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‘Fratelli di culla’: il sud dell’infanzia

Alla XIXa edizione del SalinaDocFest abbiamo intervistato Alessandro Piva, che ha portato in concorso 'Fratelli di culla'

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Fratelli di culla

Fratelli di culla è l’ultimo lavoro di Alessandro Piva, regista, sceneggiatore, produttore, montatore, animatore culturale, giornalista, docente, pubblicitario, uomo di cinema e cultura a tutto tondo, che ha sempre fatto dell’impegno e dell’originalità il suo marchio di fabbrica. Esploso con un film di culto come LaCapaGira (1999), Alessandro Piva non ha mai smesso di muoversi tra i diversi linguaggi dell’audiovisivo, diventando uno dei più interessanti registi italiani, nella sua ininterrotta passione per la trasversalità comunicativa. Lo abbiamo intervistato alla XIXa edizione del SalinaDocFest, dove il suo Fratelli di culla ha commosso tutti e vinto il premio per il miglior montaggio.

Come hai incrociato la storia di Fratelli di culla?

Una cosa abbastanza singolare. Io da piccolo ho vissuto a lungo a pochissimi metri dal brefotrofio che racconto nel film. Ero incuriosito da quel luogo, sin da bambino, nelle modalità dell’età: della serie m’intrufolo e vado a vedere che misteri ci sono lì, una struttura ormai abbandonata. Quando sono tornato a Bari, molti anni dopo, il mio sguardo da adulto l’ha indagato con una curiosità diversa, il desiderio di conoscere le storie che quell’istituto custodiva. Ho sorprendentemente scoperto che migliaia di miei coetanei erano stati ospitati in quel luogo nei primi mesi o anni della loro vita.

Soprattutto nella parte iniziale di Fratelli di culla descrivi un’epoca in cui donne e bambini sembrano vivere in un mondo di serie B.

Fratelli di culla è un film molto al femminile. Questo è dovuto alla morale comune in auge in Italia sino alla fine degli anni ‘70, in cui il ruolo della donna era totalmente subalterno e intimamente e indissolubilmente legato a quello dell’infanzia. Tant’è vero che anche gli operatori dell’istituto che raccontiamo nel film erano, nella stragrande maggioranza, donne. Peraltro, le donne erano spesso sedotte o forzate dagli uomini a rimanere incinte fuori dal matrimonio e poi costrette a lasciare i neonati nel brefotrofio. Quindi una doppia subalternità, sociale e sessuale, un fenomeno imponente nell’Italia del dopoguerra.

Alessandro Piva riceve da Daniele Vilardi il Premio Media Fenix per il migliore montaggio

Alessandro Piva riceve da Daniele Vilardi il Premio Media Fenix per il migliore montaggio

L’ambiente del brefotrofio che hai descritto sfugge, però, al luogo comune dell’istituzione cupa e un po’ degradata che tutti abbiamo.

È vero, dai racconti che hanno fatto decine di operatrici di quell’istituto, emerge un quadro chiaro: l’infanzia e la primissima infanzia sono state accudite con grande attenzione da parte di quell’universo femminile fatto di bambinaie, puericoltrici, balie, educatrici e simili. Lo stesso non si può dire di quei bambini più sfortunati che, superati i tre anni d’età, sono stati traghettati negli orfanotrofi, gestiti in maniera molto più approssimativa. Invece il dispendio di energie dello Stato, sia in risorse economiche che in attenzione psicologica, umana e affettiva delle operatrici era incomparabile in quella fascia d’età che andava fino ai tre anni. Tra l’altro, l’istituto, essendo quasi tutto al femminile, era anche un modo e un luogo per emanciparsi dalla gabbia della donna tutta casa, chiesa e famiglia dell’epoca. Questa comunità al femminile che operava nell’istituto era una sorta di oasi, un’isola felice per quelle lavoratrici, costruendo una realtà amicale anche molto forte.

Che cosa ti ha colpito di più delle tante storie che racconti in Fratelli di culla, dall’abbandono all’adozione fino alla ricerca dei propri genitori naturali?

La prima cosa che mi ha colpito è che l’Italia che raccontiamo in questo film è un Paese lontano anni luce da oggi, anche se appartiene al nostro passato molto recente. Pensa che questi istituti sono stati chiusi solo alla fine degli anni ’90. Poi, certamente, sono stato colpito da questa storia, e ho deciso di approfondirla, per il fatto che molti miei coetanei hanno scoperto di essere stati adottati soltanto da adulti, spesso in occasione del matrimonio, quando bisognava procurarsi documenti come l’atto storico dell’estratto di nascita o il certificato di battesimo. Per molti di loro, essendo stati adottati in tenerissima età, le famiglie adottive, nella maggior parte dei casi, hanno valutato di non raccontare ai bambini, neanche una volta cresciuti, la loro vera condizione. Questo ha portato a delle scoperte che sono state delle rivoluzioni per molti di loro. Questa immagine di persone adulte che portano alla luce, da un giorno all’altro, di non avere vicino a sé i genitori naturali, mi è sembrata una storia forte, meritevole d’essere raccontata. È la vicenda umana che mi ha colpito di più.

Alessandro Piva sul set di Fratelli di culla

Alessandro Piva sul set di Fratelli di culla

Tutto il mondo che hai descritto in Fratelli di culla è completamente femminile. Che cosa hai imparato di più da tutta questa vicenda che racconti?

