L’occhio della gallina è un vibrante e appassionato atto di denuncia della situazione del cinema italiano. Passato in concorso alla XIXa edizione del SalinaDocFest, racconta la passione culturale e politica della regista Antonietta De Lillo, la sua vicenda personale e processuale a seguito del successo di un film diventato presto invisibile al cinema, Il resto di niente (2004).
Qual è la metafora dietro un titolo come L’occhio della gallina?
È una metafora legata a un ricordo di me ragazzina, perché la prima volta che ho visto l’occhio della gallina, come in un primo piano, ho notato che si chiudeva al contrario e mi sono spaventata, temendo che fosse frutto della mia immaginazione.
Quella che racconti in L’occhio della gallina è una sorprendente storia di censura silenziosa e, per questo, un esercizio di potere particolarmente odioso. Quanto è una storia universale?
Non avrei mai raccontato una vicenda così personale se non fossi stata totalmente convinta che la storia accaduta a me succede a tante altre persone, ovunque. Il nostro è un mondo che funziona al contrario, da qui il titolo del film. Si stanno perdendo i diritti e, soprattutto, la solidarietà, intesa in senso politico, perché se una persona viene toccata ingiustamente, tutti dovrebbero intervenire in sua difesa, quel che non è accaduto a me per oltre vent’anni. Ho cercato di creare un personaggio in cui ognuno si può identificare. Una storia emblematica di un sistema che non funziona, quello del cinema. Tutti si concentrano sullo spreco di soldi, invece L’occhio della gallina parla della negazione di un supporto, che riguarda tante persone, soprattutto nel cinema indipendente, estremamente creativo, divenuto quasi invisibile, perché non più distribuito.

Antonietta De Lillo
Quanto è stato difficile realizzare L’occhio della gallina?
Ogni film è una scommessa e non sai mai se la vinci o la perdi. Però realizzare un documentario dove si è anche protagonisti è veramente un doppio salto mortale. In più è una storia di denuncia, in cui dall’altra parte ci sono giganti e tu sei un essere piccolo. Quindi sai che non puoi sbagliare nulla sia da un punto di vista estetico che di contenuto, perché stanno lì pronti a massacrarti. Fino al giorno prima di andare alla Mostra di Venezia mi hanno mandato fax chiedendomi di non esserci. Quindi, se avessi minimamente sbagliato, lanciandomi in qualche affermazione non ben documentata, in tribunale ci finivo sicuramente.
Che accoglienza e che dibattito ha suscitato?
È piaciuto davvero, tanto che in molti mi hanno chiesto di tornare a fare lungometraggi. Io, veramente, sono vent’anni che mi batto per fare un altro film… Credo ci sia una rimozione, anche tra i miei colleghi, perché siamo stati educati, negli ultimi decenni, a pensare solo a noi stessi, quindi, quando qualcuno ti pone un problema, politico, non personale, se sia giusto che noi permettiamo che accadano certe cose e non facciamo niente, ti emarginano. È quello che è accaduto a me, un peccato che è stato compiuto dal nostro cinema, con la complicità di molti, compresi critici e giornalisti, non solo le alte sfere del sistema audiovisivo italiano. C’è stata e continua a esserci una censura nei miei confronti, pure se, devo dire, non da parte di tutti, essendo stata a Venezia e anche candidata ai David Donatello. Per fortuna, anche con un piccolo lavoro di nicchia, come L’occhio della gallina, sono riuscita a raggiungere il pubblico, che ho avuto dalla mia parte, gli addetti ai lavori no, perché anche culturalmente ci sono dei dogmi, pure nel mondo del documentario, mentre io coltivo un cinema unico e controcorrente. C’è chi dice che il cinema sia immagine, per me è suono, immagine, scenografia e montaggio, non c’è un primato dell’uno sull’altro.

