult di Joe D’Amato con un linguaggio visivo potente. Tra passato e presente, gore artigianale e atmosfere d'autore, un horror che scava nelle radici maledette della famiglia Wortmann
Nel cuore dell’horror italiano contemporaneo, il regista Dario Germani riallaccia il filo di un incubo che ha sedotto e scandalizzato generazioni: “Antropophagus” di Joe D’Amato(1980). Il suo prequel e insieme speen-off, Antropophagus – Le Origini, abbraccia le radici dell’originale ma cerca, al contempo, un linguaggio visivo più raffinato e cinematografico. É un omaggio viscerale a quel culto disperato, intriso di genealogie familiari, sangue e violenza. Un audace tentativo di riportare in vita un pezzo di storia dell’horror italiano.
Il film, dal 28 luglio nelle sale italiane, è prodotto da Flat Parioli. Nel cast: Valentina Corti e Salvatore Li Causi.
«Da un lato l’omaggio colto a un cult del cinema horror italiano degli anni ’80, dall’altro la volontà di aggiornare quell’estetica ai linguaggi del contemporaneo.»
Antropophagus le origini La storia di una stirpe maledetta
La trama ruota intorno ad Hanna (Valentina Corti), giovane infermiera in fuga a Budapest dopo la morte misteriosa del marito. Un viaggio che si trasforma presto in un incubo: una casa sperduta, un cugino ambiguo (Salvatore Li Causi) che la coinvolge in una spirale di violenza e antica e un’eredità di sangue che affonda le radici nel cannibalismo familiare. Lì, infatti, la donna scoprirà di essere l’erede di una stirpe maledetta: gli antenati Wortmann, affamati e cannibali durante il dopoguerra.
Dario Germani costruisce un racconto che alterna atmosfere claustrofobiche a esplosioni di violenza, cercando un equilibrio fra cinema di genere e tensione psicologica. Non si limita all’horror: plasma un universo in cui la carne è simbolo di peccato, eredità e desiderio di sopravvivenza. La regia mescola sapientemente rigore narrativo a immagini cruente. Le ambientazioni, fredde e claustrofobiche, contrapposte a momenti di puro gore, creano un’estetica tanto sofisticata quanto disturbante. Gli echi del film originale si ritrovano nei dialoghi e nel ritmo costruito a colpi di silenzi e dettagli fotografici. Ed è proprio qui che viene fuori la formazione di Germani come direttore della fotografia, ed emerge in ogni inquadratura: il formato panoramico 1:66, i contrasti netti delle luci e la scelta di location autentiche nell’Europa dell’Est conferiscono al film un fascino particolare che ne esalta le atmosfere. Così come i colori, spesso tendenti al grigio e al rosso, sigillano l’atmosfera decadente e mortale.
Non un remake ma un omaggio
Antropophagus: Le Origini, è un film che più che citare, scava nelle paure antiche e le mette in scena con un rigore che spiazza. In perfetto equilibrio tra celebrazione e autonomia, il film non è un remake, ma un atto di fedeltà. Un’opera coraggiosa che prova a ridefinire i confini dell’horror italiano contemporaneo senza temere il confronto con un classico divenuto cult. La sceneggiatura si sfilaccia però verso il finale, lasciando emergere buchi narrativi, anche se la tensione visiva rimane potente. Antropophagus: Le origini si configura come film di genere nella sua forma più ardente. E alla fine divide, provoca e infetta.
Regia e cast
Valentina Corti è l’anima del progetto. Offre una performance intensa e controllata nei panni di Hanna, la protagonista tormentata, una giovane donna in fuga da un passato traumatico che scopre di essere l’erede di una maledizione familiare legata a rituali cannibalistici. Li Causi, protagonista maschile nel ruolo di Hugo, riesce ad attenuare la ferocia con umanità, lasciando emergere un’altra figura: quella di chi soccombe al dovere familiare. Entrambi rievocano la brutalità dei vecchi protagonisti (George Eastman e Klaus Wortmann) del film cult di D’Amato.
Dario Germani si conferma con Antropophagus: Le originiuno dei registi di genere più interessanti del panorama italiano contemporaneo. Ex direttore della fotografia, costruisce il film con una precisione visiva che lo distingue: luci fredde e ambientazioni essenziali che restituiscono la claustrofobia dei personaggi. La sua regia si muove tra fedeltà al cult originale e ricerca di un’identità autonoma.
Confronto con l’originale di Joe D’Amato
Joe D’Amato aveva diretto nel 1980 Antropophagus, un film viscerale, realizzato con budget ridotto e un linguaggio istintivo. La fotografia granulosa amplificava il senso di disagio e di crudeltà. Le scene, girate con urgenza e senza fronzoli, avevano un unico obiettivo: scioccare. Iconiche le scene gore, dalla decapitazione alla celebre sequenza del feto. Dario Germani, al contrario, costruisce un universo visivo più elegante preferendo un approccio più estetico. La fotografia è studiata, le inquadrature sono piene di simbolismi e gli effetti gore artigianali di David Bracci sono ricercati. Ne guadagna la bellezza formale, a discapito però del disagio immediato che invece generava il film originale.