Che esiste una sorta di cordone ombelicale invisibile tra mamme e figli che non s’interrompe alla nascita, ma che continua sottotraccia per tutta la vita. La stragrande maggioranza delle persone che mi hanno voluto raccontare la loro storia di adozione, una volta scoperta la situazione, si è messa alla ricerca delle madri naturali. In pochissimi si sono posti, invece, il problema di rintracciare i padri.

Alle tue origini di cineasta c’è proprio il documentario, che cosa ti affascina di più di questo genere narrativo?

Io sono curioso del prossimo e di storie anche lontane da me, soprattutto se ascoltate da chi me le sa raccontare. Spesso e volentieri alcuni dei miei lavori più importanti sono stati innescati semplicemente dall’ascolto di comuni persone che mi volevano raccontare la loro storia. Quando queste storie personali sono emblematiche di una condizione più ampia, magari spaccati del nostro Paese poco raccontati, allora scatta in me la voglia di dedicare loro un pezzo della mia vita. Perché, di fatto, quando un regista fa un film o gira un documentario, dedica una porzione più o meno rilevante della propria vita a un racconto. Quando questo progetto parla di un’epoca o di un evento dei quali rimane poco altro o nient’altro che la memoria orale, la testimonianza diretta, allora la sensazione di star facendo qualcosa d’importante aumenta. Penso, ad esempio, al mio documentario Pasta nera che, da un’altra angolatura, racconta il mondo dell’infanzia in un’epoca simile a quella di Fratelli di culla. Poco dopo averlo terminato, una parte importante dei testimoni che avevo intervistato già non c’era più o non aveva la stessa lucidità con la quale mi aveva narrato la sua storia. Questo, secondo me, rende il nostro lavoro importante, nel raccontare il nostro Paese, non solo attraverso i manuali di storia, ma anche per mezzo di quel patrimonio intangibile, ma preziosissimo, che è la memoria orale.

Fratelli di culla

Fratelli di culla

Dopo il grande successo soprattutto di LaCapaGira, ma anche di Mio cognato, la tua attività di regista di lungometraggi di finzione è stata sempre più sporadica. Problemi produttivi o scelte personali e artistiche?

Un mix di coincidenze. Fare un film oggi, soprattutto farlo con la libertà della quale sento di aver bisogno, comporta dei compromessi ai quali, certe volte, non ho voglia di sottostare. Più in generale, però, ogni storia arriva al momento giusto. Ho anche percorso altri territori, penso al teatro, alla radio, all’opera lirica, alle videoinstallazioni, mi piace esplorare i più diversi linguaggi della comunicazione artistica. Poi, certo, mi piace fare cinema e non penso ci sia una distinzione netta tra documentario e finzione: quando racconti delle storie che coinvolgono una parte di te, emozionano e fanno riflettere lo spettatore, stai facendo il cinema. E questo per me è l’essenziale.

Oggi sei decisamente un filmmaker a tutto tondo, occupandoti dei più diversi formati audiovisivi: didattici, istituzionali, politici, documentari, anche da un punto di vista produttivo. È il segno del cambiamento della figura classica del regista nei nostri tempi?

Anche i registi di più grande successo ci mettono spesso molti anni a girare un film o a metterne in cantiere un altro. Siamo in un’epoca in cui non dobbiamo più contare il volume di fuoco, ma la qualità della nostra narrazione, il segno che lasciamo con il nostro lavoro. Per molti di noi basta anche solo fare un film importante, in realtà. Io spero di averne fatto già più di uno, tra cinema di finzione e documentario e, comunque, ho ancora un po’ di tempo per sparare qualche altra cartuccia.

LaCapaGira

Che cos’è oggi per te l’impegno politico e civile? È un segno molto forte soprattutto nel tuo lavoro come documentarista.

Quando un progetto politico mi coinvolge, mi convince, se posso, cerco di aiutarlo, di andare incontro alla politica migliore, a quella che mi pare la migliore, soprattutto nella mia regione, la Puglia. Parteggio sempre affinché la società civile possa esprimersi e affermarsi, ma, certamente, l’azione più utile per migliorare il Paese rimane lavorare nel mio campo di elezione, il cinema.

Quali sono stati i tuoi punti di riferimento cinematografici? Quelli che ti hanno portato a voler diventare un regista?

Per ogni anno della mia vita potrei citare dei registi diversi, che hanno influenzato la mia sensibilità. Certamente l’aver frequentato il Centro Sperimentale, in particolare incontrando persone anche di altri Paesi, ragazzi che, come me, erano animati dalla voglia di fare un cinema nuovo, mi ha aiutato a guardare con orizzonti più ampi il mio mestiere. Per quanto riguarda i maestri, nella prima fase della mia vita i fari sono stati Rainer Werner Fassbinder, Martin Scorsese, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, poi via via sono arrivati Abbas Kiarostami, Aki Kaurismäki, gli orientali, insomma, ovunque io veda del buon cinema, scatta l’attrazione. Credo che non ci siano confini, né generazionali né geografici, il buon cinema può essere dappertutto, delle volte anche in film non perfettamente riusciti, ma che accendono quella scintilla che ti consente d’immaginare un nuovo modo, più ricco e interessante, di fare cinema.

Progetti futuri?

Ho in cantiere un altro film documentario e poi uno di finzione che torni a raccontare il sud con le coordinate del mio esordio, LaCapaGira, che all’epoca lasciò un segno. Non sono sicuro di riuscire a farlo adesso, perché serve un altro tipo di energia, ma che il sud vada raccontato con una certa originalità, che vada fatto, non ho dubbi.

LaCapaGira

LaCapaGira