Pensi ancora ci siano dei dogmi anche nel documentario che, invece, mi sembra particolarmente aperto agli stili più diversi?
Certo che ci sono. Il problema è più ampiamente culturale: si vuole dividere tutto in buoni e cattivi, cinema indipendente e cinema mainstream, documentari di osservazione e di narrazione, ogni cosa deve avere certe regole e questo finisce per confezionare dei prodotti tutti uguali, anche quelli autoriali. Quello che noi dovremmo invece coltivare, nel cinema e nella vita, è la nostra unicità. Abbiamo noi stessi paura a non conformarci. Finiremo schiacciati non dall’intelligenza artificiale fuori di noi, ma da quella dentro di noi, che ci è stata inculcata. Ormai vige la parola d’ordine che il cinema è industria, ma il cinema è cultura.
Il genere del documentario ha una sua antica nobiltà. In Italia, a occhio, c’è una parità di genere come registi di documentari che sparisce quando si passa al lungometraggio di finzione. Come spieghi questo caso?
Io ho continuato a lavorare anche dopo la vicenda di Il resto di niente, ma ho fatto documentari perché più alla portata di un cinema indipendente che poteva affrancarsi delle Istituzioni. Con il cinema di finzione è molto più complicato, tanto più perché mai come in questi anni si sono legati Istituto Luce, Cinecittà, Ministero della Cultura e Rai Cinema, quindi, se si compattano nel lasciarti fuori dal sistema, non c’è niente da fare. C’è anche il pregiudizio che le donne offrano meno garanzie.
C’è, secondo te, anche una componente di genere in quello che ti è successo?
Sicuramente sì. Io fino a quarant’anni non ho mai sentito il mio essere donna come un genere da difendere, ma, da quello che poi mi è accaduto, ho capito che, quando il gioco si fa grande, quando devi prendere dei ruoli di potere, fai paura. Non perché tu non sia affidabile, ma perché devi stare zitta, devi stare dentro il sistema. Alla fine, i modelli sono sempre gli stessi. Quindi, sì, ha pesato il mio genere, nel non trovare una soluzione o anche solo un dialogo riguardo la vicenda di Il resto di niente. Mio malgrado sono diventata un simbolo. Credo che gli uomini si irrigidiscano quando trovano una donna che si vuole confrontare in maniera paritaria. I miei interlocutori, in tutti questi anni, sono sempre stati uomini.

Il resto di niente
Cosa ami di più del documentario e cosa, invece, del cinema di finzione?
Mi piacciono tutti e due. Non mi considero né una regista di fiction né di documentari, ma una raccontastorie. Quando faccio un film di finzione, penso al documentario; quando faccio un documentario, penso a un film di finzione. L’occhio della gallina ha, per esempio, un impianto da fiction. Questo lo rende estremamente godibile.
Questo è anche merito dell’ottimo lavoro fatto al montaggio da tua figlia, Elisabetta Giannini De Lillo.
I complimenti se li merita tutti, perché penso sia stata veramente brava. Il montaggio in un documentario è come la sceneggiatura nella fiction: è il coautore. Chi mi conosce sa che più mi sei vicino più ti tratto male, però, secondo me, lei ha fatto un ottimo lavoro, anche di salvaguardia della mia persona. Essendo anche la protagonista di L’occhio della gallina, c’era bisogno di qualcuno che non fosse troppo benevolo nei miei confronti. Non è facile parlare di se stessi, Elisabetta mi riportava sempre sulla strada dritta.

L’occhio della gallina
Tornando indietro nel tempo, ci racconti una memorabile un’esperienza come I vesuviani?
È stata davvero memorabile. Lì c’era tutta una generazione di grandi autori napoletani che stava emergendo. Ci conoscevamo, frequentavamo, aiutavamo e abbiamo pensato di fare un film a episodi. I vesuviani è nato casualmente, con un basso profilo. Carlo Freccero si entusiasmò del progetto, ci fece trovare con facilità i soldi per metterlo in piedi. Si mosse una grande macchina pubblicitaria che parlava di una scuola napoletana che non c’era mai stata. Si gonfiò l’aspettativa come uno dei film più attesi della Mostra del Cinema di Venezia di quell’anno. Mi ricordo benissimo che, quando ci vennero a prendere per la conferenza stampa, c’era un’aria plumbea, dopo che la prima proiezione era andata male, qualcuno aveva addirittura fischiato. Cinque episodi erano tanti. È stato un po’ un gioco, ma il mio Maruzzella mi piace. Credo che, anche quella volta, essere donna, l’unica tra i registi, non mi abbia giovato. Tutti parlarono solo dell’episodio di Mario Martone. Penso che la critica sia stata un po’ squilibrata nei confronti del film. Il difetto di Maruzzella è l’essere troppo breve, ora lo allungherei inquadratura per inquadratura, ma lo difendo, secondo me è un gioiellino. Da I vesuviani è come se tutti si aspettassero non so cosa. Venezia è così: fa nascere film e registi o li ammazza, ha questa capacità.
C’è ancora un dialogo tra voi registi di quel film?
I vesuviani invece di unirci ci ha separato. L’unico di quel gruppo con cui sento di avere un certo rapporto è Mario Martone che, per inciso, aiutai a debuttare anni prima nel cinema. Antonio Capuano ha un carattere difficile che lo rende anche un po’ respingente, soprattutto è poco accogliente nei confronti delle donne. Pappi Corsicato lo conosco da quando eravamo ragazzini, ma non c’è il dialogo artistico che ho con Mario Martone.
Oggi c’è uno straordinario fermento di creatività artistica e cinematografica che viene da registi napoletani, cito solo Mario Martone e Paolo Sorrentino come punte. C’è una specificità dello sguardo, del pensiero, che viene da lì?
Certo, questo è fuori dubbio. Siamo stati io e Giorgio Magliulo i pionieri di questo cinema. Napoli è una città che ti dà una marcia in più. Perché il napoletano guarda l’altro. Lo guarda per difendersi o per fotterlo, ma non è mai concentrato solo su se stesso. Ha questa intelligenza dell’altro, per fare bene o per fare male. C’è un’attenzione verso l’esterno che è un arricchimento. È una formazione di noi napoletani, non abituati a essere incasellati, anche da un punto di vista artistico. E poi abbiamo un continuo scambio tra cinema e teatro.

Il resto di niente
In questo gruppo di registi napoletani non si può non menzionare Paolo Sorrentino.
I suoi primi film, soprattutto il primo, erano eccellenti, poi, man mano, il sistema lo ha cooptato fino ad arrivare a Parthenope di cui, francamente, non capisco il senso. Paolo Sorrentino è di una generazione dopo la mia. Lo stimo e lo ammiro, però non bisogna avere paura di dire che credo stia prendendo una strada artistica sbagliata. Penso faccia bene a noi registi qualcuno che ti dica la verità; peraltro, dentro di sé, uno la conosce, anche se, quando uno è coccolato dal sistema, ti fanno credere quello che vogliono. Penso lui comunque senta un certo malessere come artista. Chissà che nel nuovo film, La grazia, ci sia un recupero d’orgoglio e torni alle sue origini.
Che cos’è oggi, per te, il cinema d’impegno?
Non mi piace né la definizione di intellettuale né quella di cinema d’impegno. Se impegno vuol dire impegnarsi in quello che fai, allora sì il mio è un cinema d’impegno, ma io direi che la mia è tutta una vita d’impegno, qualunque cosa faccia.
Alla fine, il film in cantiere da tanti anni partirà?
Quella per Morta di soap, in conclusione, è stata l’ennesima vittoria di Pirro. Grazie alle tante cause fatte, alla fine sono stata finanziata con 500mila euro per un progetto di quindici anni fa, senza accettare il mio invito a dialogare, per capire se veramente questo film si vuole fare o no. Nel frattempo, sono stata presa da tante cose, soprattutto dal progetto dei film partecipati, che mi danno molta soddisfazione. Sto inoltre aiutando mia figlia Elisabetta Giannini De Lillo a sviluppare un documentario e un altro suo progetto. Mi piacerebbe moltissimo, però, fare un nuovo film di finzione, o una serie, una specie di La meglio gioventù a Napoli, dal dopo terremoto a oggi. E poi anche un’altra serie di cui ho già il titolo: The Last Show, in cui ogni puntata è un funerale. Inizia con una morte e finisce con un funerale.
